mercoledì 20 gennaio 2021

Bubble series (II): lezioni dal crash del 1999

Dire “Non è una bolla se tutti dicono che siamo in una bolla!” non ha alcune fondamento storico: nel 1999 tutti sapevano che le valutazioni non erano sostenibili, arrivando a paragonarle addirittura alla mania dei tulipani.
Fonte: Bernstein Research.
 
Ma dire siamo in una bolla è facile, farci soldi (timing) è più difficile: molti investitori (Dalio, Lynch, Marks, Klarman, Soros e Buffett) avevano avvertito dei pericoli, ma la loro previsione è arrivata troppo presto. Che sia stato per l’euforia dei guadagni (è difficile lasciare il tavolo della roulette quando stai vincendo) o per la reale convinzione che “this time is REALLY different”, la maggior parte dei commenti negativi furono in anticipo di 12-18 mesi se non di più: dopo un rally di +38% di S&P 500 nel 1995, sia Dalio che Lynch predissero una correzione, salvo vedere il mercato salire di un altro +23% nel 1996 e di +33% nel 1997.
Fonte: Bernstein Research.
 
Persino Stanley Druckemiller non riuscì a sfuggire alla mania del periodo: ad inizio 1999 andò short per $200 milioni di azioni tech nel fondo Quantum di George Soros, ma dopo pochi mesi fu costretto a ricoprire la posizione con una perdita di $600 milioni. Da inizio anno a maggio il fondo perse 18% rispetto +15% per il Nasdaq e +10% per S&P 500. Seguendo il motto: “Bulls make money, bears make money, but pigs get slaughtered” e temendo di essere il “pig” della situazione, Druckenmiller passò da short a long comprando $6 miliardi di azioni tech nei mesi successivi. Dopo il crollo del 2000 il suo commento fu:
“I bought $6 billion worth of tech stocks, and in six weeks I had lost $3 billion in that one play. You asked me what I learned. I didn’t learn anything. I already knew that I wasn’t supposed to do that. I was just an emotional basketcase and I couldn’t help myself. So maybe I learned not to do it again, but I already knew that.”
Tuttavia, pochi si accorsero a marzo 2000 che la bolla era scoppiata: alcuni tra i migliori strategist capitolarono solo dopo giugno. Questo perché i fondamentali seguirono i prezzi, e non viceversa: la bolla scoppiò in Q1 2000, ma i fondamentali non decelerarono fino a Q4 2000. Usando l’espressione di Soros, “pure reflexivity at work”: prezzi in calo → contrazione di capex e spese marketing/R&D
crescita fatturati diminuisce o diventa negativa prezzi azioni in calo. Un vero e proprio circolo vizioso.

Fonte: Bernstein Research.
 
Il termine “tech bubble” è in realtà improprio, e sarebbe più corretto definirla come “large cap growth bubble”: è vero che Dell, Microsoft e Lucent erano tutte a P/E di 70x-90x (e Cisco a 128x), ma anche Coca-Cola era a 43x e Pfizer a 92x. Con l’eccezione di Johnson & Johnson e Procter & Gamble (ed in parte Coca-Cola), ogni singola azione nella tabella seguente è stata un disastro nei 10 anni successivi (N.d.R: che includono anche GFC, soprattutto per i titoli finanziari).
Fonte: Bernstein Research.
 
Senza dimenticare che la maggior parte dei titoli tecnologici large cap aveva all’epoca attività reali con fondamentali solidi: molte aziende dot.com con business model che non si reggevano in piedi sono ovviamente sparite, ma alcune sono diventate i giganti di oggi. Nel 2000, il settore software aveva una capitalizzazione di $1 trilione, margini netti di 20% e crescita annua di quasi 20%. Il problema? Trattava a 16x il fatturato.
Fonte: Bernstein Research, a dicembre 1999.
 
In altri casi è andata anche peggio: la seguente tabella mostra le prime 10 IPO negli ultimi 25 anni per il “pop” del primo giorno di contrattazione. 9 sono del 1999 (la decima è del 1998), mentre la prima della “nuova bolla del 2020” dovrebbe essere nCino (NCNO:US) con un pop di “solo” 195%.
Queste aziende non erano frodi, ed almeno 6/7 si sono rivelate nel corso del tempo business legittimi: semplicemente, comprare nell’euforia del momento si è rivelato un pessimo affare.

