mercoledì 8 giugno 2016

Come dovrebbe essere una banca

Molti investitori preferiscono stare alla larga dalle banche perché troppo complesse, opache o inerentemente precarie. Non a torto, visto che abbiamo imparato come possano sparire da un giorno all’altro: non solo Lehman Brothers e Bear Stearns, ma anche Washington Mutual, Fortis, Northern Rock, Countrywide, per arrivare alle più recenti Banca Etruria, Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

Dall’altro lato abbiamo però Warren Buffett, il cui singolo maggior investimento quotato è Wells Fargo per un valore di oltre $24 miliardi. Come sempre, Buffett chiarisce cosa fa e perché, e Wells Fargo non è stata l’eccezione: nella lettera agli azionisti del 1990 ha cominciato spiegando perché in generale non gli piacciono le banche:

“The banking business is no favorite of ours. When assets are twenty times equity – a common ratio in this industry – mistakes that involve only a small portion of assets can destroy a major portion of equity. And mistakes have been the rule rather than the exception at many major banks. Most have resulted from a managerial failing that we described last year when discussing the “institutional imperative:” the tendency of executives to mindlessly imitate the behavior of their peers, no matter how foolish it may be to do so. In their lending, many bankers played follow-the-leader with lemming-like zeal; now they are experiencing a lemming-like fate.
Because leverage of 20:1 magnifies the effects of managerial strengths and weaknesses, we have no interest in purchasing shares of a poorly managed bank at a “cheap” price. Instead, our only interest is in buying into well-managed banks at fair prices.”
La prima regola da seguire è molto semplice: se comprate una banca, compratene una buona.

Nel paragrafo successivo continua: “With Wells Fargo, we think we have obtained the best managers in the business, Carl Reichardt and Paul Hazen.” Nonostante quello che si pensi, le banche sono un “commodity business”: non esistono brevetti o formule segrete, un mutuo è un mutuo e la qualità di una banca dipende dalle persone che la dirigono. La seconda regola è quindi: comprate una buona banca con un management competente.

Per determinare quali sono le caratteristiche che una “buona banca” dovrebbe avere è utile prendere come pietra di paragone Svenska Handelsbanken (SHBB:SS): un rapido sguardo alla sua performance storica mostra infatti come sia riuscita ad evitare i problemi che hanno invece colpito il settore finanziario negli ultimi 10 anni.


La domanda è: perché Handelsbanken ha successo dove molte altre banche invece falliscono? Parte della risposta è ovviamente che è attiva in Svezia ed altri paesi nordici, che sono stati (relativamente) risparmiati sia dalla grande crisi che da quella dell’euro. Ma il motivo principale è più profondo: i fattori principali per determinare il successo di lungo periodo di un banca (o di qualsiasi altra azienda) sono la sua cultura e gli incentivi.

Struttura organizzativa semplice
Questo è come la Handelsbanken descriveva il suo business model nel bilancio 2014:

“Handelsbanken is essentially organised on a geographical basis. Like all companies with more than one customer and one product, we have to deal with matters of product responsibility, customer responsibility and function responsibility. We’ve made things simple for ourselves by establishing a geographical organisational model, with one manager being appointed for each area of operations. An area of operations is a well-defined geographical area, for example a town, a local authority, or part of a city. This manager has full responsibility for all the Bank’s business in this well-defined geographical area.”
E nel 2015:
“Handelsbanken’s decentralised working method is at the core of our business model. Our view is that decisions should be taken locally by the person who knows our customers. We know that this creates better decisions and – in particular – more satisfied customers. The customer appreciates meeting a decision-maker, who is well acquainted with him or her and the local market.”
Al contrario, questo è il modo nel quale si presenta Unicredit:
“I risultati per settori di attività vengono presentati e commentati sulla base della struttura organizzativa correntemente utilizzata nella reportistica direzionale per il controllo dei risultati del Gruppo, che si articola nei seguenti settori di attività:
-    Commercial Banking Italy;
-    Commercial Banking Germany;
-    Commercial Banking Austria;
-    Poland;
-    CEE Division;
-    CIB (Commercial & Investment Banking);
-    Asset Management;
-    Asset Gathering;
-    Non Core;
-    Group Corporate Centre”
Domanda retorica: quale banca è più semplice da gestire? La struttura di Handelsbanken è focalizzata su determinare chiare responsabilità, mentre in quella a matrice è tutto più opaco. Perché allora si preferisce la seconda? Perché nelle grandi istituzioni finanziarie moderne un titolo di “Global Head of something” non si lesina a nessuno: più caselle nella struttura organizzativa significa più biglietti da visita con titoli pomposi (e relativi stipendi…).

