martedì 24 maggio 2016

US E&P (parte III) – Domanda ed offerta

Nonostante quello energetico sia “il più ciclico dei settori ciclici”, continuo a sorprendermi nel vedere dozzine di analisti e commentatori che sanno sempre con la massima certezza cosa succederà tra 3 mesi o tra 20 anni. Come ad esempio queste previsioni, che a onore del vero sono state fatte nel 2011 e quindi corrette per lo meno riguardo alla discesa sotto $50:

La tesi comunemente riportata a favore degli investimenti energetici può essere così riassunta:
  • Al momento il settore soffre per un eccesso di offerta globale, ma svariati fattori spingono verso una situazione nella quale prima o poi ci sarà al contrario scarsità di materie prime
  • In un contesto nel quale l’offerta sarà inferiore alla domanda, i prezzi dovranno inevitabilmente risalire
  • Una volta che questo accadrà, le aziende sopravvissute saranno enormemente rivalutate
I tre pilastri sui quali si basa questa teoria sono:
  1. Costi di estrazione (upstream) sempre maggiori: il costo marginale di produzione (ricerca, trivellazione, estrazione) è superiore a $60-$70/barile, molti paesi ed aziende ridurranno la ricerca di nuove riserve se il prezzo rimarrà a lungo sotto questa soglia
  2. Rapida crescita nella domanda da parte dei paesi in via di sviluppo: la domanda di petrolio e derivati è relativamente stabile, e cresce in proporzione al PIL mondiale
  3. Peak oil theory: il petrolio è una risorsa che si consuma, e l’offerta è destinata a diminuire
A supporto di queste affermazioni vengono spesso presentati grafici come questi.

Fonte: International Energy Agency
Fonte: Bloomberg e International Energy Agency

C’è un piccolo particolare che queste analisi non considerano: non saranno i costi a sostenere i prezzi.

Tecnologia, domanda ed offerta
Innanzitutto la peak oil theory si è rivelata, in maniera inequivocabile, assolutamente errata. Dal lato dell’offerta, l’evoluzione tecnologica ha reso possibile recuperare anche le più microscopiche molecole di petrolio e gas: ogni luogo che ha “source rock” sarà con ogni probabilità sfruttato.

I costi di estrazione dallo shale continuano a ridursi velocemente: secondo le stime di IHS Global per conto della US Energy Information Administration, nelle quattro principali regioni (Eagle Ford, Bakken, Marcellus e Permian) sono oggi del 30% inferiori rispetto al 2012. Invece di ridurre la produzione, i frackers hanno ottimizzato i costi focalizzandosi sulle aree più produttive, migliorando l’efficienza (capacità di scavare più in profondità) e, soprattutto, “spremendo” i fornitori: ottima notizia per gli E&P, molto meno per i service providers.

Fonte: US Energy Information Administration

Questo ha portato a tassi di rendimento (IRR) migliori di quello che sarebbe stato altrimenti: la maggior redditività per pozzo spiega perché non ci sia stato un significativo calo della produzione - se non nella regione di Eagle Ford - a fronte del crollo del prezzo del petrolio.

Fonte: US Energy Information Administration

Allo stesso modo, la tecnologia sta cambiando anche il lato della domanda in ambiti come gestione delle risorse, trasporti e logistica, tra gli altri. Aggiungiamo il fatto che la Cina non continuerà a crescere del 10% l’anno in eterno e che molti governi stanno implementando politiche volte a ridurre l’inquinamento e migliorare gli standard di efficienza, e possiamo intuire come la crescita nella domanda di combustibili fossili potrebbe essere inferiore a quanto preventivato.

Il Sustenaible Transportation Energy Pathways dell’Università della California ha preso vari studi prodotti da aziende ed agenzie governative ed ha analizzato l’impatto di differenti scenari futuri: l’outlook per la domanda è altamente incerto.


Quanto valgono le riserve nel terreno?
A partire dagli anni 1970, l’idea dominante è stata che l’era di “easy oil” nei paesi non-OPEC era finita: le loro riserve si sarebbero ridotte drasticamente ed il mondo sarebbe stato sempre più dipendente dal petrolio OPEC. Per 30 anni si è pensato che il trend del prezzo fosse solo in aumento, e la risposta dei paesi OPEC è stata di massimizzare la loro “rendita di posizione”: in particolare, i paesi del Golfo hanno sempre visto le riserve come un bene che aumenta di valore in maniera naturale nel corso del tempo, a vantaggio soprattutto delle generazioni future.

Questa visione è stata condivisa anche dalle supermajors, la cui strategia è stata di investire più capitale possibile per accaparrarsi i migliori giacimenti in giro per il mondo. Le riserve, anche se pagate a caro prezzo, avevano comunque un valore per il solo fatto di essere disponibili. 

Come detto, gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, il boom dello shale e la crescita delle energie rinnovabili hanno ribaltato questo modello: la disponibilità di risorse naturali nei paesi non-OPEC non è necessariamente vicina alla fine e se non saranno così scarse come si pensava, le riserve nel terreno avranno meno valore, e gli investitori dovranno decidere quanti barili vogliono tenere in portafoglio, e per quanti anni (10? 30? 50?).

Una riduzione della domanda (o per lo meno una crescita meno sostenuta) porta ad una situazione nella quale sia i paesi OPEC che le aziende private si devono chiedere se ritardare lo sfruttamento delle riserve sia la scelta ottimale: qual è il ROIC di questi assets in uno scenario più negativo di quello base? Come nel gioco delle sedie musicali, nessun paese vuole essere quello che rimane senza un posto a sedere: se il prezzo reale del petrolio tende nel tempo verso il basso, e non verso l’alto, l’incentivo è a massimizzare l’estrazione oggi ed anticiparne la monetizzazione.

