venerdì 29 agosto 2014

Banca IFIS, ed altre considerazioni sull’analisi delle banche

Banca IFIS (IF:IM) è “l’unico gruppo bancario italiano indipendente specializzato nella filiera del credito commerciale, del credito finanziario di difficile esigibilità e del credito fiscale.

Al prezzo corrente di €15,5 la valutazione è:
   Capitalizzazione:         €830 milioni
   P/CE (ultimi 12 mesi):  9x
   P/CE (5 anni):             17x
   P/BV:                         2,1x
   Dividend yield:           3,7%

[CE sta per “Comprehensive Income”. Questo multiplo è da preferire al più classico P/E, soprattutto per le società finanziarie, perché include tutto quello che si riflette direttamente nell’equity, non solo i profitti: cambiamenti nelle passività pensionistiche (IAS 19), cambiamenti nel valore delle attività finanziarie sia per la vendita che come copertura, variazioni nei tassi di cambio per attività non domestiche, …]

Si può subito notare la differenza tra la valutazione usando gli utili recenti e quelli degli ultimi 5 anni. Anche il P/BV non è a sconto: la maggior parte delle banche europee trattano oggi tra 0,5x e 1,7x (anche se si potrebbe obiettare che Banca IFIS non è una “tipica” banca). 

Il dibattito sulla valutazione: utili o book value?
Gli investitori in banche discutono da anni su cosa sia più importante: gli utili o il book value? Entrambe le teorie hanno i loro pro ed i loro contro, ed un analista diplomatico potrebbe rispondere alla domanda con: “Dipende dalla redditività della banca”.

Se questa genera buoni profitti dovrebbe essere valutata sulla base degli utili (e/o dividendi) attesi: il valore di un’azienda in buona salute (banca o altro) che genera utili/flussi di cassa stabili è infatti ottenuto attualizzando questi utili/flussi futuri. Per una banca in questa situazione il book value è quasi irrilevante (ma non completamente!), purché vi sia sufficiente capitale per sostenere le attività operative. Al contrario, una banca che non riteniamo sarà sufficientemente redditizia in futuro (ad esempio il ROE è inferiore al cost of equity) dovrebbe essere valutata sulla base del tangible book value, magari aggiustato per la qualità degli impieghi e per intangibles con qualche reale valore. 

Gli investitori value (soprattutto quelli deep value) guardano principalmente al book value. Sanno benissimo che gli utili sono importanti, ma il loro ragionamento è: “In qualsiasi momento potrebbe esserci un problema e gli utili ridursi o sparire (vedi 2008); il book value invece è molto più stabile e meno volatile”. Questi investitori tendono a gravitare verso banche in difficoltà, poco redditizie o sovracapitalizzate, che possono essere comprare a sconto rispetto al reale book value nell’attesa che il mercato riveda al rialzo le proprie opinioni.

Personalmente ritengo la solidità patrimoniale un criterio imprescindibile in ogni investimento, ed a maggior ragione quando si parla di istituzioni finanziarie: per una banca tutto comincia e finisce con lo stato patrimoniale, che può essere la sua forza o la sua debolezza, perché una banca produce profitti (o perdite) attraverso la qualità dei suoi assets. Al contrario, utili elevati ed in crescita non sono di per sé un’assicurazione: nel 2007 c’erano molte banche con un ROE superiore al 15%, e così è rimasto fino al giorno in cui sono fallite. In un mercato rialzista in pochi si preoccupano della struttura patrimoniale: gli utili nei prossimi 6 o 12 mesi sono tutto quello che interessa. Ma i capovolgimenti nella fortuna avvengono spesso repentinamente, e quando accadono è troppo tardi per pensare alla sicurezza dello stato patrimoniale.

Di conseguenza, l’analisi di Banca IFIS si concentrerà quasi esclusivamente sul suo stato patrimoniale e molto poco sul conto economico.

Premessa: cos’è il capitale di una banca e cosa c’è di sbagliato nelle regole di Basilea
Il capitale delle banche è diventato un argomento di dibattito molto complesso, con una marea di opinioni da parte di accademici, autorità di mercato, banche, media e naturalmente politici. Il problema è che questa discussione, spinta dai sofisticati modelli matematici alla base delle regole di Basilea II & III, ha fatto perdere di vista il reale significato di capitale (Andrew Haldane, capo economista della Bank of England, ritiene che oggi le banche devono fare oltre 200 milioni di calcoli per determinare il livello di capitale necessario!).

Il concetto è invece molto semplice: il capitale delle banche serve a proteggersi dalle perdite inattese. Dovrebbe infatti essere usato per resistere a problemi non previsti, mentre le perdite attese sono spesate ogni anno nel conto economico sotto forma di rettifiche di valore per deterioramento degli impieghi (loan loss provisions). Il ruolo del capitale è di rassicurare i creditori della banca e, in ultima istanza, le autorità. Trovare il livello appropriato di capitale una decisione chiave per la stabilità e longevità della banca.

