mercoledì 3 febbraio 2016

US E&P

Uno dei settori nei quali cercare opportunità di stock picking al momento è sicuramente quello energetico. Ho cercato di studiare un po’ il mercato in aggregato per meglio comprenderne le dinamiche, limitandomi per il momento alle aziende americane di exploration & production (E&P): ci sono occasioni anche in mercati complementari (oil services) ed altre regioni, ma oltre a presentare difficoltà per un investimento diretto da parte del retail, le aziende integrated di molti paesi (Russia, Cina, India) e quelle che esplorano in zone più esotiche (Africa, Papua Nuova Guinea) presentano altri fattori di rischio (geopolitici, corporate governance) che complicano l’analisi (senza tralasciare la possibilità di una prossima parziale privatizzazione e quotazione di Saudi Aramco).
[Nota: per maggiore omogeneità, tutti i dati presentati di seguito sono fino al terzo trimestre 2015, in quanto non tutte le aziende hanno ancora riportato i risultati per l’intero 2015].


Come già sottolineato, l’elemento che colpisce maggiormente è come praticamente nessuno avesse anticipato il crollo del petrolio: nessuno aveva infatti previsto quanto il mercato potesse essere sensibile a quelle che prima erano considerate variazioni relativamente minori nella domanda ed offerta, ed un eccesso di offerta di 2%-3% è bastato per far precipitare il prezzo di 70%.

Secondo punto: qualche anno fa si riteneva che il prezzo minimo per incentivare la scoperta di nuovi giacimenti fosse superiore a $100, spesso citando a supporto anche il livello di $80-$90 necessario a far “quadrare” il bilancio dell’Arabia Saudita. In realtà abbiamo scoperto che questi livelli sono flessibili: quando il prezzo diminuisce, gli E&P riescono “miracolosamente” ad estrarre petrolio alla metà del costo nei momenti di boom! Quando la domanda comincia a diminuire, molte delle attività (impianti, piattaforme di trivellazione, tankers, …) che erano state precedentemente contrattate diventano superflue, ed il costo per il loro utilizzo comincia a sua volta a calare. Questo significa che il costo marginale di produzione di un barile-equivalente non rimane fisso, ma diminuisce anch’esso (per lo meno la sua parte variabile), portando a maggior produzione ed una fase discendente del ciclo più lunga di quanto previsto inizialmente. Questa dinamica è al momento valida per tutte le commodities, e la tanto attesa riduzione dal lato dell’offerta sta richiedendo più tempo del previsto, portando a prezzi più bassi di quanto fosse ritenuto possibile. Le curve dei costi di produzione oggi non valgono la carta sulla quale sono stampate.

Produzione e produttori
A partire dalla creazione di OPEC negli anni 1970, in virtù delle sue immense riserve l’Arabia Saudita si è assunta il compito di “swing producer”, ovvero di adattare la propria produzione per raggiungere gli obiettivi di prezzo e/o volume che OPEC si era di volta in volta dato. Oggi, non solo OPEC mostra evidenti segni di cedimento a causa delle pressioni politiche ed economiche interne (in realtà non è mai stato così unito come si pensa: i suoi membri hanno sempre avuto e sempre avranno interessi discordanti), ma soprattutto lo swing producer sono diventati gli US.

C’è infatti una importante differenza tra shale oil ed i giacimenti deep-water offshore (come sono stati ad esempio negli anni 1970 quelli del Mar del Nord e quelli “promessi” oggi da Petrobras): le tempistiche per sviluppare lo shale sono molto più brevi. Una volta che le infrastrutture sono operative, ci vogliono meno di 12 mesi per trivellare un pozzo e rendere il gas disponibile sul mercato, rispetto ad oltre 10 anni per un progetto offshore. Wood Mackenzie stima che negli US ci siano oltre 3.000 pozzi già trivellati ma non ancora “fracked: la loro offerta potrebbe essere aggiunta in pochi mesi, e se ognuno di essi può produrre inizialmente 750-1000 barili al giorno stiamo parlando di 2-3 milioni di barili che sono per adesso tenuti in panchina. Questa offerta potenziale risponderà velocemente ai cambiamenti dei prezzi, e quindi agirà come una sorta di cap su quanto potranno risalire: i giorni del petrolio a $100 non saranno probabilmente rivisti per qualche tempo (anni?).  

