martedì 3 giugno 2014
Inflazione? Quale inflazione?
“I'm turning Japanese - I think I'm turning Japanese - I really think so” (The Vapors)
La principale preoccupazione sembra essere al momento il basso livello d’inflazione, quasi al limite della deflazione, che spaventa per la possibilità che si ripeta una situazione come quella giapponese, ovvero due decadi di prezzi in discesa e di crescita pari a zero, oltre ad elevata disoccupazione.
In termini puramente statistici, la situazione attuale è alquanto paradossale. L’ultima lettura dell’inflazione in Europa (aprile) è infatti di appena 0,65% su base annuale, mentre negli US solo recentemente è salita ad 1,9%. Eppure, nello stesso periodo un quadro di Francis Bacon, “Three studies of Lucian Freud”, è stato venduto per $142.4 milioni, il prezzo più alto mai pagato ad un’asta; il diamante Pink Star da 59 carati è stato venduto per oltre CHF 76 milioni, anche questo un record per un’asta; un’edizione speciale di una mistura di malto fermentato per whisky è stata assegnata a $4.000 dollari la bottiglia; i prezzi delle abitazioni a Manhattan, Londra, Sidney e molte altre località sono in continua ascesa (vedere ad esempio la tabella qui sotto); ed ovviamente non possiamo dimenticare che i mercati azionari in molti paesi sviluppati sono oggi oltre i picchi storici.
Che ci siano così tante bolle in un mondo di inflazione apparentemente contenuta è per lo meno curioso. Se il valore delle due principali valute, dollaro e euro, è così stabile, come è possibile che tutti questi assets stiano invece diventando sempre più costosi? Questo equivale a dire che se misurate in termini di vini pregiati o di un attico a Londra, il valore di queste valute sta in realtà crollando. O questi assets sono l’eccezione in un mare sostanzialmente tranquillo di bassa inflazione, oppure la definizione generalmente utilizzata è fondamentalmente imperfetta. Le misure ufficiali dell’inflazione come la CPI (Consumer Price Index) o RPI (Retail Price Index) semplicemente non includono i prezzi delle attività finanziarie, e quindi sottostimano sistematicamente l’impatto dell’inflazione. Questo è importante non solo per tutti gli investitori, ma soprattutto per le autorità monetarie, che sono “distratte” sulla reale situazione economica e finanziaria.
Cos’è l’inflazione
Il termine inflazione non è sempre stato sinonimo di aumento dei prezzi al consumo. In un articolo del 1997 intitolato “On the origin and evolution of the word inflation”, l’economista Michael Bryan ricorda che quando il vocabolo entrò nel lessico economico indicava un aumento della quantità di moneta in circolazione rispetto all’ammontare di oro ed argento che erano dietro all’offerta di moneta. Nel 1912, l’economista della scuola austriaca Ludwig von Mises affermava infatti: “C’è un solo significato che si può dare al termine inflazione: un aumento della quantità di moneta, intesa in senso lato, che non è compensata da un corrispondente aumento nella sua domanda, così che una diminuzione del valore di scambio della moneta stessa deve necessariamente verificarsi”. Questa diminuzione del valore di scambio si manifesta in un aumento generalizzato dei prezzi, ma anche nella formazione di bolle nelle attività finanziarie, in un’errata allocazione del capitale ed in volatilità in aumento. L’inflazione era l’inizio di un processo, non il risultato finale.
Nel corso del tempo, questa definizione allargata di inflazione ha lasciato spazio a quella attuale, più ristretta, come semplicemente un aumento nel livello dei prezzi. Questa transizione può essere spiegata dalla maggiore complessità finanziaria: oggi la quantità di moneta in circolazione non è facile da definire e calcolare esattamente, considerando che esistono molti strumenti con diversi gradi di “moneta”.
Nel tentativo di meglio quantificare la vera natura dell’inflazione, sono state proposte quattro differenti definizioni.
1. Lo stato patrimoniale delle banche centrali. Se l’offerta di moneta complessiva non può essere quantificata, si può però misurare quella parte di essa dalla quale qualsiasi forma di moneta deriva, ovvero lo stato patrimoniale delle banche centrali, che è “creato” quando la banca centrale compra obbligazioni o altri assets con valuta appena coniata. Come tutti sanno, il bilancio delle banche centrali è esploso a partire dalla recente crisi finanziaria. Secondo questa definizione di inflazione, i dati riportati sono altamente fuorvianti, per lo meno per gli US.
2. Il debito totale. Un altro modo per calcolare la proliferazione di strumenti di quasi-moneta è di includerli tutti: se l’intento è di misurare il potere d’acquisto, allora l’inflazione monetaria è sinonimo di espansione del credito. In questo caso non si tratta della banca centrale che stampa moneta per distribuirla all’economia reale, facendo così aumentare il livello dei prezzi. Si tratta piuttosto della creazione elettronica (contabile) di moneta che viene iniettata nei mercati dei capitali, producendo così le bolle nei prezzi delle attività finanziarie. E la maggior parte di questa crescita del credito è avvenuta al di fuori del sistema bancario tradizionale (shadow banking). Se l’ammontare di debito creato è equivalente all’offerta di moneta, allora anche sotto questa misura l’inflazione è più elevata di quanto si creda.