Purtroppo gli accordi di Basilea dicono stranamente poco sulla questione. Non vi è alcuna discussione del suo ruolo nelle 77 pagine di questo report (“Basel III: A global regulatory framework for more resilient banks and banking systems”). Tutto quello che il documento dice è che le banche necessitano di “high quality capital”, definito in maniera asettica come “common shares and retained earnings”. Al contrario, la US Federal Reserve riconosce almeno a livello teorico il suo scopo:

Bank capital serves as an important cushion against unexpected losses. It creates a strong incentive to manage a bank in a prudent manner, because the bank owners’ equity is at risk in the event of a failure. Loan loss reserves are generally intended to cover expected losses. Thus, bank capital plays a critical role in the safety and soundness of individual banks and the banking system.” (Federal Reserve Bank of San Francisco, “What is bank capital and what are the levels or tiers of capital?”)
Il concetto di pesare le attività secondo il loro presunto grado di rischio (risk-weighted assets, RWA) è sbagliato da un punto di vista fondamentale ed è in gran parte responsabile delle crisi degli ultimi anni. Questa metodologia ha portato infatti le banche (ed i loro azionisti) ad auto-convincersi che la crescita delle attività in bilancio fosse molto inferiore a quella reale.

Questo è un punto estremamente importante perché mentre gli impieghi sono pesati a seconda del loro rischio atteso, le passività non lo sono. Anche se un prestito di €100 può avere un peso di 0%, 50% o 100% (e quindi contare “meno” in termini di RWA), richiede sempre €100 di passività (depositi, debito o equity) per supportarlo.

In aggiunta a questa considerazione di “comune buon senso”, ci sono molteplici problemi tecnici con l’applicazione delle regole di Basilea.

  • Come si modellano le perdite inattese? Tutti i modelli sono basati su ciò che è già accaduto: predicono il futuro estrapolando i dati dal passato. Secondo la metodologia di Basilea le banche dovrebbero arrivare ad una stima delle perdite inattese sui loro portafogli: un concetto veramente interessante quello di modellare quello che non ci si aspetta… È un cane che si morde la coda: si usano le perdite attese (storiche) per decidere quanto capitale avere a disposizione, ma questo capitale dovrebbe servire per le perdite inattese, che per definizione non possono essere previste. In parole semplici: le regole permettono alle banche di detenere capitale sufficiente solo per i rischi idiosincratici (ovvero che la banca fallisca per quello che può succedere al suo portafoglio) piuttosto che per fallimenti sistemici (ovvero che la banca sia in pericolo per le azioni delle altre banche). Il secondo scenario è non solo più probabile in un’economia globale, ma soprattutto molto più pericoloso.
  • Ci sono troppi pochi dati. Supponiamo che le perdite inattese possano invero essere modellate estrapolando i trend storici. Per le banche europee questo vuol dire, nel migliore dei casi, avere dati disponibili dall’inizio degli anni 1990, cioè poco più di 20 anni. L’attuale ciclo del credito è cominciato molto prima (ha radici almeno negli anni 1970, probabilmente nel secondo dopoguerra), che vuol dire che i dati utilizzati coprono se va bene metà del ciclo e soprattutto la parte più favorevole.
  • Incoraggia comportamenti sbagliati. Le banche si focalizzano sul numero, non sull’effettivo rischio sottostante. Questo porta a quella che si chiama “RWA optimisation”, forse le parole più pericolose oggi nel sistema bancario, nonché ad arbitraggi delle regolamentazioni e delle tassazioni. E soprattutto non viene penalizzata la crescita eccessiva, l’altro grande rischio per le banche. Il grafico sottostante mostra come RWA come percentuale delle attività totali siano diminuiti nell’ultimo decennio: ma il rischio intrinseco di un asset non cambia solo perché lo si è “ottimizzato” ed è difficile pensare che l’esposizione delle banche (intesa come probabilità di default degli investimenti) sia realmente diminuita di un terzo in questo periodo.
 

A riprova di quanto detto, basta vedere i risultati degli stress test fatti dalla European Banking Authority (EBA) nel luglio 2011: questi erano basati sul Core Tier 1 ratio (CT1) calcolato in uno scenario “avverso”.

Tre banche che avevano ottenuto il via libera dalla EBA sono poi fallite: Dexia (secondo il report all’epoca la tredicesima migliore banca in Europa con un CT1 nello scenario avverso di 10,4%), SNS Bank (CT1 di 7%) e Bank of Cyprus (CT1 di 6,2%). La spagnola Bankia è un altro caso interessante: lo stress test concluse che nello scenario avverso la banca avrebbe avuto bisogno di solo €1,3 miliardi per raggiungere un CT1 minimo di 6%, mentre a maggio 2012 ci fu bisogno di una infusione di €24 miliardi di nuovi fondi per farla sopravvivere. A queste si potrebbero aggiungere tutte quelle banche che superarono lo stress test ma poi hanno dovuto comunque procedere ad una capitalizzazione (attraverso la vendita di assets, il taglio dei dividendi o equity aggiuntivo dal mercato): Danske Bank, KBC, DNB, Santander, Deutsche Bank, Commerzbank, Unicredit, National Bank of Greece, …