La rivoluzione dello US shale
… ha portato ad una “nuova indipendenza energetica” degli US come non accadeva da prima della seconda guerra mondiale. I prezzi alti ed i tassi prossimi allo zero hanno infatti favorito l’esplosione delle esplorazioni e della produzione: non solo di shale oil, ma anche enormi progetti di liquefied natural gas (LNG) in Asia, Australia ed Africa [la “scommessa” da $70 miliardi di Shell su BG, oltre alla ristrutturazione in Brasile, è essenzialmente basata su LNG]. 

La produzione di petrolio, gas e derivati in US è aumentata del 72% tra il 2008 ed il 2014, mentre le importazioni nette sono diminuite del 42%. Gli US sono oggi il maggior produttore mondiali (11,6 milioni di barili al giorno: aggiungendo Canada e Messico si arriva a 18,7 milioni di barili), davanti ad Arabia Saudita (11,5 milioni) e Russia (10,9 milioni).


Fonte: BP Statistical Review of World Energy 2015, in milioni di barili al giorno (dati alla fine del 2014).

Lo sfruttamento di questi giacimenti “non-convenzionali” è caratterizzato da una produzione iniziale molto elevata seguita da un rapido declino (70% a partire dal secondo anno, poi 50% nel terzo ed un altro 30% nel quarto), che crea un enorme incentivo ad investire continuamente per mantenere i livelli di produzione. Dal lato dei consumi, le US E&P non possono però accedere liberamente ai mercati globali, perché solo adesso il congresso americano sta cominciando ad eliminare i divieti sull’esportazione dei prodotti petroliferi. Con l’offerta a livello globale che è aumentata più della domanda, il prezzo è ovviamente crollato.

Ma questo ha portato precisamente al problema attuale: il settore E&P in US non ha uno sceicco che può decidere di aprire o chiudere il rubinetto a seconda delle esigenze. Al contrario, il settore è molto frammentato e dominato dai produttori indipendenti, ognuno con i propri obiettivi ed incentivi per arricchirsi velocemente: ne consegue che non c’è alcun controllo sui livelli di produzione e quindi nessuna leva per agire sul prezzo. Per chi avesse deciso di leggere “The Prize”, troverà che questo è stato da sempre il dilemma per gli US (vedi l’introduzione della Texas Railroad Commission), con la continua guerra tra le majors e gli indipendenti su livelli di produzione, sussidi e tariffe sulle importazioni.

Nella stragrande maggioranza dei casi i bonus del management sono infatti legati ai livelli di produzione: metriche come rendimento del capitale (ROIC) sono molto rare, e gli accordi di co-partecipazione al successo di ogni singolo pozzo sono invece comuni (come nel caso del CEO di Chesapeake Energy). Anche le valutazioni accordate del mercato sono legate alla produzione, per lo meno fino allo scorso anno: utilizzare multipli prezzo/NAV e EV/EBITDA è una pratica comune in tutti i report sia del sell- che del buy-side. La maggior parte degli E&P deve tuttavia spendere 120% dei FCF per accrescere la produzione anche a prezzi di $50-$60. Non sorprende che fino allo scorso anno ci sia stata un’esplosione nelle emissioni di obbligazioni high yield da parte di queste aziende.


Fonte: Morgan Stanley, BMO (ad ottobre 2015).

Tutti si aspettavano pertanto una riduzione nella produzione a fronte di prezzi in caduta libera: la risposta degli E&P è stata invece di cercare di ridurre i costi il più possibile, “spremendo” i fornitori di servizi, vendendo i terreni meno attraenti e focalizzandosi sull’efficienza delle trivellazioni. Il risultato? Nel 2015 la produzione in US è aumentata di circa 3% nonostante il crollo del 50% nel numero di pozzi.

Fonte: US Energy Information Administration, Baker Hughes. 

Perché non ci sono incentivi a limitare la produzione?
La contabilità degli E&P permette l’utilizzo, molto diffuso, di sistemi di full-cost: il valore delle esplorazioni completate con successo sono ovviamente capitalizzate nello stato patrimoniale (sono le “proprietà materiali” dell’azienda), ma c’è anche enorme flessibilità su quali altri costi (esplorazioni abbandonate, spese di trasporto, interessi passivi) possono essere capitalizzati invece che spesati nel conto economico. Questo permette di posticipare il deprezzamento dei costi associati alle riserve unproven, che di conseguenza rende sia EBITDA che le misure delle leva finanziaria ad esso associate apparentemente migliori di quello che sono nella realtà economica. Non solo, ma i principi contabili permettono di includere i guadagni sui contratti derivati a fair value tra i ricavi, anziché tra utile/perdite finanziarie, impattando ulteriormente sull’EBITDA riportato. È pertanto essenziale sapere quanto “aggressive” sono le assunzioni fatte e se ci sono stati cambiamenti nelle politiche contabili.

