mercoledì 7 dicembre 2016

“Lesson (re)learned”: SunEdison

Può sembrare strano tornare su una storia di qualche mese fa, ma ho ritrovato alcuni appunti che avevo preso all’epoca ed è sempre utile rivisitare cosa è successo.

Per ricapitolare: dopo due anni di acquisizioni e crescita esponenziale, nel 2015 per SunEdison (SUNE) cominciarono i problemi che l’hanno portata lo scorso aprile ad entrare in Chapter 11 con $16 miliardi di debito a fronte di quasi $21 miliardi di attivi. [N.d.r.: questo dimostra ancora una volta la differenza tra valori contabili ed economici: il valore dei debiti è “certo” (se prendete a prestito 100, dovete restituire 100), mentre il valore degli assets è spesso soggettivo (a bilancio vale 100 in termini contabili ma solo 50 in termini economici).]


I motivi del fallimento sono facili da identificare: SUNE è stata vittima del suo stesso financial engineering, con la rapida crescita resa possibile soprattutto da easy money fornita da banche ed investitori. Per chi volesse ricostruire l’intera vicenda consiglio questi due articoli: “SunEdison: Death of a solar star” e “Inside the Fall of SunEdison, Once a Darling of the Clean-Energy World”. [Se non avete accesso, scrivete il titolo in Google e procedete da lì.]

La tesi su SunEdison
L’azienda sviluppa e gestisce “progetti” per la produzione di energia solare ed eolica per utilities ed altri clienti commerciali che acquistano l’elettricità prodotta con contratti a lungo termine, tipicamente 20 anni.

Come nel caso di Valeant, era diventata quella che si chiama “hedge fund hotel stock”, ovvero quelle aziende che tutti volevano possedere. Uno dei principali investitori con il 7% delle azioni era David Einhorn di Greenlight Capital, che la presentò come la sua migliore idea ad una conferenza nell’ottobre 2014. Un altro famoso investitore, entrato però dopo che il prezzo era già sceso parecchio, è John Hampton di Bronte Capital.

Riassumendo la tesi rialzista dalla presentazione:

  • L'energia solare è ormai competitiva con le altre fonti
  • Forte moat in un mercato dall’elevata crescita quasi garantita: i margini rimarranno elevati perché il prezzo dei pannelli fotovoltaici (il maggior costo di SUNE) è in continua diminuzione
  • Valore aggiunto dalla strutturazione delle YieldCo.: il costo del debito è basso (= enorme impatto su investimenti di 20-25 anni) ed i progetti già operativi possono essere venduti a premio ad investitori interessati ad una rendita sicura per molti anni
  • Molti investitori non capiscono l’azienda: la struttura complicata con il consolidamento delle yieldco rendeva “challenging to decipher the economic value of the company from a cursory review of the balance sheet or income statement
Come funziona il meccanismo delle YieldCo.
La produzione di energia solare è un considerata un business low-risk: al contrario di oil&gas, chi gestisce questi progetti non deve continuamente cercare nuove risorse. L’altro lato della medaglia di questa “stabilità” è che il mercato è aperto alla competizione.

È però anche capital-intensive ed ogni progetto deve essere finanziato singolarmente. Per aggirare questo inconveniente le aziende hanno trovato la soluzione creando veicoli separati, chiamati YieldCo, il cui unico scopo è comprare assets dall’azienda (“dropdowns”, come per le MLP), di solito ad un significativo premio rispetto al costo originario: questi veicoli non sono altro che una sorta di bancomat per l’azienda che li sponsorizza. Le yieldco ottengono i finanziamenti necessari quotandosi in Borsa promettendo elevati e crescenti dividendi: a sua volta, l’azienda madre può investire in ulteriori assets da vendere a yieldco, ed il ciclo continua.


Se parent vuole crescere, basta che “scarichi” qualcosa a yieldco (che è controllata da parent), e quindi non deve nemmeno preoccuparsi di pagare troppo per questi assets al punto 1. del grafico: parent avrà un asset turnover migliore e potrà accrescere il fatturato più velocemente.

Nel caso di SUNE, le yieldco erano due. La prima, TerraForm Power (TERP) fu creata nel 2014 per gli assets nordamericani promettendo un dividend yield di 2,7% ed una crescita annua nelle distribuzioni del 15%. La seconda, TerraForm Global (GLBL) fu lanciata nel 2015 per includere gli assets internazionali, principalmente nei paesi emergenti. Nessuna delle due yieldco è stata inclusa nella bancarotta dello scorso aprile.

