lunedì 28 ottobre 2019

Bolle, ieri ed oggi

Chi segue i mercati sa che l’euforia per gli unicorni sembra essere improvvisamente svanita: è quindi naturale fare un paragone con lo scoppio della bolla Internet alla fine degli anni 1990.

Allora come oggi, le aziende in questione hanno speso generosamente in marketing per attrarre nuovi clienti, ma non hanno mai trovato la strada per generare reali profitti. Sia nel 2000 che oggi si vantavano di poter cambiare il mondo, ma si sono accorte di aver finito i finito i soldi ben prima di riuscire nel loro intento. E, last but not least, in entrambi i periodi le valutazioni un tempo favolose si sono dimezzate nel giro di poche settimane.


Il grafico qui sotto riporta la performance dall’IPO di alcuni unicorni: non per tutti è stata una disfatta, ma sicuramente sono i più famosi come Uber, Lyft e Slack ad essere andati peggio. Senza considerare la saga di WeWork, la cui valutazione è stata ridotta dai $49 miliardi nell’ultimo round di finanziamenti e dai possibili $68 miliardi stimati nel pre-marketing dell’IPO fino ai soli $8 miliardi impliciti nel recente pacchetto di salvataggio. In maniera simile, anche Endeavor Group, un’agenzia per attori e sportivi, ha deciso di posticipare la quotazione visto lo scarso entusiasmo dei mercati.
Performance al 25 ottobre 2019. Non tutte le IPO sono avvenute quest’anno. Slack e Spotify non hanno seguito il tradizionale processo di quotazione (bookbuilding della banca d’affari, etc, …), ma hanno deciso di quotarsi in maniera diretta fissando un prezzo di riferimento. Le aziende nel grafico sono, dall’alto in basso: DocuSign, Zoom Video, Pinterest, Chewy, Cloudflare, PagerDuty, Dropbox, Spotify, Snap, Slack, Peloton, Uber, Lyft e SmileDirectClub.

Tuttavia, andando più in profondità possiamo vedere come la correzione attuale sia l’esatto opposto della bolla Internet. Quella fu infatti la classica mania speculativa nella quale investitori “ordinari” (non furono pochi quelli che lasciarono il lavoro convinti di diventare ricchi con il day trading) spinsero i prezzi nella stratosfera senza apparenti giustificazioni: bastava aggiungere il prefisso e- (come in eBay) o il suffisso .com (come in Amazon.com) per attirare gli investitori meno sofisticati. Il Nasdaq raddoppiò tra il 1999 ed il 2000 “senza nessun plausibile motivo basato sui fondamentali per sostenere una così marcata rivalutazione” (Bradford DeLong e Konstantin Magin in A Short Note on the Size of the Dot-Com Bubble). Il crollo seguente fu altrettanto rapido ed arbitrario: tra febbraio 2000 e febbraio 2002 il Nasdaq perse tre quarti del suo valore, “di nuovo senza sostanziali notizie fondamentali negative” (ibid.). Questo improvviso aumento e poi crollo nei prezzi di un’attività è la definizione stessa di bolla.

La situazione attuale è invece diversa, sotto almeno due aspetti. In primo luogo, nella bolla dot-com furono gli investitori in titoli quotati (retail, ma anche e soprattutto molti istituzionali) a lasciarci le penne: oggi sono invece proprio i mercati pubblici a dettare legge. Quando Netscape si quotò il 9 agosto 1995, il prezzo delle azioni schizzò da $28 a $75 in poche ore anche se l’azienda perdeva soldi: questo trend si ripeté in maniera analoga per i seguenti 4 anni. Oggi accade il contrario: gli unicorni che si quotano in perdita sono regolarmente massacrati. Peloton ha perso 11% il primo giorno di quotazione; SmileDirectClub il 28%; anche Uber è scesa di 8% (Lyft aumentò invece di 10% ma dopo è stata solo discesa). Gli investitori pubblici si rifiutano di accordare a questi unicorni le valutazioni che gli sponsor privati si aspettavano.

Questa non è l’immagine di una mania di massa: al contrario, dimostra la sobrietà dei mercati quotati che, nonostante siano raddoppiati o triplicati negli ultimi 10 anni, non hanno sofferto delle stesse allucinazioni degli investitori privati. Per chi è interessato, consiglio questo articolo
("The Great Public Market Reckoning") di Fred Wilson di Union Square Ventures ed uno dei più influenti venture capitalists:
“For this reason, valuations in the private markets, particularly the late-stage private markets, can sometimes be irrational. Public market valuations, certainly after a stock has traded for a material amount of time and lockups have come off, are much more rational.”
Inoltre, a giudicare dalle news sembrerebbe un anno pessimo per le aziende tecnologiche, ma c’è una enorme differenza tra le aziende software (“real tech”) e quelle che pensano di esserlo (“pretenders”). Ce ne sono moltissime, poco conosciute perché vendono solo B2B, che sono in guadagno di oltre 100% rispetto al prezzo di IPO (Zscaler, Anaplan, Smartsheet, …), senza contare le altre dozzine di aziende software quotate da anni che stanno andando benissimo. Quelle che hanno avuto problemi sono quelle che non sono realmente tech, ma così si promuovono: innanzitutto WeWork (che è a tutti gli effetti un’azienda immobiliare) e quelle che vendono più hardware che software (come Peloton), ma anche Uber e Lyft, che offrono semplicemente un mercato digitale nel quale le persone entrano per fare transazioni. Nell’articolo citato Wilson le divide in maniera molto efficace tra aziende con elevati margini lordi ed aziende con bassi (o negativi) margini lordi.

Questo esemplifica molto bene una caratteristica dei mercati attuali: è la tecnologia di consumo che riempie le news, ma è quella enterprise che realizza i profitti. E questo vale anche per i giganti come Microsoft, Google e Amazon, che genera oltre due terzi dei profitti operativi da Amazon Web Services (dal punto di vista degli utili sarebbe infatti più corretto dire che Amazon è un’azienda di data storage con un business accessorio di ecommerce…).

Molti dei più celebri unicorni non erano (e non sono) tech companies, quanto piuttosto legati al mondo “fisico” (i costi del lavoro per Uber e Lyft, i costi immobiliari per WeWork, …: considerazioni simili cominciano a circolare anche per AirBnB).

Quella attuale non è una nuova bolla dot-com, ma è meglio caratterizzata come una bolla not-com: un periodo di aspettative inflazionate per business che non avrebbero mai dovuto essere valutati come pure aziende tech. [*]

[*] Questo non vuol dire che tutte le aziende software siano buoni investimenti a qualsiasi prezzo, anche in questi casi ci sono enormi sopravvalutazioni e non tutte saranno winners.

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