Infine, la metodologia di PV-10 (in pratica, il NAV atteso dalle riserve proven, le uniche che la SEC permette di riportare nei bilanci) prevista dagli US GAAP può portare a stime troppo ottimistiche in periodi di deflazione dei prezzi. Questo perché il prezzo di vendita delle riserve disponibili nel calcolo di PV-10 è la media dei prezzi degli ultimi 12 mesi: con i prezzi in caduta libera, il NAV potrebbe sovrastimare abbondantemente quanto effettivamente valgono quelle riserve.

E&P non generano alcun FCF!
Le principali aziende mostrano la falla nelle economie dello shale oil: i flussi di cassa operativi non sono sufficienti a coprire le spese in conto capitale (capex), il cui finanziamento viene dalla vendita di assets o dalla continua emissione di debito ed equity. I rendimenti del capitale investito non sono così elevati come molti credono: nonostante gli enormi investimenti, nella maggior parte dei casi le riserve non sono cresciute in maniera significativa per molte aziende, e gli utili sono venuti principalmente dai guadagni sui derivati a lungo termine o dal posticipare il pagamento delle tasse finché continuano a trivellare.

Fonte: bilanci delle aziende.
Tutti questi produttori avranno difficoltà a finanziare il capex in un periodo di bassi prezzi del petrolio e maggiore volatilità dei mercati finanziari: gli aumenti di capitale sono diminuiti da $7,4 miliardi in Q1 2015 a $1,8 miliardi in Q3 2015, mentre l’emissione di obbligazioni è scesa nello stesso periodo da $13 miliardi a $4 miliardi.

La principale fonte di finanziamento delle aziende medio-piccole è il credito bancario basato sulle riserve disponibili, che per i motivi detti sopra potrebbe diminuire drasticamente. Molte banche US sono state infatti chiare nell’esternare i loro dubbi sulla già elevata esposizione al settore delle commodities ed a quello energetico in particolare: una di esse ha dovuto ammettere di aver modificato i covenants su 72 dei 74 prestiti concessi al settore E&P, perché evidentemente si sono accorti che le aziende facevano fatica a rientrare nei limiti ed evitare il default. Per questo, un approccio di credit analysis - tipicamente più conservativo di quello di equity analysis: un creditore è focalizzato sul riavere indietro i soldi che ha prestato, non su quanto upside ci sia, perché lui non ci partecipa - può essere più appropriato in questa situazione.

Nella tabella sottostante ho riassunto alcuni dati per i principali operatori americani e canadesi in termini di liquidità, solidità e valutazione. Il current/quick ratio è frequentemente inferiore ad 1x; molte aziende hanno una liquidità disponibile molto bassa, spesso pari a zero; la maggior parte di loro non ha utili a livello operativo, e questo su risultati con prezzi di WTI e Henry Hub natural gas, in media, rispettivamente di $60 e $3, rispetto a $30 e $2 di oggi.

Fonte: bilanci delle aziende, basati sui risultati degli ultimi 12 mesi al Q3 2015. In arancio sono evidenziati i valori di current/quick ratio inferiori a 1x, ed i valori di debito su EBITDA/EBIT superiori, rispettivamente, a 3x e 5x. “N.d.” significa che il denominatore (EBITDA, EBIT o utili pre-tasse) è negativo.

Le super-majors non sono in una situazione molto migliore
Anche Big Oil ha poco da festeggiare: è vero che la situazione è migliore in termini di FCF (per lo meno i flussi operativi coprono il capex, grazie soprattutto alla maggiore diversificazione delle loro attività), ma i flussi di cassa sono comunque negativi dopo le distribuzioni agli azionisti (dividendi e buyback). Queste distribuzioni sono necessarie per supportare il prezzo delle azioni (sono infatti considerate aziende mature dalle quali aspettarsi buoni dividend yield, a maggior ragione in tempi di bassi tassi d’interesse): ma sono state possibili solo grazie all’aumento esponenziale del debito, ed i buyback stanno infatti cominciando a ridursi.

Fonte: bilanci delle aziende.
ROIC (Return on Invested Capital) è calcolato come utili prima delle imposte/attività operative nette.
ROIIC (Return on Incremental Invested Capital) è calcolato come il precedente rapporto, con al numeratore ed al denominatore le differenze tra 2009 e 2015.