È quindi chiaro che la metodologia di RWA ha molti difetti. Uno screening basato su un semplice equity-to-assets ratio da al contrario risultati migliori. Questo ratio non cerca la precisione assoluta (“It is better to be roughly right than precisely wrong”) quanto la semplicità, e ha un track record migliore perché è incentrato sul concetto di incertezza e non di rischio idiosincratico: le tre banche che avevano ottenuto luce verde dalla EBA sul CT1 ma poi sono fallite avevano infatti un adjusted equity/assets ratio di appena 1%!

Quello che rimane è determinare quale sia il livello ottimale: un valore di 6%-8% sembrerebbe appropriato studiando i sistemi bancari negli ultimi secoli (non anni…), l’impatto della recente crisi e la ricerca accademica. 

Nel resto del post vengono usate due versioni del rapporto equity/assets, così definite:

  • Standard”: semplice rapporto tra equity ed assets, dove questi ultimi sono calcolati utilizzando il valore netto delle posizioni in derivati
  • Pain”: una stima più conservativa della solidità della banca in situazione di liquidazione per ricomprendere anche i rischi sistemici. Il numeratore (equity) è aggiustato sottraendo le minorities, tutti gli intangibles (sia il goodwill che gli altri intangibles sono peculiari alla banca, e quindi non hanno valore in caso di liquidazione) e le attività fiscali anticipate (deferres tax assets: queste rappresentano un attivo solo se possono essere portate a deduzione della tassazione in caso di profitti futuri, e quindi anch’esse non hanno alcun valore in una situazione di liquidazione). Per omogeneità, anche dal denominatore (assets) è sottratto il valore degli intangibles.
Banche, crescita e ROE
La crescita è lo steroide preferito dagli investitori azionari, soprattutto nel breve periodo. Per molte banche, la risposta dovrebbe piuttosto essere: “No, grazie”. Le teorie finanziarie postulano che la crescita è positiva finché il return on equity si mantiene superiore al cost on equity. Questa assunzione non è però valida in assoluto per le banche per due motivi:

  1. Ignora la relazione tra crescita e ROE, che è dinamica e non statica. Quando le attività di una banca crescono, il margine di intermediazione ed i profitti aumentano più velocemente delle perdite sugli impieghi. La crescita è facile da ottenere nel breve periodo ed il suo successo iniziale da la falsa impressione che i rendimenti aggiuntivi siano eccellenti: questo porta il management a sopravvalutare il ROE e a sottostimare il COE, e quindi ad espandere troppo le attività.
  2. Rischi “long tail”. L’attività di una banca non è molto diversa da vendere opzioni call: venderne molte (crescere) è facile, la vera sfida è gestire il rischio. Quando fa un prestito, la banca incassa un premio (interessi) e spera che l’opzione non venga mai esercitata (cioè che il prestito sia ripagato alla scadenza). Vendendo più opzioni (= facendo più prestiti) il margine di intermediazione aumenta per i premi incassati, ed allo stesso modo i profitti. Ma i prestiti tendono a diventare problematici solo dopo circa 2-3 anni dalla loro concessione: quindi i profitti aumentano più velocemente delle perdite sui prestiti, il ROE migliora e questo giustifica ulteriore crescita. Sembra un circolo virtuoso: purtroppo poi arriva il 2008 (ma basta anche una normale recessione o contrazione dell’attività economica) e la situazione si capovolge, con le perdite che si mangiano i profitti passati.
Come mostra i due grafici sottostante per un campione di banche europee (fonte: Bank Berenberg), la qualità degli impieghi è inversamente proporzionale alla loro crescita.


Sarei molto cauto nei riguardi di qualsiasi banca (ed anche assicurazione) che aumenta la propria attività del 20%-25% all’anno, perché il rischio è che prima o poi questa crescita si ritorca contro. Il maggior rischio per le banche non è una frode ma la stupidità.

Come è capitalizzata Banca IFIS?
La tabella sottostante presenta i valori di equity/assets ratio e del Tier 1 ratio per alcune delle principali banche europee.