3. Il prezzo dell’oro. Lo scopo principale della moneta è di comunicare o indicare il valore di qualcosa e di facilitare lo scambio di merci e servizi: la moneta è solo l’unità di misura della ricchezza, non la ricchezza stessa. Se eliminassimo di colpo tutte le valute al mondo, saremmo ricchi allo stesso modo perché il vero patrimonio (fabbriche, terra, educazione, …) non cambierebbe. La moneta è quindi solo un modo per misurare la produzione, ed è per questo che vogliamo che sia il più stabile possibile. Per quanto non sia un fan dell’oro come investimento, un modo per misurare la variazione di valore della moneta è di confrontarlo con qualcosa il cui valore è rimasto stabile nel corso del tempo, ovvero proprio l’oro. Una riduzione nel prezzo dell’oro segnala un rafforzamento della moneta, mentre un aumento nel prezzo dell’oro segnala un deprezzamento.
Viste attraverso queste lenti, le maggiori valute mondiali sono in declino da almeno il 2002. E questo deprezzamento si è riflesso anche nelle altre commodities: il petrolio, ad esempio, non è aumentato di valore, è diventato più costoso perché il dollaro (e l’euro) hanno perso valore.
4. Usare misure alternative. Negli anni 1980, il Bureau of Labor Statistics responsabile per l’indice CPI in US cominciò ad apportare alcune modifiche: in particolare, iniziò ad ipotizzare che i consumatori avrebbero sostituito i prodotti il cui prezzo era in aumento con quelli che invece erano più stabili. In questo modo si cominciò a dare un peso minore ai beni che aumentavano di prezzo ed un peso maggior agli altri, che portò ovviamente ad una marcata riduzione del valore dell’inflazione. L’effetto fu di trasformare la CPI da una misura del costo di mantenere uno standard di vita stabile ad una misura di uno standard di vita in discesa.
Per ovviare a questo problema, l’economista John Williams diede il via alla pubblicazione di una newsletter ed oggi di un sito, Shadow Government Statistics, che ricalcola i valori ufficiali come erano prima di questi cambiamenti. Il gap tra queste due misure è enorme: oggi l’inflazione americana ufficiale è tra 1,5% e 2%, ma se fosse calcolata come era all’inizio degli anni 1980 sarebbe invece del 6%.
Tra tutte le possibili spiegazioni del paradosso sulla bassa inflazione, questa sembrerebbe essere quella più semplice: l’inflazione è bassa solo in apparenza, mentre non lo è nella realtà dei fatti!
Un mondo di inflazione
Per quanto diverse tra di loro, queste definizioni puntano tutte verso un mondo nel quale l’inflazione è più elevata di quello che crediamo. Quali sono le conseguenze?
Il principale effetto di inflazione bassa e stabile (diciamo l’obiettivo della BCE di 2%) è di ritenere che ci sia anche stabilità economica. In teoria, un’inflazione del 2% dovrebbe generare una crescita economica di 2%-3% senza troppi patemi. Ma se le misure alternative che indicano una inflazione ben superiore sono vere, sorgono alcuni problemi.
Il primo è quello di maggiore volatilità, perché l’inflazione elevata esaspera i flussi dei capitali verso specifici paesi e regioni, in particolare da e verso i mercati emergenti. Il secondo aspetto è quello di aumentare la disparità di ricchezza: l’inflazione nei prezzi delle attività finanziarie va tutta a beneficio dei ricchi (che hanno più azioni, terreni, immobili, …) a scapito dei salari reali e dei risparmiatori della classe media. Infine, il terzo rischio è quello che si chiama crack-up boom: le politiche monetarie attuali possono andare avanti finché gli investitori non si accorgono del reale livello di inflazione, ma crollano miseramente appena questi realizzano qual è la vera situazione. L’esempio tipico è quello degli anni 1970, quando gli investitori conclusero che il deprezzamento delle valute sarebbe continuato a lungo ed i flussi di capitali si mossero dalle attività finanziarie verso quelle reali.
Implicazioni per gli investitori
Se US e Giappone continueranno a monetizzare aggressivamente il loro debito (e se comincerà a farlo anche la BCE), il risultato sarà la creazione di ulteriori bolle finanziarie, e la storia recente insegna che di solito questo è quello che accade. Ed ancora più catastrofiche saranno le conseguenze delle politiche di tightening che le banche centrali dovranno prima o poi attuare.
A complicare le cose vi è il fatto che molti dei possibili scenari futuri sono mutualmente esclusivi. I tassi d’interesse prima o poi tenderanno a tornare verso valori più elevati, ma questo può portare a scenari diversi. Se i tassi saliranno perché le banche centrali avranno cominciato a rialzare i tassi ufficiali, allora avremo prezzi in calo per le commodities e problemi nel sistema bancario e nel real estate, ma anche un apprezzamento delle valute coinvolte. Ma se invece i tassi aumentano perché gli investitori hanno paura di inflazione in aumento, allora a beneficiarne saranno le azioni (nel breve periodo, ma non nel lungo!) e le commodities, mentre vorremo decisamente essere short sulle obbligazioni.