E stanno anche pagando di più per ottenere di meno: escludendo ENI, per le Big 5 la produzione annuale è diminuita di 12% dal 2010 al 2014, da 6,2 milioni di barili a 5,5 milioni; ed il costo al barile è cresciuto di 82%, da circa $16/barile a quasi $30/barile. Infine, il reserve replacement ratio (il rapporto tra nuova riserve e produzione) è sceso a 76% nel 2014, il livello più basso dal 2007. Le super-majors sembrano in una fase di auto-liquidazione, visto che stanno restituendo agli azionisti più di quello che l’attività operativa genera.

Conclusioni
Nonostante i crolli degli ultimi mesi, la mia impressione generale è che non ci siano tutte queste opportunità da non perdere: ci sono sicuramente aziende interessanti, e non dico che i loro prezzi non possano risalire anche velocemente. Ma se la tesi è basata unicamente sulla convinzione che il prezzo del petrolio tornerà dov’era due anni fa, nella maggior parte dei casi non mi sembra che ci sia un vero margine di sicurezza a protezione del downside, necessario per investire con (relativa) tranquillità senza preoccuparsi troppo di dove andranno il WTI o le altre commodities.

I bilanci finali del 2015 mostreranno ulteriori “buchi” per moltissimi E&P (hanno già cominciato Exxon e Shell). Molti produttori non generano profitti nemmeno con il petrolio oltre $100, almeno quando si misurano correttamente i costi: enormi ammontari di capitale sono stati investiti, sono stati prodotti dozzine di report che mostrano assets che valgono centinaia di milioni, ma quasi nulla è stato creato in termini di flussi di cassa per gli investitori.

Dopo questa analisi “macro”, adesso dovrei passare a quella micro, ovvero bilanci e prospettive delle singole aziende, almeno per quelle che sembrano migliori (stato patrimoniale solido per superare il ciclo deflattivo, management competente nell’allocazione delle risorse). Questo richiederà però un po’ di tempo ed ulteriori studi: ho ordinato il libro “The frackers” e non so quando finirò.

Nota: credevo non fosse necessario, ma probabilmente è bene ripeterlo per chi non avesse ancora capito. Questo blog non ha mai voluto essere un luogo dove dare segnali operativi su cosa fare (“Do your homework!”), quanto piuttosto un modo per mettere ordine alle mie idee e discuterle con chi avesse opinioni simili ma soprattutto contrarie: critiche costruttive e convinzioni diverse sono sempre ben accette. Chi invece è alla ricerca di scorciatoie per identificare quali titoli/mercati saliranno può trovarli su altri media più qualificati a farlo (blog, forum, etc…).

Non solo non mi sono mai ritenuto infallibile, ma soprattutto nessuna analisi è stata fatta cercando di capire come si muoverà il prezzo nelle prossime settimane. Pertanto, potete anche evitare di scrivermi tra un mese: “Hai detto che ENI non è buona, ed è salita del 30%: complimenti!”. Se siete in grado di prevedere esattamente l’andamento di un titolo, posso soltanto essere invidioso delle vostre capacità; anzi, ditelo anche a me così mi risparmio tutta questa fatica…

11 commenti:

  1. Molto utile, soprattutto per farsi una idea sulla sostenibilità di certi dividendi, spesso imposti dallo Stato azionista di riferimento per esigenze di cassa. Grazie.

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  2. Innanzitutto complimenti per l'articolo, è raro trovare fonti di questa qualità. E' interessante cercare di capire cosa comporterà, a livello macro, un prezzo del petrolio e del gas strutturalmente più basso.
    Marchionne ha già agito di conseguenza spostando la produzione di alcune fabbriche da berline a SUV (ha proprio detto apertamente che questa strategia è dovuta ad un prezzo del petrolio, secondo lui, strutturalmente più basso che in passato!)
    Chissà quante altre conseguenze!

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    1. per tutti quelli che utilizzano il petrolio/gas, sicuramente ci saranno enormi benefici: basta guardare le utilities, che sono passate da carbone a gas, più pulito, più efficiente, più abbondante e meno costoso

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    2. Anche il consumatore (specialmente americano con benzina non gravata da un mare di accise) vede il suo potere di acquisto salire in modo strutturale (e sano). Un po' come uno sgravio fiscale! Molto spesso queste buone nuove passano in secondo piano!