Alcuni commenti sui numeri nella tabella:
  • Tutte le banche nel campione hanno oggi valori di Tier 1 ratio più alti dei minimi richiesti. Tuttavia, mentre oltre metà di esse ha un equity/assets “standard” ratio superiore al livello del 6% prima identificato, solamente una supera il minimo quando questo è calcolato in situazione di liquidazione (equity/assets “pain”) e solo altre 3 ci sono vicine.
  • La maggior parte delle banche mostrano un miglioramento nella loro solidità rispetto agli anni pre-2007 (con l’eccezione delle banche italiane e della spagnola Santander), anche se spesso in modo solo marginale: il deleveraging per sistemare la situazione patrimoniale di una banca è un processo lento e complicato.
  • Un elevato rapporto equity/assets “standard” nel 2007 non sarebbe stato una garanzia sufficiente per affrontare la crisi. Alcune delle banche che l’hanno superata meglio (quelle scandinave, ad esempio) sono entrate nel 2008 con i ratio più bassi di questo gruppo. Al contrario, quelle che hanno sofferto di più (banche italiane, austriache e spagnole) avevano una leva finanziaria inferiore. Non è soltanto una questione di avere bassa leva, ma è soprattutto la qualità degli impieghi che determina le fortune di una banca. Quelle italiane hanno patito per le sofferenze dei prestiti e per l’elevato peso dei titoli di stato in portafoglio; quelle spagnole (così come quelle irlandesi) per i prestiti immobiliari fuori controllo; mentre per le banche austriache i problemi sono venuti dagli investimenti in Europa dell’Est.
Nel caso specifico, Banca IFIS è entrata nella crisi con una posizione patrimoniale molto solida (equity/asset “pain” superiore al 10%, che equivale ad una leva in situazione di stress sistemico inferiore a 10x, effettivamente molto bassa): non sorprende che sia stata infatti una delle banche europee con la miglior performance negli ultimi 5 anni. Ma oggi la situazione è completamente diversa e sembra avere una leva molto maggiore: i due ratio sono ben lontani dal minimo del 6%, anche se quello “pain” non è molto inferiore alla media del mercato. Questo vuol dire che è vulnerabile a movimenti nel valore dei suoi assets che potrebbero spazzare via gli azionisti (come successo a MPS)? Non necessariamente: come detto il rischio dipende principalmente dalla qualità degli assets.

Per quello che riguarda i prestiti a clienti, Banca IFIS ha oggi un’esposizione di oltre €2,5 miliardi, così suddivisi:



La qualità dei prestiti è in miglioramento, essendo scesa la percentuali di crediti deteriorati dal 16% del 2011 e 19% del 2012 a circa 11%. Quasi 80% dei crediti fa riferimento ad operazioni di factoring, anche se il segmento “Altro”, che include i crediti fiscali, ha una percentuale di incagli maggiore.

Analizzando i crediti deteriorati per le sole operazioni di factoring, si vede come la percentuale sul totale prestiti per Banca IFIS sia in media il doppio delle altre banche italiane.

Questa è una conseguenza del focus sulle PMI e sui crediti di difficile esigibilità, ed si riflette anche nel maggior costo della qualità creditizia (dato dal rapporto tra le rettifiche di valore su crediti e la media degli impieghi verso clientela).

Dal 2008 ad oggi, Banca IFIS ha registrato rettifiche cumulate sugli impieghi di oltre il 10% dei prestiti fatti nel periodo, un valore sensibilmente superiore alle altre banche europee ed italiane. Quindi, la qualità media dei prestiti è effettivamente inferiore alle altre banche, ma sono stati fatti sufficienti accantonamenti (il coverage ratio per i non-performing loans è del 60%, mentre la copertura di tutti i crediti dubbi è del 40%).

Il portafoglio titoli è ancora più semplice da analizzare e consiste unicamente di obbligazioni governative italiane con una scadenza media attuale attorno a 1,6 anni. Tale portafoglio si è ridotto sensibilmente nel corso del 2014 ed è utilizzato prevalentemente per ottenere un funding a costi contenuti attraverso operazioni di pronti contro termine sulla piattaforma MTS o di rifinanziamento sull’Eurosistema.

L’aumento degli assets che ha prodotto la drastica riduzione del rapporto equity/assets dal 2007 è stato dovuto a maggiori investimenti in titoli di stato, non certo in sub-prime mortgages o CLOs, quindi la maggiore leva finanziaria non rappresenta di per sé un pericolo imminente.

Come si finanzia Banca IFIS?
Contrariamente alle aziende industriali, che falliscono per insolvenza (il valore delle attività è inferiore a quello dei debiti), le banche falliscono prevalentemente per problemi di liquidità, ovvero l’impossibilità di rifinanziare le passività in scadenza. Praticamente tutte le crisi bancarie, e soprattutto quelle recenti, hanno origine in problemi di liquidità: Northern Rock, Bear Stearns, Lehman Brothers, Washington Mutual, Fortis…

La metodologia di Basilea di pesare gli assets per il loro rischio ha portato molte banche ad accrescere in maniera smisurata la dimensione degli impieghi: questa crescita è stata finanziata in gran parte dallo shadow banking system. Con la contrazione di questo mercato alternativo, la maggior parte del funding bancario è oggi fatta attraverso le banche centrali.

La raccolta di Banca IFIS avviene attraverso due canali:

  • Retail, con i prodotti rendimax e contomax (il secondo lanciato lo scorso anno e ad oggi ancora marginale);
  • Banche (inclusi i pronti-contro-termine).
Il costo della provvista presso banche è oggi praticamente pari a zero, mentre quello della clientela retail è molto superiore.