Post scriptum: mercati azionari ed inflazione
L’affermazione tipica che si sente è: “Le obbligazioni sono negativamente impattate da un aumento dell’inflazione, mentre le azioni offrono invece una buona copertura contro di essa.” La prima asserzione è sostanzialmente corretta: data la fissità dei pagamenti, l’inflazione erode il valore delle obbligazioni in termini reali. Tuttavia, la situazione è ben diversa per la seconda: le azioni hanno storicamente avuto un rendimento positivo nei periodi in cui l’inflazione è stata bassa, e misto ma tendenzialmente negativo quando invece è stata elevata.
Il motivo di questo comportamento è facilmente spiegabile: l’andamento dei mercati azionari è una funzione del rendimento dei mezzi propri delle aziende (ROE, return on equity). Per aumentare il ROE esistono 5 possibilità:
1. Migliorare il turnover ratio (il rapporto tra fatturato ed assets)
2. Ridurre il costo del debito
3. Maggiore leva finanziaria
4. Minore tassazione
5. Margini operativi in aumento
Vediamo nel dettaglio ciascuna di esse.
Per migliorare il turnover ratio occorre che le aziende aumentino il fatturato mantenendo invariato il capitale investito (o che questo aumenti meno della crescita del fatturato). È possibile? Gli assets aziendali sono essenzialmente di tre tipi: crediti verso clienti, rimanenze ed immobilizzazioni materiali (tralasciamo per semplicità gli intangibles). I crediti verso clienti tipicamente crescono in maniera simile alle vendite, sia che queste aumentino per maggiori prezzi o per maggiori volumi. Le rimanenze possono essere gestite in maniera più efficiente, ma nel lungo periodo anch’esse aumentano in maniera proporzionale alle vendite. Infine, in periodi di inflazione il fatturato sale mentre le attività fisiche rimangono costanti. Ma queste hanno un ciclo di vita finito e prima o poi devono essere sostituite: pertanto, anche gli investimenti (capex) aumenteranno di costo. Complessivamente, l’inflazione in sé e per sé non porta ad un significativo miglioramento del turnover ratio. Anzi, è deleteria per tutte le aziende capital-intensive.
Vediamo il secondo punto. In genere maggiore inflazione significata tassi d’interesse più alti, e quindi il debito diviene più caro, non meno costoso. Nella situazione attuale è inoltre difficile prevedere tassi d’interesse in ulteriore discesa, dato che sono già ai minimi storici, anche e soprattutto per gli emittenti corporate.
Per il terzo punto, la leva finanziaria potrebbe essere l’elemento principale da utilizzare per migliorare il ROE: dopo lo scoppio della bolla del credito molte aziende hanno risanato i bilanci ed accumulato enorme liquidità, che adesso potrebbero ricominciare ad utilizzare. Tuttavia bisogna notare che le aziende di qualità (quelle con il migliore ROE) sono proprio quelle che hanno meno bisogno di ricorrere al debito perché generano sufficienti FCF internamente, mentre sono quelle a bassa redditività che ne hanno più bisogno.
Per quanto riguarda la tassazione, questo punto è oggi molto controverso: la fine dei programmi di austerità potrebbe portare ad una diminuzione della tassazione, ma questo impatto sarà comunque abbastanza marginale sui rendimenti delle aziende.
Infine, rimangono i margini operativi. Prima di arrivare ai profitti netti, ci sono molte altre voci da considerare: oltre alle tasse, ci sono infatti i costi operativi quali lavoro, materiali, costi energetici, interessi, … In periodi di alta inflazione tutti questi costi aumentano ed incidono in maniera negativa sui margini. Questo è esattamente il motivo per cui in periodi inflazionistici è importante selezionare quelle aziende/settori che hanno pricing power, ovvero sono in grado di passare i maggiori costi sul prezzo ai clienti finali anche se la domanda è stagnante e quindi aumentare (o almeno mantenere) i margini di profitto.
Le azioni (in aggregato) non sono necessariamente la miglior classe d’investimento in un periodo di alta inflazione.
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Pregevole articolo, ben evidenzi i punti salienti del problema. Quello che mi lascia perplesso è che alla fine, dopo 20 anni di deflazione o bassa inflazione, il Giappone ha mantenuto una dispoccupazione tra il 4 e il 5.5%, decisamente superire al 2-3% del dopoguerra e non paraginabile alla nostra strutturalmente intorno al 6% (fonte:http://it.tradingeconomics.com/japan/unemployment-rate).
RispondiEliminaIl giappone viene comunque considerato una grande potenza economica, le cui imprese dettano gli standard in molti ambiti.
Ha, quindi, fatto davvero tutti questi danni la deflazione? Quali indicatori possono rilevarci i danni? Pil pro capite? Reddito disponibile? Cosa dobbiamo guardare, al benessere della popolazione o ai profitti delle imprese?
non so se esiste un indicatore dei danni della deflazione: potresti provare con il PIL pro-capite reale, o con il rapporto tra il PIL nominale ed il costo di una Toyota, o di un appartamento a Tokyo, o di altri beni
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