#10 Finisar: chiuse il primo giorno di contrattazione a $28 per $4,2 miliardi di capitalizzazione, è stata acquistata da II-VI Inc nel 2019 per $3,2 miliardi: alla fine, -20% in 20 anni per chi ha comprato il primo giorno non è nemmeno così male…

#9 Ask Jeeves (i boomer come me ricorderanno questo motore di ricerca!): primo giorno a $65 per poi scendere a meno di $1 nel 2001; si è poi ripresa fino ad essere acquisita nel 2005 da IAC a $28: complessivamente, -57% in 5 anni.

#8 Sycamore Networks: primo giorno a $184 per una capitalizzazione di oltre $14 miliardi; chiusa nel 2013 dopo aver pagato circa $1 miliardo in dividendi (le attività rimanenti furono cedute per $20 milioni), totale -93% in 13 anni.

#7 CacheFlow: primo giorno a $126 per una capitalizzazione di oltre $4 miliardi: rinominata Blue Coat Systems, è stata acquistata dal fondo di private equity Thoma Bravo nel 2011 per $1.3 miliardi ($25 ad azione): -80% in 11 anni.

#6 Akamai Technologies: una delle aziende più promosse dell’epoca, ed una delle poche che è sopravvissuta: chiuse il primo giorno a $145 per una capitalizzazione di $13 miliardi nonostante un fatturato di appena $1,5 milioni; oggi vale $17 miliardi ma dopo numerose infusioni di capitale, chi ha comprato il primo giorno è attualmente sotto di -27% dopo 21 anni.

#5 MarketWatch.com: prezzata a $17 e schizzata il primo giorno a $98, è stata venduta nel 2005 a Dow Jones & Co. (quella del Wall Street Journal) per $18: -82% in 5 anni.
 
#4 Cobalt Networks: chiuse a $128 per $3,5 miliardi di capitalizzazione; venduta a Sun Microsystem per $2 miliardi nel 2000: -43% in un anno.

#3 Foundry Networks: chiuse a $156 per $10 miliardi di capitalizzazione; venduta a Brocade per circa $3 miliardi ($20 ad azione) nel 2008: -87% in 8 anni.

#2 theglobe.com: prezzata a $9 e schizzata a $63 il primo giorno, avreste perso -99% nel 2001 quando trattava a 10 centesimi (alla fine fu chiusa nel 2003).

#1 VA Linux: ancora oggi il campione indiscusso delle IPO, fu una delle ultime prima del crollo ed aveva come missione di surclassare Microsoft con l’offerta del sistema operativo open source Linux. Prezzata a $30, schizzò fino a $244 il primo giorno per una capitalizzazione di $11 miliardi; ad inizio 2001 era già crollata a $7 (-97%). Quello che rimaneva è stato comprato da GameStop nel 2015 per $130 milioni.

Identificare una bolla è molto più semplice che investirci. Per un bear, fare il timing perfetto solo sulla base delle valutazioni è molto rischioso. Per i bull, invece, basta puntare il dito verso fondamentali in continua crescita: gli investitori del 1999 non erano stupidi, la parte difficile è abbinare i fondamentali con un prezzo ragionevole.
“If you're on a poker table, you want to see people with lots of money doing really dumb things with their cards. Right now, people are doing really dumb things with their money. It can go on for a while and you can lose lots of poker hands to people that are doing dumb things with their money. But, over time, I would hope that, if you're playing properly, you're going to come out ahead. A lot of the bigger cap tech stocks are pretty good businesses. And there certainly are risks, but they have very high return on capital, and most of them see their profits in cash. We have no quarrel with that, and so if they trade at 20 times cash flow or something like that in a market with lower interest rates, that certainly might be an appropriate valuation. That's not the pool we're swimming in, and I think that there's lots of other businesses that aren't great businesses which have gotten inflated valuations.” (Jim Chanos)

2 commenti:

  1. la cosa che non mi spiego è questa; la tech bubble è abbastanza recente e gli analisti di oggi ce l'hanno sicuramente tutti ben presente. Alla luce di ciò stanno correndo dietro alla valutazione di Tesla e adeguando costantemente i target ai valori di mercato (anzi, ben oltre).

    Uno ad uno sono captolati credo tutti (tra cui Adam Jonas di MS che fino a qualche mese fa era pesantemente bearish)

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