Confrontando l’evoluzione del costo della raccolta nel corso del tempo, si evince come Banca IFIS sia assolutamente in linea con le altre banche italiane (il numero tra parentesi indica la media dal 2008: Banca IFIS paga solo poco più per il costo del debito).

La maggiore differenza è nella composizione della raccolta: tutte accedono ai finanziamenti della BCE, ma le altre banche fanno maggior uso di conti correnti ed obbligazioni a medio termine (sia istituzionali che retail), mentre Banca IFIS utilizza principalmente i conti di deposito. Questa distinzione non è secondaria: la migliore (e più economica) forma di finanziamento per le banche sono i depositi dei clienti. Questo perché questa raccolta è considerata sticky: a meno di situazioni di panico, i conti correnti dei clienti sono una forma di funding molto stabile. Per quanto possiamo essere insoddisfatti, è sempre fastidioso spostare il conto corrente presso un altro istituto (necessità di cambiare bancomat e carta di credito, accredito salario/pensione, domiciliazione bollette, lentezza nell’aprire un nuovo conto, …) e pertanto è fatto solo sporadicamente.

Banca IFIS ha tuttavia poca raccolta sotto questa forma: solo il nuovo contomax che pesa per circa €85 milioni rispetto a €3.700 milioni per rendimax, che però è un conto di deposito (libero o vincolato). Non solo il costo della raccolta è molto superiore per rendimax, ma soprattutto non si tratta di un conto corrente utilizzato per le spese di tutti i giorni, quanto piuttosto un modo per investire la liquidità a breve termine. Negli ultimi anni ha avuto un enorme successo per i generosi tassi che pagava su 12 e 24 mesi, ma questi depositi sono in concorrenza con BOT, CCT ed obbligazioni bancarie (ed infatti Banca IFIS ha recentemente ridotto i tassi portandoli in linea con questi strumenti) e si spostano a seconda della convenienza del rendimento.

Lo stato patrimoniale di Banca IFIS non presenta particolari criticità, non è un “black box” come quello di molte altre banche e non sembra esserci un particolare mismatch in termini di duration tra attività e passività. È vero che le passività sono prevalentemente a breve termine (in particolare, i conti di deposito potrebbero “scomparire” rapidamente se non fossero più così convenienti), ma anche il lato degli attivi è molto liquido, essendo composto essenzialmente da operazioni di factoring (per loro natura tipicamente di breve durata e quindi si adattano rapidamente a cambiamenti nei tassi d’interesse) e titoli di stato con scadenza media inferiore a 2 anni. 

Può continuare ad avere un ROE del 25%?
Questo è certamente il punto centrale di tutta l’analisi, perché il ROE è la singola metrica più importante nel determinare il valore di una banca.

Nella loro forma base, le banche sono un commodity business e fanno tutte le stesse cose: raccolgono depositi da clienti ed investitori e prestano questi soldi con un mark-up. Non ci sono licenze o brevetti che permettono il monopolio in un settore e quindi generare extra-profitti: se qualcosa sembra particolarmente vantaggioso le altre banche si affretteranno ad occuparlo riducendone i rendimenti. Per gli stessi motivi, le banche hanno poche leve a disposizione per migliorare la loro redditività: i tassi a cui possono investire, il costo del funding e gli altri costi operativi.

Il ROE di Banca IFIS mostra un andamento peculiare: per alcuni anni è stato attorno a 15% con poca volatilità - un livello di tutto rispetto per una “buona” banca -, per poi esplodere nel 2012 ad oltre 25% con gli utili che sono saliti da €20-25 milioni ad oltre €80 milioni.


Questo trend è facilmente spiegabile guardando a quali fattori hanno spinto i profitti, ovvero il margine di interesse con l’enorme contributo degli interessi sui titoli di stato. L’exploit degli ultimi tre anni è stato quasi interamente dovuto agli investimenti finanziari (in parte anche ai prestiti alla clientela, che sono però aumentati proporzionalmente in maniera inferiore): da quasi zero nel 2008, gli investimenti in titoli passati a circa €400 milioni nel 2009 e hanno raggiunto la cifra di €8,4 miliardi alla fine del 2013. Sicuramente un’ottima decisione, visti gli eccellenti risultati dei BTP nel 2012 e 2103.

Con i tassi italiani oggi molto più bassi, la sfida per Banca IFIS sarà di sostituire i profitti del portafoglio obbligazionario con gli utili generati dall’attività core: questo è evidente nella decisione di non reinvestire i €2,2 miliardi di titoli maturati nel 2014 e di acquistare lo scorso luglio un ulteriore portafoglio di non-performing loans del valore di €1,3 miliardi. [Una veloce considerazione su ques’ultima operazione: non sono riuscito a trovare da nessuna parte maggiori informazioni sul portafoglio, né su chi sia il venditore né sulla sua composizione né soprattutto sul prezzo pagato: se dovesse essere attorno a 3%-4% del nominale come in passato l’investimento sarebbe di “soli” €40-50 milioni, ma al momento è difficile trarre maggiori conclusioni sulla bontà dell’operazione].

