Molti investitori famosi sono al momento abbastanza negativi sulle prospettive dei mercati azionari (su tutti, Seth Klarman), ed anche se non si spingono a prevedere un crollo imminente (non è assolutamente nella loro natura fare scelte di market timing), hanno comunque aumentato significativamente la percentuale di liquidità nei loro fondi.
Mentre filosoficamente concordo con questa interpretazione, non sono un grande fan del cercare di leggere il sentimento del mercato, perché si tratta di una seconda derivata (“interpretare l’interpretazione di migliaia di investitori”). L’idea di essere in grado di uscire dai mercati prima di una sostanziale correzione, aspettare che questi tocchino i minimi e poi rientrare a valutazioni molto più convenienti sembra assolutamente logica: aver evitato i crash del 2000-2002 e del 2007-2008 avrebbe generato un significativo alpha nell’ultimo decennio. “Buy low, sell high” sembra infatti la cosa più facile ed ovvia al mondo: ma se è così, perché tutti noi investitori non siamo milionari??? Gli unici guadagnano proponendo strategie di questo tipo, sorpresa!, sono gli intermediari finanziari, non i loro clienti…
Pur essendo un accanito sostenitore dell’importanza delle valutazioni per il successo di un investimento, come già ripetuto più volte nel passato, una strategia semplicistica di market timing basata sul P/E del mercato o di un’azione non funziona se non si capisce esattamente quello che si sta comprando (come riferimento, oltre al già citato post sul CAPE, anche quello sull’uso dei multipli).
Spesso si vedono infatti proposte strategie come: “Compra quando il P/E del mercato è inferiore a 10x e vendi quando sale oltre 25x”. Questi modelli sono in genere basati sul data mining, ovvero l’analisi di migliaia e migliaia di dati passati sui quali viene poi ottimizzata una strategia. Il problema è che quella strategia ha funzionato bene sul passato, ma quando andate a metterla in pratica la maggior parte delle volte non ha gli stessi risultati (per lo meno nel breve periodo, che è quello al quale il 95% degli investitori guarda, perché tutti cercano un algoritmo con il quale essere in grado di anticipare tutti gli altri milioni di investitori…).
Questo perché il P/E del mercato non è un numero assoluto. Lo so, anche a me piacerebbe che lo fosse, ma non lo è: per quanto il CAPE sia un ottimo strumento per mettere in prospettiva i possibili, probabili rendimenti futuri, come detto più volte non è assolutamente uno strumento per il market timing. Come molte cose nella vita, il P/E del mercato deve essere letto in relazione ad altre variabili.
Presumo che molti siano d’accordo con l’assunto che il valore intrinseco di qualsiasi attività finanziaria sia il valore presente di tutti i flussi di cassa che si possono ottenere da essa. Chiaramente il prezzo di mercato può fluttuare attorno ad esso – a volte anche in maniera eccessiva –, ma nel lungo periodo i prezzi seguono questo valore.
Il punto cruciale diviene quindi come determinare un appropriato tasso di sconto per i flussi futuri: questo è dato dal famoso tasso risk-free (ed anche qui si potrebbe aprire un lungo dibattito…) più un premio al rischio specifico per l’attività in questione. L’aritmetica della relazione tra tasso di sconto e valore intrinseco è molto semplice: a parità di altre condizioni, più basso è il tasso di sconto e maggiore è il valore intrinseco. Non importa se a diminuire è il tasso risk free o il premio al rischio richiesto: minore il tasso di sconto e maggiore è il valore presente dei flussi di cassa. Punto.
Per capire meglio questo concetto, supponiamo di avere un’ipotetica azienda che genera €10 milioni di profitti all’anno: non solo i profitti sono uguali ai FCF, ma sono anche stabili e crescono al 3% per sempre. Supponiamo anche che il premio al rischio per quest’azienda sia del 5% e che anche questo non cambia mai. Sotto queste condizioni, il valore intrinseco dell’azienda può essere stimato con un semplice Dividend Discount Model:
dove g è la crescita attesa e ke è il costo dei mezzi propri (come detto, dato da tasso risk-free più il premio al rischio).