Il meccanismo è quindi molto semplice, ma c’è un problema: “it works until it doesn’t”. Se gli assets che yieldco compra sono di buona qualità e producono sufficienti cash flows per pagare i dividendi, allora il gioco può continuare all’infinito. Ma i cash flows devono essere definiti al netto di tutto il capex necessario per mantenere gli assets in condizioni decenti. Come discusso nel caso delle MLP, il calcolo dei distributable cash flows è spesso molto differente da quello che le condizioni economiche degli assets sottostanti suggerirebbero: un’azienda può benissimo decidere di investire meno di quello che dovrebbe, così da avere più cash da distribuire tanto le pipeline, i pannelli solari, etc… dureranno sicuramente qualche altro trimestre.

L’altro problema, come nel caso di Valeant, è che il financial engineering funziona bene quando la base di assets è ancora contenuta, ma è sempre più difficile trovare investimenti che generano sufficiente valore via via che l’azienda cresce. Non solo, quando tutti sanno che ha bisogno di comprare è difficile trovare qualcosa a buon mercato. Ma l’azienda non può smettere: come sottolinea l’articolo di WSJ:

“As SunEdison’s acquisition fever grew, standards slipped, former and current employees, advisers, and counterparties said. Deals were sometimes done with little planning or at prices observers deemed overly rich.”
È qui che il meccanismo si inceppa, e la crescita comincia a distruggere valore: quando i cash flows non sono più sufficienti per mantenere le promesse, la liquidità ottenuta dall’emissione di nuove azioni o debito è utilizzata per pagare i dividendi, non per crescere (i.e., uno schema di Ponzi).

Il problema degli incentivi
Questo fatto è esasperato quando i manager hanno forti incentivi a far salire il prezzo dell’azione. Nel caso di SUNE i bonus erano basati sui megawatt completati e sulla redditività, che spingono per una crescita a qualunque costo: se guardate una delle presentazioni potete vedere che i numeri sono focalizzati quasi esclusivamente su EBITDA e megawatt. E se includere la redditività non sembra poi così male, aspettate di vedere come era definita:  

“The Compensation Committee approved company performance goals including profitability, as measured by the sum of SunEdison EBITDA and foregone margin (a measure which tracks margin foregone due to the strategic decision to hold projects on the balance sheet vs. selling them) and megawatts completed.”
Senza dubbio una definizione molto creativa (e di comodo): non sorprende che i manager abbiano ottenuto un bonus nel 2014 nonostante l’azienda avesse registrato una perdita di $1,2 miliardi e flussi di cassa operativi negativi per $770 milioni!

Alla base di queste strutture ci sono sempre CEO molto ambiziosi: Ahmad Chatila, il CEO di SUNE, aveva come obiettivo di arrivare a “100 gigawatts worth of electricity, enough to power 20 million homes.” Secondo le sue previsioni, entro il 2020 l’azienda avrebbe avuto una capitalizzazione di $400 miliardi (rispetto ai $6 miliardi dell’epoca) che l’avrebbe portata a valere più di Exxon. Questi obiettivi portano spesso ad avere una contabilità altrettanto aggressiva ed una corporate governance “flessibile”. Come discusso nei due articoli, SunEdison aveva grossi problemi di liquidità per rimborsare un prestito di $100 milioni e chiese pertanto a TerraForm Global un anticipo su progetti futuri. I membri indipendenti del board di GLBL si rifiutarono, così SUNE “esercitò” i propri diritti di azionista di maggioranza licenziandoli e sostituendoli con qualcuno più malleabile. In meno di un’ora il nuovo board approvò un anticipo di $150 milioni per alcuni impianti solari non ancora completati in India, appena in tempo perché SUNE facesse fronte ai propri impegni finanziari. 

C’è un moat?
Dalla presentazione di Einhorn:

“As an experienced project developer, SUNE’s financial, legal, and due diligence expertise gives it a competitive moat. It has opened offices in the most attractive international markets several years before anyone else, giving it a first mover edge and unique geographic diversity in an industry that faces capricious governments, currency fluctuations, sovereign risk and competition.”
Questo è invece quello che la stessa SUNE diceva nel suo bilancio 2014:
“The solar power market in general competes with conventional fossil fuels supplied by utilities and other sources of renewable energy such as wind, hydro, biomass, concentrated solar power and emerging distributed generation technologies such as micro-turbines and fuel cells. Furthermore, the market for solar electric power technologies is competitive and continually evolving. […] We also compete to obtain limited government funding, subsidies or credits. In the large-scale on-grid solar power systems market, we face direct competition from a number of companies, including some utilities and construction companies that have expanded into the renewable sector.
[…] We generally compete on the basis of the price of electricity we can offer to our customers; our experience in installing high quality solar energy systems that are generally free from system interruption and that preserve the integrity of our customers’ properties; our continuing long-term solar services (operations and maintenance services) and the scope of our system monitoring and control services; quality and reliability; and our ability to serve customers in multiple jurisdictions.”
Per sua stessa ammissione, SUNE non ha nessun vantaggio tecnologico. Se la competizione è principalmente sul prezzo, non c’è moat: non c’è network effect, non ci sono brevetti ed i clienti non sono granché interessati al brand. Al contrario, un mercato in forte crescita attira nuovi concorrenti che spingeranno i margini di profitto verso il basso. E non sembra che ci sia nemmeno un first mover advantage: in Germania, ad esempio, i primi produttori hanno fatto l’errore di legarsi a contratti di acquisto dei pannelli a prezzo fisso, mentre chi è entrato dopo nel mercato ha potuto al contrario comprarli a prezzi molto più economici. Vi è una curva di apprendimento molto rapida: esattamente lo stesso che è accaduto a Research In Motion con l’introduzione del BlackBerry, spazzata via da chi è venuto dopo con prodotti migliori. 

Infine, sempre dalla presentazione, questo commento è per lo meno ambiguo:

“In the recent sell‐off, Terraform's shares declined with the oil and gas MLPs. Because most MLPs pay out cash flows from depleting oil and gas reserves that need to be replaced with new wells, these companies need continued access to cheap capital just to sustain their dividends. Terraform doesn’t face that risk because solar assets don’t deplete. So Terraform will only raise capital for growth.”
Questo non è corretto: anche i pannelli solari si esauriscono. Più lentamente di un pozzo petrolifero, ma non durano in eterno. Non ci sono progetti abbastanza lunghi da avere dati statistici significativi, ma alcuni studi sembrano implicare che ci sia una significativa perdita di potenza prodotta all’inizio (~5%) e poi un decremento annuo della capacità di circa 1%. A questo va aggiunto che sia i finanziamenti che i contratti di take-off dell’elettricità prodotta andranno comunque rinnovati in qualche data futura, creando il rischio di roll over per le yieldco: i cash flow possono essere “stabili”, ma non sono certamente garantiti.

YieldCo e rendimenti attesi
Secondo i sostenitori, questa struttura ha valore perché gli investitori nelle yieldco, interessati principalmente ai dividendi, richiedono un rendimento atteso inferiore rispetto a chi investe invece per la crescita del capitale.

Nelle assunzioni di Einhorn, un acquirente di questi progetti dovrebbe essere in grado di ottenere un rendimento unlevered di circa 7% nei mercati sviluppati e 10% in quelli emergenti: basta applicare una leva di 4x-5x ad un costo del debito di 6% e dopo aver pagato gli interessi si hanno profitti facili.

Forse negli US è così (difficile, vista la forte competizione), ma in Europa la situazione è molto diversa: i rendimenti unlevered su progetti di energie rinnovabili sembrano essere piuttosto attorno a 4%. In una situazione di bassi tassi d’interesse può aver senso investire per un fondo pensione o un’assicurazione che hanno un basso costo di funding, ma non funziona se si deve usare costoso “capitale subordinato”: quando sono cominciate le difficoltà SUNE è dovuta ricorrere ad un prestito da Goldman Sachs al 9,25%.

E questo porta alla domanda fondamentale: chi è che investe nelle yieldco? L’upside è in qualche modo limitato, ma gli azionisti sono esposti al downside, compresi un aumento dei tassi d’interesse, il roll over del debito, il default dei clienti, …

Quindi, chi è che si prende il rischio azionario a rendimenti delle obbligazioni? La risposta, come per le MLP, è probabilmente migliaia di investitori privati “affamati di rendimenti” che non si preoccupano dei rischi finché incassano succosi dividendi.

La struttura delle yieldco può effettivamente creare valore finché continua a pagare ottimi dividendi, anche se di solito questo finisce in un botto spettacolare nonostante le banche continuino a far soldi facendo credere che riconfezionare un asset ne aumenta il valore.