Decisioni decentralizzate
Handelsbanken sottolinea continuamente come le principali decisioni sono prese in ogni filiale locale:

Every branch of Handelsbanken is led by a manager who is solely responsible for all operations in his/her branch’s local area of operations. The branches’ independence gives them a very strong local presence, with long-term customer relationships. In addition, short decision paths make it possible to adapt more quickly to various changes in local markets and make the most of new business opportunities.”
Questo consente un processo più veloce nell’approvazione dei prestiti, nonché un miglior controllo sulla loro qualità:
“The largest credits are decided by the Board’s credit committee, or by the entire Board, where cases have been reviewed by the Central Credit Department. However, no credit application may be processed in the Bank without the recommendation of the branch manager who is responsible for the credit.
Come ben sappiamo, i peggiori disastri fatti dalle banche negli ultimi anni sono stati originati e gestiti ai livelli direzionali più alti: un prestito all’amico dell’amico del direttore generale non si rifiuta mai. Al contrario, qui abbiamo una banca nella quale un semplice direttore di filiale può mettere il veto alle decisioni del consiglio di amministrazione: suppongo che questo migliori in maniera significativa la qualità dei prestiti concessi.

Obiettivi chiari, salari moderati e partecipazione dei dipendenti agli utili
L’obiettivo dichiarato di Handelsbanken è la redditività della banca, espressa dal ROE: non aumentare la quota di mercato, creare un impero espandendosi in altri paesi o essere cool e moderna:

Handelsbanken’s goal is to have higher profitability than the average of peer banks in its home markets. […] This goal is mainly to be achieved by having more satisfied customers and lower costs than those of competitors. High profitability is crucial, not only because it attracts shareholders to invest in the Bank, but also because it creates the conditions for growth, a high rating and low funding costs, and for the Bank’s lending capacity.
Operating profit for the past year was SEK 20.5 billion, which is the highest in the history of Handelsbanken. For the 44th year running we met our corporate goal: higher return on equity than a weighted average of the
return of our competitors.”
In un settore competitivo e poco differenziato come quello bancario, il modo migliore per migliorare la redditività è controllare i costi, inclusi i compensi del management (pag. 60):
“In accordance with guidelines from the Annual General Meeting, remuneration is paid only in the form of fixed salary and pension provisions, and also customary benefits such as a company car. Following a special decision by the Board, Handelsbanken can provide housing as part of the remuneration. No variable remuneration is paid, nor are there any agreements on severance pay.”
Quindi niente bonus e niente “golden parachutes” per i top manager ed i membri del consiglio di amministrazione. Nella stessa pagina:
“[…] Nor is variable remuneration paid to the Bank’s management or to any employee who makes decisions on credits or limits. Employees who, alone or together with others, are entitled to decide on credit risk, market risk, liquidity risk, commodity risk, currency risk or interest rate risk limits, as well as employees who, by deciding on credits or product terms and conditions, can affect the Bank’s risk profile, can have only fixed remuneration.”
Questa è la decisione migliore che si possa prendere all’interno di una banca, e che personalmente non ho visto da nessuna altra parte: è un forte incentivo a non ricercare facili profitti di breve periodo semplicemente investendo in strumenti rischiosi o concedendo prestiti dubbi, cosa che invece avviene frequentemente all’interno delle banche.

Non solo: esiste anche uno schema per la condivisione dei profitti tra tutti i dipendenti (pag. 120):

“Every year but two since 1973, the Board has decided to allocate part of the Bank’s profits to a profit-sharing scheme for its employees. The funds are managed by the Oktogonen Foundation.
Allocations are subject to Handelsbanken achieving its corporate goal. If this is satisfied, one third of the extra profits can be allocated to the employees. The amount allocated is limited to ten per cent of the ordinary dividend to the shareholders. If the Bank reduces the dividend paid to its shareholders, no allocation can be made to the foundation. All employees receive an equal part of the allocated amount, regardless of their position and work tasks. The scheme includes all employees in the Bank’s home markets. Some 98 per cent of the Group’s employees are now covered by Oktogonen. The profit-sharing scheme is long-term, as payments cannot be made until an employee has reached the age of 60.
One of the fundamental concepts in managing the foundation is that the funds are invested in shares in Handelsbanken. For many years, the profit-sharing foundation has been one of the Bank’s largest shareholders, and Oktogonen has two representatives on the Handelsbanken Board. Thus, the employees are also able to influence the Bank at Board level.”
Un’altra caratteristica unica, e molto ben pensata: ogni dipendente riceve la stessa allocazione; è veramente orientato al lungo termine, al contrario delle opzioni “regalate” ai manager in molte aziende; e rende i dipendenti reali azionisti della banca, allineando così in maniera efficace i loro interessi.