La seguente tabella mostra un altro aspetto interessante: mentre il rendimento totale degli assets (ROA) si è ridotto ed è oggi due terzi di quello pre-2011, la leva finanziaria (come già ricordato) è invece esplosa, più che raddoppiando e portando ad un aumento di quasi il 10% nel ROE [vale infatti la relazione: ROE ~ ROA x leva].


Seguendo il consiglio di Charlie Munger (“Invert, always invert!”), ho fatto una veloce simulazione per vedere sotto quali ipotesi può essere mantenuto il livello attuale del ROE: questa non è assolutamente una previsione della redditività futura, perché questo sarebbe un esercizio futile. La simulazione è di tipo bottom-up e funziona nel modo seguente:
  • Il punto di partenza è il ROA: nel 2013 è stato di 0,9% e la media dell’ultimo decennio è tra 1% e 1,3%.
  • Equity è quello atteso a fine 2014 ed è dato dal valore del 2013 più l’utile atteso per quest’anno meno i dividendi attesi.
  • Il totale dell’attivo è dato dal valore al 30 giugno (escluse alcune poste minori che non producono reddito) ed è diminuito delle obbligazioni che scadono prima della fine dell’anno: l’ipotesi è che nel secondo semestre, come già accaduto nel primo, non vi sia reinvestimento in altri BTP perché non più conveniente. La conseguenza principale è una riduzione della leva finanziaria da 24x a 18x.
  • Partendo dal basso, l’utile netto è dato dai diversi livelli di ROA.
  • L’utile pre-tasse è quindi calcolato assumendo una tassazione marginale del 35%.
  • Le rettifiche sui crediti sono quantificate ipotizzando un costo della qualità creditizia del 2%, il livello del primo semestre ed anche molto vicino alla media degli ultimi 5 anni.
  • Il margine di intermediazione è una funzione delle spese operative, calcolate con un cost/income ratio del 35%: più alto rispetto ai valori di 30%-33% dell’ultimo anno ma più in linea con la media storica.
  • Le commissioni nette sono state stimate dal valore del primo semestre e dalla media degli ultimi 5 anni.
  • Quello che rimane arrivando in cima è quindi il margine d’interesse, e da esso il net interest margin (NIM).

Partendo da quest’ultimo valore, si vede che per mantenere un ROE almeno del 20% – ovviamente sotto queste numerose assunzioni! – il NIM deve essere circa 2,9%-3,1%. Questo dipende dalla competizione nei mercati di riferimento: maggiore è la competizione, minori sono i tassi che si possono caricare sui prestiti ai clienti e minore è il NIM. Per Banca IFIS nel 2013 è stato del 2,2% e la media recente è più vicina a 1,9%. In aggregato le banche italiane fanno anche peggio (inferiore a 1,8%) ed anche in Europa sono pochi i paesi nei quali la competizione è limitata. Ripeto, questa non è una previsione sul ROE futuro e le ipotesi fatte sono molteplici e passibili di critiche. Ma queste considerazioni portano a ritenere che il ROE potrebbe effettivamente tornare verso i valori storici del 15%.

Cosa implica la valutazione attuale?
Partendo dal presupposto che Banca IFIS sembra essere solida e redditizia (un ROE del 15% non è da disprezzare per una banca, anzi…), l’ultimo passo è determinare quale possa essere il suo valore intrinseco, o, meglio, quanto stiamo pagando oggi per cosa

Anche se poco utilizzato, è sempre utile analizzare e valutare una banca sotto le lenti del Dividend Discount Model. Questo perché nel lungo periodo il valore di ogni investimento è dato dai flussi di cassa che gli investitori riescono ad ottenere, attualizzati ad un appropriato tasso di sconto. In condizioni “normali” (già questa un’assunzione non da poco) le banche sono particolarmente adatte ad essere analizzate con il DDM perché: 1) hanno una lunga storia di pagamento dei dividendi; 2) in aggregato il payout tende ad essere molto stabile; 3) i tassi di crescita di lungo periodo non sono difficili da ipotizzare e possono essere stimati con un buon grado di accuratezza.

Anziché usare il DDM per determinare il valore intrinseco, preferisco controllare qual è la crescita del dividendo (che nel lungo periodo dovrebbe approssimare quella degli utili) implicita nel prezzo attuale. Utilizzando quindi il dividendo del 2013 (€0,57/azione), il prezzo attuale (€15,5) ed un range per il cost of equity, si ottiene:


Assumendo un costo dei mezzi propri di 10%-12% (adatto ad una banca italiana) si ha una crescita attesa di circa 6%-8%. Se questi valori possono sembrare bassi rispetto a quanto realizzato da Banca IFIS negli ultimi anni, occorre ricordare che questi sono i tassi di crescita attesi in perpetuo: nessuna azienda può continuare a crescere al ritmo del 40% in eterno. Infine, i tassi di crescita sostenibili sono anche una funzione del ROE, secondo la formula: crescita = ROE x (1 – payout ratio). Le ipotesi del management sono di un payout ratio futuro non inferiore al 35% del 2013: utilizzando la media storica del 45%, un ROE del 20% implica una crescita di 11%, mentre un ROE di 15% porta a 8%.

