giovedì 21 settembre 2017

“Battle of the brands” (parte I)

Il brand è spesso una parte fondamentale del valore di un’azienda ed anche se oggi sembrano una componente naturale dei sistemi economici, sono in realtà relativamente recenti. Alla fine del 1800 le aziende che producevano cibo in scatola si accorsero che creandosi una reputazione per la qualità i consumatori erano disposti a pagare un premio per evitare il rischio di trovare cibo avariato come era comune all’epoca. Negli anni 1950 e 1960 poi, come mostrato in maniera eccellente dalla serie “Mad Men”, le agenzie pubblicitarie convinsero le aziende a differenziarsi dai concorrenti con massicce campagne pubblicitarie, perché in un mercato competitivo con prodotti non così diversi era essenziale fidelizzare i consumatori. I giganti dei beni di consumo (Nestlè, Unilever, Kraft Heinz, Coca-Cola, Pepsi, Colgate Palmolive, Procter & Gamble, solo per citarne alcuni) hanno per svariate decadi garantito elevati rendimenti proprio grazie alla presenza di formidabili barriere: brand loyalty, economie di scala e necessità di avere spazio sugli scaffali dei supermercati hanno di fatto impedito a potenziali nuovi entranti di sfidare il loro dominio.

Questo articolo spiega bene come è andata:
“There was a time, going back at least 70 years, when all it took to be successful in business was to make a product of good quality. If you offered good coffee, whiskey or beer, people would come to your shop and buy it. And as long as you made sure that your product quality was superior to the competition, you were pretty much set.”
“[…] In the 1950s, consumer packaged goods companies like Procter and Gamble, General Foods and Unilever developed the discipline of brand management, or marketing as we know it today, when they noticed the quality levels of products being offered by competitors around them improve. A brand manager would be responsible for giving a product an identity that distinguished it from nearly indistinguishable competitors.”
“[…] As long as the brand was perceived to offer superior value to its competitors, the company offering the brand could charge a little more for its products. If this brand "bonus" was bigger than the cost of building a brand (the additional staff and often advertising costs), the company came out ahead.”
Il brand crea valore riducendo i cosiddetti costi di ricerca (“search costs”), ovvero tutti quelli sostenuti, anche solo in termini di tempo, per decidere quale prodotto acquistare. Eliminandoli per il consumatore, le aziende con marchi di successo hanno un elevato pricing power, e gli extra-profitti possono essere continuamente re-investiti per aumentare il vantaggio competitivo.
  • Marketing per imprimere i marchi nella mente dei consumatori e stimolare la domanda (brand recognition)
  • Spese in R&D per innovare ed intercettare i continui cambiamenti nei gusti dei consumatori
  • Acquisizioni di marchi ed aziende minori, quelle che riuscivano a creare qualcosa di “moda” o necessarie per entrare in un nuovo mercato. Questa espansione orizzontale è evidente ad esempio in Nestlè, che cominciò come produttore di cibo per bambini in Svizzera nel 1860 ed oggi è il principale venditore di caffè (Nescafè), acqua in bottiglia (Perrier, San Pellegrino) e cibo per animali (Purina, Friskies).
La struttura oligopolistica, a sua volta, permette loro di avere maggior potere negoziale con i fornitori e domandare più spazio sugli scaffali dei supermercati.
Poiché questi brand sono molto duraturi (alcuni marchi globali “creati” negli anni 1950 sono ancora oggi dominanti), il settore dei consumer staples è stato quello con i migliori rendimenti in campo azionario negli ultimi 60 anni.
Ma cosa succede al valore del brand se emerge un nuovo modo per ridurre i costi di ricerca? La crescita di e-commerce, pubblicità online, contract manufacturing e la possibilità di distribuire direttamente al cliente finale hanno infatti cambiato radicalmente lo scenario competitivo, riducendo le barriere all’ingresso e permettendo ad alcuni nuovi entranti di prendere quote di mercato dai principali players.

La brand loyalty è infatti sotto attacco su almeno due fronti: la maggior selezione di prodotti resa possibile dallo spazio virtualmente illimitato delle piattaforme di e-commerce, e la proliferazione di opportunità a prezzi convenienti offerte dall’online advertising, in particolare dalle piattaforme social che permettono di raggiungere uno specifico target demografico. Peer reviews, facilità di ricevere e restituire gli acquisti e politiche di protezione dei consumatori hanno ridotto il rischio di comprare brand meno noti, dando ai consumatori maggiore fiducia nel provare prodotti nuovi e meno conosciuti.

La seconda barriera, le economie di scala, è stata indebolita dalla crescita di contract manufacturing, che offre servizi di produzione “chiavi-in-mano” per nuovi business, inclusa la possibilità di creare prototipi a costi contenuti ed aumentare i volumi di produzione in maniera molto agile e flessibile. La terza barriera, lo spazio sugli scaffali, è stata superata non solo grazie all’e-commerce, ma anche dall’emergere di servizi di raccolta e consegna offerti da molti retailer, che permettono ai nuovi entranti di muovere in maniera più efficiente i prodotti dalle loro fabbriche al consumatore finale.