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    3. Interessante lettura

      http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2016/02/08/news/petrolio_oro_nero_soprattutto_per_il_fisco-133013196/

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  3. Ottimo post, questo blog finisce dritto nei preferiti!

    Aggiungerei un paio di considerazioni sui prezzi. OPEC e Russia non hanno grandi incentivi a ridurre la produzione perché un aumento dei prezzi riattiverebbe i frackers che imporrebbero un "cap". Certo, i prezzi sarebbero superiori ma la quantità prodottà [da OPEC e Russia] sarebbe inferiore. Il gioco vale la candela? Non credo. Quando hai necessità o debiti in USD non puoi smettere di produrre le commodities. Devi cercare di recuperare con maggiori volumi quello che perdi con il calo dei prezzi. Questo ovviamente scatena un circolo vizioso: prezzi giù -> maggiore produzione -> prezzi giù -> ecc. ecc.

    Inoltre in USA stanno raggiungendo i limiti delle capacità di stoccaggio. A breve rischiano di scaricare ulteriore produzione sui mercati peggiorando ulteriormente il gap tra domanda e offerta.

    A meno di conflitti che riducano l'offerta (Arabia Saudita v. Iran?), credo che i prezzi rimarrano bassi a lungo.

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    1. Scaricare la produzione sul mercato non è semplicissimo, gli USA devono fare investimenti per poter esportare sulle VLCC grandi quantità.

      Inoltre le raffinerie USA per anni si sono specializzate sui petroli pesanti, solo recentemente hanno cominciato a riconvertirsi a quelli leggeri (non è che una raffineria la converti pigiando un tasto). Il colmo sarà quando gli USA esporteranno il loro shale ed importeranno gli heavy-grade.

      Aggiungo una nota sull'Iran ed il suo ritorno:
      1) Le agenzie finanziare hanno ancora il divieto di commerciare con l'Iran, questo vuol dire che le navi non possono essere assicurate in dollari.
      2) I Sauditi potrebbero bandire gli armatori che commerciano con l'Iran.

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  4. Oltre al settore upstream risulta estremamente interessante anche quello downstream (che si avvantaggia dei prezzi bassi del petrolio,aumentando i margini della raffinazione) e quello midstream (che rimane meno volatile e meno sensibile agli andamenti della materia prima).Penso quindi a società come Kinder Morgan,Snam,Spectra Energy Partners oppure ad aziende come Saras e Phillips 66.
    Nel settore E&P invece personalmente bisognerebbe incentrarsi sulle società che stiano mantenendo i migliori rapporti costo del venduto/ricavi, con margini di profitto netto accettabili, free cash flow positivi o di poco negativi, capex rapportate ai ricavi inferiori al 15%, rapporti debt/equity, labilities/assets,debt/earnings idonei.Senza contare che una diversificazione interna (sia upstream che downstrram) possa consentire una maggior serenità.È auspicabile inoltre che tali aziende riducano i dividendi e i buybacks per concentrarsi sulla propria attività.

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    1. “quello midstream (che rimane meno volatile e meno sensibile agli andamenti della materia prima)”: vero, queste aziende guadagnano sui volumi, non sui prezzi. A me piace molto l’olandese Vopak, mentre sono meno certo sulle MPL americane (come KMI), essenzialmente perché non conosco bene la loro struttura.

      “Nel settore E&P invece personalmente bisognerebbe incentrarsi sulle società che stiano mantenendo i migliori rapporti costo del venduto/ricavi”: certo, ma mentre le aziende possono operare sui costi, i ricavi sono una variabile sulla quale gli E&P hanno poco margine di manovra. Quelli che hanno retto meglio sono quelli che avevano venduto forward gran parte della produzione (a $70 ed oltre), ma anche questi accordi verranno presto a scadenza e saranno rinnovati a condizioni ben differenti.

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  5. Tra l'elenco delle societa penso sia opportuno agiungere due societa canadesi:
    Bellatrix Exploration e Peyto
    Entrambe sono molto piu esposte al gas che all'oil ed hanno costi di produzione molti bassi rispetto ai peers anche se la situazione finanziaria non è delle migliori soprattuto per Bellatrix

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    1. Peyto c'è: è anche nella short-list delle aziende che vorrei finire di analizzare a livello micro, perchè sembra tra le più solide e meglio gestite.

      Bellatrix, come Denbury, SM Energy, Ultrapetroleum, etc, è stata esclusa solo perchè per ragioni di spazio ho eliminato quelle più piccole in termini di capitalizzazione.

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