Un’altra considerazione sui dividendi. Quando un’azienda non ha buone opportunità di reinvestimento, è ragionevole che restituisca agli azionisti la maggior parte dei flussi di cassa disponibili. Ma se ha più opportunità che capitale, allora è preferibile non pagare affatto dividendi (vedi ad esempio Berkshire Hathaway). Il payout previsto per Banca IFIS è in linea con quanto storicamente pagato dalle banche: ma le altre banche non hanno le opportunità di crescita che ha Banca IFIS (almeno all’apparenza). Considerando la tassazione, €1 pagato in dividendi vale meno di €0,70 nelle tasche degli investitori; lo stesso euro non distribuito, ai valori correnti di ROE e P/BV, vale invece €2 in capitalizzazione di mercato. Quale strategia dovrebbe preferire un investitore di lungo periodo?  

Infine, anche se sono il primo ad ammettere che si tratta di un’analisi molto aleatoria, poiché Banca IFIS è invero una banca redditizia, vediamo quale potrebbe essere una valutazione delle attività core basata sugli utili “normalizzati”. Le assunzioni di partenza sono:

  • I proventi dai titoli di prossima scadenza non saranno reinvestiti ed a fine anno il portafoglio titoli scenderà a €5,1 miliardi. Il rendimento sui BTP a 2 anni è oggi circa 0,5%: ipotizziamo che il livello di equilibrio sia 1%.
  • I crediti verso clienti sono €2,6 miliardi (escludendo il portafoglio di NPLs appena acquistato per mancanza di informazioni sufficienti); il rendimento di questi impieghi è attorno a 6%. 
  • I crediti verso banche sono €350 milioni: assumiamo un rendimento di 1,5%, superiore ai titoli di stato.
  • La raccolta retail attuale è di €3,8 miliardi: il suo costo è stato recentemente attorno a 4%, ma è in calo per la diminuzione dei tassi italiani; ipotizziamo che per i prossimi anni il costo scenda a 2%.
  • I debiti verso banche, eliminando i titoli in scadenza non più usati nel funding, scendono anch’essi attorno a €3,8 miliardi; il costo di finanziamento presso la BCE è quasi nullo (0,1%).
  • Commissioni nette, spese operative, rettifiche e tassazione sono le stesse ipotizzate nella simulazione precedente. 

Sotto queste ipotesi, non certo punitive ma anzi generose soprattutto per gli interessi attivi e passivi, il margine d’intermediazione “normalizzato” sarebbe di circa €200 milioni, rispetto a €264 milioni nel 2013, mentre l’utile netto scende a €50 milioni, rispetto a €85 milioni nel 2013 (ma comunque sempre il doppio di quanto realizzato pre-2012). Improvvisamente, a questi valori il P/E di 9x che sembrava attraente è in realtà per le attività core di 17x, non più così economico per una banca.

Conclusioni: Banca IFIS ha uno stato patrimoniale solido, non complesso e senza particolari problematiche, e pertanto la sua stabilità nel medio periodo non dovrebbe essere assolutamente a rischio. Opera in un segmento di nicchia, in parte anti-ciclico ed in rapida crescita, ma non è la sola a farlo: seppur le banche italiane hanno ridotto l’ammontare di prestiti erogati negli ultimi anni, tutti i maggiori istituti hanno aumentato l’esposizione al factoring, che ad oggi rimane il cuore dell’operatività di Banca IFIS.

Infine, pur considerata la “qualità” della banca, la sua valutazione attuale non è così a buon mercato come potrebbe sembrare ad una veloce e superficiale analisi, soprattutto se guardiamo agli ultimi anni anziché ai soli ultimi 6 mesi.

Come al solito, commenti, idee e critiche sono ben accette.

15 commenti:

  1. Banca IFIS a 35 €!!!!
    Vai studiare l'analesi fondamentale dei titoli, prima di scrivere sciocchezze su internet!
    Fai bene a cancellare i miei commenti, perchè ti vergoni eh!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. ma che vita grama devi avere se sei sempre qui a commentare! potresti provare a farti qualche amico, una ragazza..

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  2. Banca IFIS a 47€ e avanti così!!!

    Ma lei continui pure a comprare robe da intenditori rumene Fondol Proprietazi e le aziende KazakeGas che si trovano solo con Degiro.

    Mentre c'è chi tranquillo tranquillo si compra IFIS pure col conto alla BCC sotto casa, e poi ci sono i Buffett che si comprano Cattolica Assicurazioni.