Questa cultura è riflessa anche nel compenso del CEO:

“For the period from 25 March until 31 December 2015, CEO Frank Vang-Jensen, who was appointed during the year, received a fixed salary amounting to SEK 7.3 million. His other salary benefits are SEK 0.9 million”
Il suo predecessore, Pär Boman, aveva ricevuto un compenso totale per l’anno 2014 di SEK 11.2 milioni (circa €1,2 milioni). Confrontatelo con la politica di remunerazione di Unicredit:
Rapporto tra la remunerazione variabile e la remunerazione fissa. In linea con le previsioni regolamentari, il 2:1 rappresenta il limite massimo al rapporto tra la componente variabile e la componente fissa della remunerazione per tutti i dipendenti, compreso il personale più rilevante, che appartengono alle funzioni di Business.”
Piano di Incentivazione di Lungo Termine 2015 – 2018. Nel corso del 2015 è stato introdotto un Piano di Incentivazione a Lungo Termine per rafforzare il legame tra remunerazione variabile e risultati aziendali di lungo termine e allineare ulteriormente gli interessi del Top Management e quelli degli azionisti. Il Piano prevede l’assegnazione di incentivi interamenti basati su Phantom Share, subordinatamente al raggiungimento di specifici indicatori di performance allineati al Piano Strategico di UniCredit.”
Nel 2015, il totale dei compensi per il consiglio di amministrazione di Unicredit (pag. 44 e 45) è stato di oltre €8 milioni, e sia il CEO (€3,2 milioni) che il presidente (€1,6 milioni) hanno ricevuto più del loro omologo a Handelsbanken. Non solo: a questi vanno aggiunti i compensi per il Direttore Generale (€1,8 milioni) ed altri 7 dirigenti con responsabilità strategiche (totale di €9,8 milioni, ovvero una media di €1,4 milioni a testa), oltre alle loro laute buonuscite (altri €9,2 milioni!). È vero che Unicredit è circa 3 volte più grande, con assets pari a €860 miliardi rispetto a €270 miliardi per Handelsbanken, ma il paragone rimane comunque impietoso.

Oppure con quella di Intesa Sanpaolo

“La retribuzione del personale dipendente si articola in:
a) componente fissa, definita sulla base dell’inquadramento contrattuale, del ruolo ricoperto, delle eventuali responsabilità assegnate, della particolare esperienza e competenza maturata dal dipendente; […]
b) componente variabile a breve termine, collegata alle prestazioni fornite dal personale e simmetrica rispetto ai risultati annuali effettivamente conseguiti e composta da:
- specifici sistemi di incentivazione, come più avanti descritto, che prevedono l’attribuzione di premi allineati ai valori di mercato, così come rilevati da periodiche survey specializzate, quale ad esempio l’indagine retributiva condotta annualmente dall’Associazione Bancaria Italiana, focalizzata sul personale della rete commerciale; […]”
Basta vedere l’andamento del prezzo delle azioni negli ultimi 10 anni per capire quali azionisti hanno speso meglio i loro soldi:
[Nota: per coloro che pensano che la minor redditività delle banche italiane sia dovuta ai maggiori costi imposti dallo Stato, basta considerare che il costo medio per dipendente negli ultimi 5 anni è stato di €60.000 per Intesa ed Unicredit e di ben €110.000 per Handelsbanken. Nonostante questo, le prime due anno un cost/income ratio di, rispettivamente, 65% e 75%, mentre la banca svedese di solo 46%; questo perchè ogni dipendente delle banche italiane ha generato ricavi di €155.000/€185.000, mentre sono stati di €355.000 per Handelsbanken.]
 
