In the short run, the market is a voting machine but in the long run it is a weighing machine (Ben Graham)A differenza di quello che molti sostengono, le borse non sono un casinò ed il rendimento dei mercati azionari non è basato sulla casualità. Al contrario, nel lungo periodo è spiegato in gran parte dalla redditività e dalla crescita dei profitti aziendali.
Utilizzando i dati relativi al mercato americano, dalla fine della seconda guerra mondiale le società incluse nell’indice S&P 500 hanno realizzato in aggregato un return on equity (ROE) del 12%. Questo è ovviamente variato nel tempo a seconda delle fasi del ciclo economico, ma su periodi di 10 anni è stato sorprendentemente stabile attorno a questo valore. Le aziende incluse nell’indice hanno pagato in media metà degli utili sotto forma di dividendi e hanno reinvestito la parte rimanente, determinando un tasso di crescita dei profitti aziendali del 6% (ovvero 12% x 50%). Va tuttavia notato che non hanno offerto un uguale dividendo del 6%, bensì molto inferiore, circa 3%, perché in media le azioni hanno trattato ad un P/BV di 2x.
La crescita degli utili nel periodo analizzato è stata simile alla crescita del PIL nominale, che è una misura aggregata dell’output complessivo di un paese, composta da un 3% di crescita reale e circa 3% di inflazione (di nuovo, dati per il mercato americano dalla seconda guerra mondiale ad oggi). I profitti aziendali sono infatti una componente significativa del PIL: storicamente, al netto delle tasse, hanno fluttuato tra il 4,5% ed il 6% del PIL, a volte salendo fino al 10% o scendendo sotto al 4%, ma con una tendenza significativa a tornare verso la media del 6%.
In formule, il rendimento (R) del mercato azionario può pertanto essere espresso come:
Rendimento = variazione di prezzo + dividendi pagati = crescita degli utili + variazione del rapporto prezzo/utili + dividendi pagati
Il rendimento atteso dal mercato azionario è la somma del dividend yield, della crescita degli utili e dell’espansione del rapporto prezzo/utili. Il primo elemento dell’equazione (dividend yield) è oggi tipicamente compreso tra 1,5% e 2,5% a seconda dei mercati di riferimento: questo valore è stato in continua diminuzione dagli anni 1980 perché le aziende preferiscono utilizzare i buy-back, che offrono maggiore flessibilità rispetto alla distribuzione di dividendi. Il secondo elemento è la crescita attesa degli utili aziendali (non del PIL!), che a sua volta può essere approssimata dalla formula: g = ROE x (1 – b), dove b è il tasso di distribuzione dei dividendi, cioè (1 – b) è il tasso di re-investimento. Infine, l’espansione del multiplo P/E: anche se esistono diverse versioni di questo multiplo a seconda del proprio approccio ai mercati, quelle più conservative dicono che il P/E di molti mercati è tra equo (ad esempio basandosi sugli utili degli ultimi 12 mesi) e troppo elevato (ad esempio rimuovendo la ciclicità degli utili come nel CAPE).
Mercati rialzisti, ribassisti e laterali
La maggior parte delle persone sono abituate a pensare che le fasi di mercato si dividono in rialziste (bull) o ribassiste (bear). In realtà la situazione numericamente più frequente è quella di un mercato laterale.
I mercati rialzisti non sono causati da un andamento favorevole dell’economia, da tassi d’interesse o inflazione in diminuzione (e l’opposto per i mercati ribassisti): sono sempre determinati dalla valutazione iniziale e dall’andamento degli utili aziendali, come illustrato nei tre esempi seguenti.
Mercati ribassisti: contrazione di P/E + contrazione utili = rendimenti negativi
Mercati laterali: contrazione di P/E + crescita utili = rendimenti bassi
Mercati rialzisti: espansione di P/E + crescita utili = rendimenti elevati
Un mercato rialzista comincia sempre con valutazioni inferiori alla media e termina con valutazioni superiori alla media.
Il mercato giapponese è un esempio di mercato ribassista (e poi laterale) da libro di testo. Al picco a fine anni 1980, l’indice Nikkei 225 produceva utili aggregati di 590 e trattava ad un P/E di 66x. Nel corso dei 13 anni seguenti gli utili sono crollati a 191, mentre il P/E si è contratto a 43x, producendo una perdita cumulata di quasi 80%. Nei 10 anni seguenti gli utili sono risaliti fino a 570 oggi (inferiore al valore del 1989), ma il P/E si è ridotto ulteriormente (oggi è 25x, ma era sceso anche a 12x), e pertanto il mercato non è andato da nessuna parte e si è mosso in maniera laterale.
Lo stesso vale anche a livello di singole azioni e Microsoft (qui sotto) ne è un esempio, ma se ne potrebbero trovare molti altri. A dicembre 1999, quando produceva utili per azione di $0,71, MSFT trattava a $58 per un P/E di 82x; un anno dopo, gli utili erano saliti a $0,85 ma il mercato le assegnava un P/E di solo 26x e quindi il prezzo era sceso a $22. Dopo oltre tredici anni, gli utili sono saliti a $2,70 (+220%, per un incremento annuo di oltre 9%), ma il P/E si è ulteriormente ridotto, ed il prezzo è salito di “solo” 80% fino a $40.
Se torniamo ai dati sull’indice S&P 500, possiamo suddividere il periodo dal secondo dopoguerra in 4 sotto-periodi di durate più o meno simili, per i quali valgono esattamente le considerazioni sopra riportate in termini di rendimenti (ex-post) determinati dalle variazioni di utili e P/E (i dati non comprendono il reinvestimento dei dividendi e sono ribilanciati a 100 all’inizio del periodo).
Chiunque investa oggi nei mercati azionari, soprattutto attraverso strumenti passivi/indicizzati e basandosi sulle previsioni di dove saranno i mercati tra qualche mese (“il trend rialzista continuerà perché…”, “siamo vicini allo scoppio della bolla perché…”), deve avere un’opinione sull’evoluzione di queste due variabili.
questo post ha un contenuto molto simile, analizzando walmart e cocacola! http://www.gurufocus.com/news/264199/walmart-and-coca-cola--how-much-is-too-much-
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