    Va là, va là, che faresti meglio a studiare le tante IMA, DATALOGIC, TIP, RECORDATI, LA DORIA, FCA, FERRARI, ..., anzi che andare a cercare dei titoli stravaganti e assurdi.

    E poche ore fa S&P ha portato pure il rating dell'Italia a BBB (stable).
    Avanti così, un saluto cordiale!

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    1. Ciao Otto! Visto che sarai milionario dopo aver investito tutti i tuoi soldi in banca ifis, dovresti essere contento che ci sono dei fessi come me da spennare. Ed invece di goderti la vita, il tuo primo pensiero alle 3 del mattino è venire qui...

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  3. Mai detto, nè pensato lontanamente che lei sia un fesso!!!

    So bene che a posteriori è facile dire che IFIS sarebbe stato un ottimo investimento, ma le sue analisi sono sempre state anteriori e palesate qui sul blog, e questo lo riconosco e lo rispetto.

    Il punto è un altro, visto i tanti ottimi titoli che si trovano sulle borse tradizionali (parlo snche di mid/small cap) non comprenderò mai perché lei debba andare a cercare/comprare titoli particolarissimi semi sconosciuti, per altro acquistabili solo con pochissime banche.
    Pensi solo alla vagonata di IPO che sbarcheranno in Italia grazie ai PIR, non è verosimile che sbarchi solo spazzatura.

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  4. Usciti dati spettacolari anche quest'anno.

    Un'analisi completa se può interessare:

    http://marketinsight.it/2018/03/12/banca-ifis-nuovi-record-conferme-sul-piano/

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    1. vero, e allora perchè è scesa da 48 a 32?

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    2. Ex post potrei darti spiegazioni del tipo che gli investitori avevano paura che la nuova normativa sugli NPL potesse intaccare i rendimenti di IFIS.

      Ma penso sia solo "il mercato bellezza", come disse qualcuno (anche se in quel caso il mercato c'entrava zero, visto che quel qualcuno si riferiva a Banca MPS).

      IFIS, anche da Marzo a Luglio 2016 perse il 40% (da 28,8 a 16,9), alla fine è una small cap Italica.

      Mediobanca ha un target price per IFIS di € 39.

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    3. €39 è ben sotto il max di qualche mese fa

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    4. Beh va beh a €47 era sopravalutata, comunque €40 li vale tutti, magari €47 li rivedrà nel 2019.

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  5. Usciti i dati, un mezzo disastro.

    DATI RICLASSIFICATI: 1 aprile – 30 giugno
    – Margine di intermediazione a 138,7 milioni di euro (-7,3%);
    – Risultato netto della gestione finanziaria a 109,7 milioni di euro (-33,1%);
    – Costi operativi a 70,8 milioni di euro (+10,9%);
    – Utile netto di periodo a 28,4 milioni di euro (-60,0%)


    Mi sa che il suo anatema su questa povera banchetta si avvererà e tornerà davvero a 15€.

    E dire che Fürstenberge e Bossi sono sempre quelli di prima, come abbiano fatto a trasformarsi in due incapaci?!

    Mah.

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  6. Banca IFIS a 14€ in discesa libera (-70% in un anno)!!!
    Il suo anatema si è avverato.
    Poveri Bossi e Fürstenberg, mazziati senza pietà.

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    1. Ciao Otto, nessun anatema né maledizione…

      Se riguardi il post qui sopra vedrai che le conclusioni erano “stato patrimoniale solido, non complesso e senza particolari problematiche, e pertanto la sua stabilità nel medio periodo non dovrebbe essere assolutamente a rischio”.

      Ma allo stesso tempo, opera in un segmento molto competitivo, senza alcun particolare vantaggio, e trattava ad un prezzo non particolarmente a buon mercato (oggi potrebbe essere diverso). Non solo: gran parte dei driver della sua performance non sono sotto il controllo della banca (costo del funding, spread, disponibilità di NPL, situazione politica italiana, …), e quindi può far poco per manovrarli.

      Comunque, l’ultima volta che volta che siamo stati in una situazione simile (2011-2012), IFIS fece incetta di BTP ed i guadagni dal carry trade spinsero i profitti in alto (proprio quello che è mancato nel 2017 e 2018): magari riesce a rifarlo anche adesso.

      PS: controlla bene quei €620 ml di guadagno sull'acquisizione di Interbanca (“Bargain su acquisizione partecipazione”). Possibile che GE abbia venduto per €160 ml quello che Banca IFIS dice vale quasi €800 ml? Se questi assets non sono così buoni il book value andrà svalutato ed il P/BV diviene costoso. Forse è questo che il “mercato” prezza.

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  7. Hanno cacciato via l'AD Bossi, e a capo della holding La Scogliera che detiene la maggioranza di Banca IFIS hanno messo il figlio Ernesto Fürstenberg che fa il DJ.
    Delirio.

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    1. la qualità del management è essenziale in qualsiasi azienda, ma decisioni di questo tipo è praticamente impossibile includerle in un modello di analisi...

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