Crescita organica
Questo è il modo in cui Handelsbanken descrive la propria strategia di crescita (pag. 200):

“[…] to retain high profitability in the long term, growth is also necessary. The Bank primarily grows by opening new branches in locations where we have not previously had operations. In this way, Handelsbanken grows customer by customer, branch by branch. […] This method of working and of achieving growth has proved successful in an increasing number of locations and countries. This organic growth model means that Handelsbanken can achieve growth, coupled with low risk and good cost control.
La crescita organica è lenta e complicata; le operazioni di M&A sono invece veloci e sexy. Non ci vuole però un genio per capire che la maggioranza delle acquisizioni nel settore finanziario sono state un disastro: tutte le principali transazioni del recente passato sono state smantellate (Monte dei Paschi, RBS, Fortis, …) o gli acquirenti ne stanno ancora pagando le conseguenze (ING, Unicredit, Commerzbank, …).

Queste considerazioni sono strettamente correlato con quanto detto prima: se sei un manager con migliaia di opzioni della tua banca, è ovvio che cercherai la strada che permette la crescita più immediata (acquisizione), perché la volatilità ad essa associata fa aumentare il valore delle opzioni. Ma se il tuo bonus è “bloccato” in un conto aziendale e devi aspettare di arrivare a 60 anni per incassarlo, allora preferisci la strada lenta ma sicura.

Rischio: credito vs. mercato
Da pagina 13 del report di Handelsbanken:

“Handelsbanken has a low risk tolerance. […]The Bank’s business model focuses on taking credit risks in the branch operations. The objective is therefore to minimise other risks, such as market risks. Position-taking in the Bank’s business operations is only accepted in customer-driven transactions, and only within strictly defined limits. Handelsbanken also seeks to reduce all macro risks, in order to have a business model that is independent of fluctuations in the economy.”
Questo è chiaramente riflesso nei requisiti patrimoniali della banca:

Mettetelo a confronto con Deutsche Bank, dove il rischio di mercato domina invece quello di credito. Di nuovo: quale strategia ha pagato di più per gli azionisti? 

Conclusioni
Contrariamente alla saggezza popolare corrente, una banca ben strutturata e ben gestita non è in-investibile: è vero che è soggetta all’andamento di variabili macroeconomiche (PIL, tassi d’interesse, …), ma non è necessariamente più rischiosa di altre aziende.

La chiave rimane l’orientamento al lungo periodo. Il problema è che nel settore bancario è molto semplice far crescere il proprio business nel breve periodo: l’attività delle banche, alla fine, è di vendere soldi, e se si vendono banconote da €100 a €90 si fa presto ad incrementare il giro d’affari. A questo si aggiunge il fatto che la contabilità delle banche permette loro di far finta per qualche tempo che quelle banconote da €100 valgono €110, ma questo tipicamente smette di funzionare all’improvviso.

Il successo di una banca è nel suo DNA, ed i fattori principali da considerare sono la cultura aziendale e gli incentivi: le banche che hanno fatto meglio – e Handelsbanken è tra queste – è perché si limitano a fare le cose semplici meglio degli altri ed in maniera differente. Negli altri casi non vi è un vero allineamento di interessi tra azionisti e dipendenti/manager: quest’ultimi cercheranno sempre di massimizzare le loro posizioni nel breve periodo perché potranno sempre spostarsi ad un’altra istituzione finanziaria. Handelsbanken mostra invece come anche una banca possa essere un buon investimento di lungo periodo nonostante le crisi finanziarie, interessi negativi, etc…

L’ultima considerazione è sulle valutazioni: pagare qualcosa di più per la qualità di una banca e del suo management è in genere la scelta migliore e più sicura nel lungo periodo. Al contrario, comprare qualcosa solo perché sembra “cheap” non è una buona idea: spesso queste banche rimangono impantanate per anni in situazioni di bassa redditività, oppure gli azionisti vengono periodicamente diluiti da massicci aumenti di capitale imposti per mantenere i requisiti patrimoniali.

8 commenti:

  1. Banca IFIS e Banca Sistema (specializzate nel factoring) potrebbero essere buone scelte sul mercato italiano? Le strutture sembrano snelle ed i bilanci puliti. Il rischio più grande, almeno nel caso di Banca Sistema, è la tenuta dello stato italiano.

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    1. Banca Ifis l'ho già analizzata, considerandola sufficiente buona sui fondamentali ma costosa (ovviamente poi il prezzo è salito).

      Banca Sistema non la conosco abbastanza.

      Il problema per entrambe non è solo la cultura aziendale, ma anche i clienti: ovvero il "sistema Italia", che personalmente preferisco evitare.

      Comunque, meglio banche piccole e specializzate che i giganti "ingestibili"

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  2. Altro articolo veramente bello. Complimenti!