Prendiamo adesso tre differenti periodi storici ed il rispettivo tasso risk-free (per semplicità approssimato dal rendimento dei titoli tedeschi a 10 anni):
- 30 settembre 1987 (prima del Black Monday): 9,4%
- 31 dicembre 1999 (prima dello scoppio della bolla Internet): 5,4%
- 31 marzo 2014 (oggi): 1,6%
Questo ovviamente porta ad una seconda discussione: oggi i tassi sono artificialmente bassi, e quindi il P/E di equilibrio è distorto ed altrettanto artificialmente elevato. Quando i tassi cominceranno a salire, il mercato si accorgerà che il P/E è troppo elevato e quindi si avrà una correzione. Questo è giusto, ed è già un bel passo in avanti che dire semplicemente “il P/E è superiore alla media storica e pertanto dovrà scendere”. E per le singole aziende, se avete investito in un business che va bene quando i tassi sono attorno al 2% ma è nei guai se salgono a 5%, probabilmente non si tratta di un business solido, e non dovreste possederlo nemmeno se i tassi rimangono bassi. Allo stesso modo, se un’azione è a buon mercato se i tassi sono al 2% ma è sopravvalutata quando sono al 5% (ad esempio applicando in maniera pedestre il modello CAPM come da me fatto nella tabella qui sopra), questa non è una buona azione.
Per concludere: cercare di implementare una strategia sul valore del P/E storico e cercare di fare market timing sulla base di un modello di mean reversion sembra una buona idea sulla carta (ed appare ancora migliore quando ripetuta nei titoli di giornali, blog, discussioni, …), ma molto probabilmente non funziona nella realtà dei mercati. Ancora peggio a livello di singole azioni: un’azienda che tratta ad un P/E di 25x può avere molto più valore (e quindi rendimenti attesi superiori) rispetto ad una che tratta ad un P/E di 10x.
Post scriptum: “Price is what you pay, value is what you get”
Un settore che oggi è spesso additato come “costoso” è quello dei Consumer Staples (beni di consumo non discrezionali): questo non è propriamente corretto, in quanto negli anni 1990 questo settore trattava a multipli anche superiori. Quello che però è più importante è quanto si paga in relazione a quello che si compra.Terry Smith di Fundsmith ha fatto un’analisi su due titoli, Coca-Cola e Colgate-Palmolive, su un periodo di 30 anni, dal 1979 al 2009. Nel 1979, Coca-Cola trattava esattamente allo stesso P/E dell’indice S&P500 (10x), mentre Colgate era leggermente meno costosa (P/E 7x). [Nota: nel 1979 i tassi in US erano superiori al 10%, quindi non sorprendono questi bassi multipli].
La domanda alla quale si voleva trovare una risposta era: quale multiplo avremmo potuto pagare per queste due aziende nel 1979 ed avere una performance in linea con il mercato nei 30 anni seguenti? La risposta è stata un P/E di 36x per Coca-Cola e di 34x per Colgate. Quindi si sarebbe potuto pagare oltre 3 volte il P/E del mercato ed avere lo stesso il rendimento di un investimento passivo nell’indice S&P500. Il motivo è molto semplice, ed è dato dalla qualità delle due aziende: entrambe hanno un ROE ben superiore a quelli delle aziende nell’indice S&P500, e quindi hanno bisogno di meno capitale per essere redditizie e nel lungo periodo possono crescere gli utili a tassi superiori al mercato (ad esempio, riacquistando azioni). Nel caso specifico, Coca-Cola e Colgate sono cresciute ad un tasso del 5% all’anno superiore al mercato: su un periodo di 30 anni la magia del compounding fa un’enorme differenza!
“We've really made the money out of high quality businesses. Over the long term, it's hard for a stock to earn a much better return than the business which underlies it earns. If the business earns 6% on capital over 40 years and you hold it for that 40 years, you're not going to make much different than a 6% return, even if you originally buy it at a huge discount. Conversely, if a business earns 18% on capital over 20 or 30 years, even if you pay an expensive looking price, you'll end up with a fine result. So the trick is getting into better businesses.” (Charlie Munger)
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