“A lesson investors will learn over and over again is that not only you can’t transform a toad in a prince by kissing it, but that you can’t transform a toad by repackaging it (Warren Buffett)”
Quando il giocattolo si è rotto
Il meccanismo cominciò ad incepparsi a luglio 2015, con l’annuncio dell’acquisizione di Vivint Solar (VSLR US) per $2,2 miliardi. Questa veniva due sole settimane dopo l’acquisto di un portafoglio di $2 miliardi di assets eolici da Invenergy: una seconda operazione molto azzardata, non solo per l’elevato debito necessario per completarla ma soprattutto perché portava SUNE nel mercato residenziale, considerato più rischioso dei contratti a lungo termine con retailers e property owners. Con il 90% degli analisti che la seguivano con un rating di buy, chi non si darebbe allo shopping sfrenato?

I problemi furono subito evidenti: l’accordo prevedeva infatti il pagamento a Vivint di cash più azioni, ma SUNE non aveva sufficiente liquidità e prese a prestito $500 milioni da Goldman Sachs. Poiché anche questa non bastava, fu costretta ad emettere $350 milioni di debito convertibile in favore degli azionisti di Vivint: queste forme di auto-finanziamento sono di solite considerate l’ultima risorsa di un acquirente disperato.

Non solo: parte dell’accordo prevedeva che TERP acquistasse alcune attività da SUNE per quasi $1 miliardo, che avrebbe finanziato emettendo ulteriori azioni sul mercato. Ma questa soluzione fu subito bloccata dagli azionisti di minoranza: con il crollo del prezzo del petrolio erano scese anche le azioni legate al solare, rendendo molto difficile per TERP raccogliere i nuovi capitali (GLBL fu quotata proprio a luglio 2015 e raccolse solo il 60% di quanto sperava). A questo si aggiunse che SUNE non fu in grado di preparare la trimestrale nei tempi richiesti (anche qui, molte analogie con Valeant), passaggio necessario per registrare con la SEC la vendita delle obbligazioni.

SUNE cercò di rompere l’accordo con Vivint, ma dopo cause e controcause fu costretta ad aprile 2016 a chiedere il Chapter 11.

Lezioni (re)imparate
La tesi rialzista risiedeva su due assunzioni fondamentali:

  1. La capacità di trovare continuamente progetti di energia rinnovabile a rendimenti attesi veramente alti (qualcosa come risk-free + 6%)
  2. Abbastanza investitori “dumb” che comprano le azioni delle yieldco (con rischio azionario ma rendimento obbligazionario) per sovvenzionare l’azienda a monte
Se l’esperienza della Germania è una guida, la prima condizione non durerà a lungo: i rendimenti dei progetti sono infatti crollati appena i sussidi statali sono stati rimossi. Per la seconda condizione, la solita frenesia di fare deal di Wall Street ha portato le banche ad incoraggiare la rapida crescita di queste aziende (Bank of America Merrill Lynch era l'advisor di SUNE; Goldman Sachs ha fornito parte dei finanziamenti; Barclays e Citi erano gli advisor di TerraForm Power mentre Morgan Stanley lo era di Vivint), mentre investitori in sofferenza per i bassi tassi d’interesse hanno invece fornito l’equity.

Ancora una volta, manager, investment bankers ed investitori hanno dimenticato velocemente le lezioni della crisi del 2008: nessuna ha mosso alcuna obiezione ad un’operazione che fin dall’inizio presentava troppo debito. Questo è tipico, perché anche in situazioni così complesse ci sono sempre schiere di MBA che riescono a creare proiezioni lineari degli utili per i prossimi 10 anni o possono spostare un 1% di leva nella cella di uno spreadsheet ed il risultato va bene lo stesso. Ma una yieldco non è un’impresa industriale, è un’impresa finanziaria, e come tale crolla per tre motivi: a) rischio di credito; b) duration mis-match tra attività e passività; c) funding non stabile.

Per riassumere:

  • Fate molta attenzione all’utilizzo del debito (ça va sans dire)
  • Siate scettici di fronte a piani di sviluppo particolarmente aggressivi, soprattutto se le condizioni necessarie per la crescita sono un elevato prezzo dell’azione ed un accesso continuo ai mercati dei capitali
  • Siate consapevoli di quali sono gli incentivi del management nel fare queste promesse mirabolanti
  • Evitate aziende il cui unico contributo positivo ai cash flow viene dalla sezione “finanziamenti”, che serve per coprire l’impatto negativo delle attività operative e di investimento
  • È vero che districare la complessità può portare ad identificare eccellenti opportunità tralasciate dai mercati, ma quasi sempre i business semplici da capire e da analizzare sono migliori di quelli complessi
Investire può essere definita come un’arte negativa: scegliere quello in cui non investire è altrettanto importante dei titoli che si comprano.

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