    Spero di non uscire troppo fuori tema allaciamdomi alla sua considerazione finale di grande buon senso: "L’ultima considerazione è sulle valutazioni: pagare qualcosa di più per la qualità...del suo management è in genere la scelta migliore e più sicura nel lungo periodo. Al contrario, comprare qualcosa solo perché sembra “cheap” non è una buona idea: spesso queste...rimangono impantanate per anni in situazioni di bassa redditività"

    Ho rimosso la parola "banca" perché nel "value stock picking" che fa lei credo il ragionamento valga abbastanza in generale.

    Quello che mi chiedo è perché invece su indici aggregati si legge/vede spesso che viene consigliato il contrario, ovvero comprare ciò che è "cheap" secondo uno o più valori: P/BV, CAPE, ...

    Vedi un classico: http://www.starcapital.de/research/stockmarketvaluation (ed il loro paper che trova nella pagina)

    Oppure se ne ha voglia le consiglio questo video di Robert D. Arnott (non l'ultimo arrivato) non ha sottotitoli, ma parla lento e si capisce bene: https://vimeo.com/167847506/8f5a43d73f/

    In breve, il video mostra il CAPE di vari indici aggregati (dalle note sotto i grafici credo usi gli indici MSCI).
    Sulla base dei CAPE estrapola i potenziali rendimenti futuri (minuto: 17:15 circa) e consiglia in sostanza di investire in ciò che è "cheap": Brasile, Emerging Eastern Europe (Russia e Polonia), ITALIA, Australia, Cina, Malysia, UK.

    Ma per esempio MSCI Italia credo sia "cheap" proprio perché costituito per 1/3 da banche (ISP, UCG, ...) che sono "cheap" proprio per i ragionamenti che fa lei su questo articolo (mala gestio), quindi perché l'indice dovrebbe migliorare e dare ritorni futuri elevati?
    Stesso discorso magari vale per gli altri indici "cheap": Brasile, ...

    Ho capito che il suo "value stock picking" è diverso da prendere indici aggregati, ma mi chiedo come i due modi d'investire si possano concigliare in qualche modo, se abbiano almeno un qualche punto in comune?

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    1. Grazie per i vari link, e non si preoccupi per l’inglese: dopo 15 anni tra Londra e Dubai me la cavo…

      Conosco gli studi di Arnott, Shiller, CAPE, etc…, e della “discussione” tra qualità e basso prezzo ne ho parlato qui (http://mrmarketmiscalculates.blogspot.it/2016/03/quantita-or-qualita-i.html) e nella seconda parte qui (http://mrmarketmiscalculates.blogspot.it/2016/03/quantita-or-qualita-ii.html).

      Per semplificare al massimo: da value investor anche a me piace comprare quello che costa poco, e gli studi su CAPE e simili dimostrano che il fattore value funziona. Ma funziona innanzitutto su lunghi periodi (non in ogni singolo mese o anno), ma soprattutto in aggregato: come detto nel primo post linkato, questo vuol dire che funziona su portafogli di 500+ titoli.

      Potrei riassumere la mia posizione così: chi vuol investire in maniera “passiva” su mercati/settori, dovrebbe preferire quelli “cheap” (purchè siano veramente così e si sappia cosa c’è dentro); chi invece preferisce le singole azioni dovrebbe preferire la qualità (+ un prezzo ragionevole), perché le singole azioni più cheap in genere hanno problemi specifici (banche, management non competente, etc…)

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    2. Grazie e molte per la risposta.
      Ma tornare in Italia da Dubai? Ma chi gliel'ha fatto fare?!

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  3. Molto interessante, grazie, soprattutto per l'avere evidenziato la differente "cultura aziendale", termine abusato dagli investor relators ma che sottende invece ben altro, fino alla etica comportamentale e alla religione (ma qui mi fermo).
    Quando si vedono manager distruggere una banca on operazioni faraoniche e, dopo breve purgatorio, ripartire in sella ad un altro istituto da "rilanciare", il male è molto più a monte.
    Aggiungerei (non è una nota tecnica, scusate) che negli arcinoti casi, oltre alla "distruzione di valore legalizzata" da parte del management c'è anche il successivo passaggio finale alla collettività di aziende fallimentari, con la scusa del mantenimento di posti di lavoro, rapporti col territorio locale ecc... Un parco buoi volente o nolente, direi.
    Saluti e bravo.

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    1. tutto purtroppo vero, ma come abbiamo visto non è un problema solo italiano (il 95% degli americano non era assolutamente a favore del bail-out di Wall Street nel 2008)

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