Accordi temporanei sul “congelamento” della produzione non saranno sufficienti: nelle parole di Amy Jaffe, executive director per Energy and Sustainability all’Università della California, per funzionare dovrebbero essere implementati per i prossimi 15-20 anni. Il punto di vista dei sauditi è condivisibile: perché dovrei ridurre la produzione così che Iran - ma anche Exxon, Chevron, Shell, i frackers, … - possano fare più soldi? Questa proposizione non ha senso.

E poi ci sono le recenti affermazioni dell’erede al trono saudita, il principe Mohammed bin Salman, che vuole privatizzare (parzialmente) Saudi Aramco e trasferire le azioni in un fondo di investimento pubblico a beneficio delle generazioni future. Se l’Arabia Saudita vende questi assets, dichiarando al mondo che non crede più nel petrolio, perché qualcuno dovrebbe invece volerli comprare?

And the winner is…
Sotto molti aspetti, il vero vincitore tra i combustibili fossili sembra essere il gas naturale, non solo più pulito ma anche più economico di tutti gli altri. Secondo l’outlook annuale della US Energy Information Administration, il 2016 sarà il primo anno nella storia nel quale negli US sarà prodotta più elettricità da centrali a gas rispetto a quelle a carbone. I problemi dell’industria del carbone sono ben evidenziati dalla recente bancarotta di Peabody Energy, il maggior produttore mondiale. E questo è ironico, considerando che gli US non hanno mai firmato il Protocollo di Kyoto sulla limitazione delle emissioni.

La stima attuale è che la quota di elettricità prodotta dal gas continuerà ad aumentare fino al 38% nel 2040, soprattutto se dovesse accelerare il Clean Power Plan (CPP); solo le energie rinnovabili aumenteranno la loro quota, a scapito di carbone e nucleare.
 
Fonte: US Energy Information Administration
 

Lo sfruttamento di enormi giacimenti in US ha reso la commodity molto economica per tutte le industrie ed il consumo di gas naturale è in crescita in molti altri settori: non solo sarà necessario per produrre l’elettricità che fa muovere tutte le Tesla di questo mondo, ma verrà usato anche come alternativa diretta al diesel, come evidenziato nella strategia di Waste Management nelle gestione dei propri camion per la raccolta.
Fonte: US Energy Information Administration

E questo trend riguarda tutto il mondo, non solo gli US.
Fonte: BP Energy Outlook

Anche per le energie rinnovabili è previsto un ulteriore incremento, dal 13% al 27% nelle generazione di elettricità. In particolare quella solare, i cui costi sono diminuiti a tal punto da essere oggi competitivi con il gas, aumenterà ai tassi maggiori, anche se partendo da una base installata minore. Dal punto di vista di un investitore, le domande da porsi sono: le rinnovabili sono una buona idea come hedge per quello che sta succedendo ai combustibili fossili? E possono continuare a crescere in un mondo di bassi prezzi dei combustibili fossili per lunghi periodi?
Fonte: US Energy Information Administration

Ma il mercato del gas non è globale
Le considerazioni fatte precedentemente sulla convenienza del gas valgono soltanto per gli US, mentre la situazione è diversa nel resto del mondo: il mercato del gas naturale è infatti molto più “locale” di quello del petrolio.

Gli US producono oggi circa il 94% del gas che utilizzano, rispetto a solo il 42% di petrolio e liquids. Lo sviluppo delle estrazioni “non-convenzionali” ha cambiato drasticamente l’offerta, che è aumentata ben oltre la domanda: l’area vicina al bacino di Marcellus (Philadelphia, oltre a New York, Boston e tutta la costa Est) è passata da essere importatore netto di gas dal Canada ad esportatore.

Questo è evidente nel fatto che il prezzo del gas in Nord America non è “collegato” a quello del petrolio come invece dovrebbe essere secondo le leggi della termodinamica. La relazione dovrebbe essere di 6:1, ovvero 1 barile di petrolio (boe = barrel of oil equivalent) rilascia la stessa energia di 6x1.000 metri cubi di gas (mcf = thousand cubic feet). [Questa è la convenzione comunemente utilizzata nell’industria, il realtà il rapporto corretto sarebbe di 1 boe = 5,8 millioni di Btu, British termal units].  

I prezzi dovrebbe seguire teoricamente questa relazione, mentre questo grafico mostra come a partire dal 2009 siano andati sempre più divergendo: oggi sul mercato americano il rapporto tra i prezzi è di oltre 20:1. Sarà il prezzo del petrolio a scendere o quello del gas naturale a salire? 


Nel resto del mondo il prezzo del gas è invece molto più correlato con il petrolio, anche se spesso con un lag di 1-18 mesi a seconda dei contratti in essere. I bassi costi di estrazione in Nord America (in molti casi inferiori a $1 per mfc) che lo rendono competitivo a livello mondiale, in aggiunta ai miglioramenti nella tecnologia per la liquefazione, trasporto e ri-gassificazione, dovrebbero portare allo sviluppo di un mercato del gas più globale – anche se il processo non sarà completo finché i fornitori di liquidifed natural gas (LNG) non accetteranno nuovi termini contrattuali (meno bloccati a lungo termine) per favorire lo sviluppo di transazioni spot. Nota a me stesso: rivedere la tesi su Cheniere Energy (uno dei prossimi post)?
Fonte: Federal Energy Regulatory Commission
To be continued…

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