In alcuni casi, questi servizi sono offerti assieme, come ad esempio Amazon Launchpad, che si affianca ad incubatori di start-up e piattaforme di crowdfunding per offrire ai nuovi business accesso a team di creazione del prodotto, servizi di marketing, il customer service di Amazon, consegna in due giorni con Amazon Prime, etc…

Basta vedere il successo di Dollar Shave Club, acquistato lo scorso anno da Unilever per $1 miliardo, ma situazioni simili accadono per dozzine di altri prodotti di consumo: Coty ad esempio ha una partnership con Younique, un “online peer-to-peer social selling platform in beauty”.

Le vendite di molti beni di consumo “di marca” hanno stagnato nell’ultima decade. In molti lo attribuiscono ai cambiamenti nelle preferenze dei millennials, ma gran parte del successo dei prodotti “locali” è dovuto proprio alla riduzione nei costi di ricerca: un prodotto ritorna ad essere di successo semplicemente perché è di qualità ad un prezzo contenuto, certificato da dozzine se non centinaia di commenti di amici. Se i prodotti fossero di bassa qualità o se il prezzo non giustificasse l’acquisto, questo sarebbe noto quasi istantaneamente a tutti quelli nel circolo di conoscenze. Spesso su Amazon i clienti decidono di comprare un prodotto semplicemente perché è il #1 nelle review degli altri acquirenti.

Come detto, il settore dei consumer staples è da sempre uno dei preferiti dagli investitori: elevati moat, ottimi rendimenti, bassa volatilità. Ma i cambiamenti nel valore del brand sono molto pericolosi e nel lungo termine i vantaggi competitivi (e gli elevati ROE/ROIC che comportano) potrebbero essere ridotti. Quei brand il cui unico compito è di agire come una sorta di garanzia potrebbero perdere valore velocemente. 

Questo non vale ovviamente in maniera indiscriminata per tutti i prodotti. Se è vero che per i beni di consumo il brand deriva il suo valore dalla riduzione dei costi di ricerca, in molti altri casi rappresenta qualcosa di più: dà un senso di “appartenenza” e comunica qualcosa al resto del mondo. Una Ferrari o le scatoline blu di Tiffany hanno valore perché dicono a tutti chi siamo: significano qualità, ma ancora di più sono un simbolo. E non è limitato al settore del lusso o allo sbandierare la propria ricchezza: ad esempio Nike o Shimano significano elevate performance anche per atleti dilettanti.

Per molti beni di consumo (dentifrici, detergenti, bibite), quello che vogliamo è che facciano uno specifico, semplice compito ad un prezzo ragionevole. Ma in molti altri casi (auto, gioielli, vestiti, vino, …) il prodotto ci da una specifica identità: in questi casi il loro acquisto va oltre una mera analisi di costi-benefici, in quanto forniscono anche e soprattutto un valore intangibile. Facebook ed Amazon stanno riducendo il valore del brand per molti ma non per tutti.

Nonostante queste considerazioni, è forse presto per intonare il de profundis per i giganti dei beni di consumo. Queste aziende mantengono infatti un significativo vantaggio sui nuovi entranti: oltre alle dimensioni ed alle sinergie tra differenti divisioni, la principale differenza è che hanno le tasche belle gonfie e possono permettersi di investire per continuare ad innovare. I nuovi brand possono guadagnare popolarità e scalare l’offerta velocemente, ma non tutti riusciranno a tenere il passo nei cambiamenti nei gusti dei consumatori: senza la capacità di innovare nel corso del tempo rischiano di rimanere una one-hit wonder che sparisce altrettanto velocemente.

In alternativa, la forza finanziaria delle multinazionali permette loro di essere pazienti e copiare le migliori idee (Gillette ha lanciato il suo “shave club” di direct-mail) o pagare un premio per acquistare le nuove aziende quando è più vantaggioso: sempre nel 2016, oltre a Dollar Shave Club Unilever ha acquisito altri marchi:

“That is why we took the opportunity in 2016 to strengthen the business further by acquiring a number of attractive businesses in fast-growing segments of the market and with a strong appeal among Millennials. Seventh Generation, Blueair and the Dollar Shave Club all joined the Unilever family and are proving to be great additions. Since the beginning of 2017 we have also been delighted to welcome Living Proof.”
In quei casi nei quali i nuovi entranti riescono a catturano significative quote di mercato rendendolo più frammentato, i principali beneficiari potrebbero essere fornitori, distributori e consumatori, che si troverebbero in un posizione di vantaggio per negoziare prezzi favorevoli e migliorare i propri profitti.

2 commenti:

  1. Però, correggetemi se sbaglio, anche Amazon ha convenienza affinché il consumo si diriga verso i marchi più riconosciuti. I prodotti con tali marchi vengono infatti venduti a prezzi più elevati ripsetto ai competitors, risultando quindi più remunerativi anche per amazon! Non trovate?

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    1. Mi hai anticipato, i supermercati saranno discussi nella parte II!

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