mercoledì 15 aprile 2015

Fintech

L’impatto delle innovazioni tecnologiche sta cominciando ad interessare anche il settore dei servizi finanziari, comprese le banche tradizionali. Con il termine fintech (“financial technology”) si indicano oggi differenti business model, spesso start-up che si prefiggono di rivoluzionare il modo nel quale concepiamo il denaro: alcuni di questi sono lungimiranti e con solide basi, altri sono cool ma supportati in maniera inadeguata dai fondamentali (e per favore tralasciamo Bitcoin e le sue derivazioni).

Per quello che valgono, queste sono le mie previsioni.


L’inarrestabile (?) ascesa dei robo-adviser
I robo-adviser sono sistemi di gestione automatizzati che replicano il ruolo di un consulente o financial planner a costi contenuti. Oggi ne esistono a dozzine in ogni paese: Asset Builder, Betterment, Futureadvisor, LearnVest, MoneyFarm, Money on Toast, Nutmeg, Personal Capital, Quirion, Wealthfront, Wealthsimple, WiseBanyan,  …

Quello che fanno è sostituire il rapporto personale con un consulente/promotore con un’interfaccia automatizzata che processa le informazioni ed usa un algoritmo per determinare l’asset allocation ottimale per ogni individuo, implementandola spesso attraverso ETF. Nella sua forma più semplice, i servizi di consulenza comprendono infatti una fase di planning (identificazione degli obiettivi e dei vincoli del cliente, determinazione di un piano di investimenti), una fase di esecuzione (asset allocation, costruzione del portafoglio) ed una fase di feedback (monitoraggio del portafoglio, valutazione della performance). I robo-adviser, essenzialmente, automatizzano la seconda fase: per chi li utilizza, oltre a commissioni più basse, i benefici includono l’accesso continuo con qualsiasi dispositivo, semplicità e trasparenza, oltre ad eliminare la componente emotiva degli investitori.

Senza voler entrare nel merito della (accesa) discussione se renderanno obsoleti o meno i consulenti, questa è la mia opinione: i robo-adviser sono un pericolo soprattutto per gli ETF (in particolare quelli smart beta) e per il trading basato su algoritmi. L’evoluzione dei robo-adviser permetterà infatti di dis-intermediare proprio l’industria dei fondi passivi, permettendo la gestione veloce e semplice di portafogli più o meno complessi senza la necessità di un veicolo (fondo, ETF) che lo faccia per noi.

Lo sviluppo dei fondi comuni (e le sue evoluzioni successive, inclusi gli ETF di qualsiasi tipo) è stato guidato da due fattori: facilitare la gestione professionale del portafoglio mettendo assieme i soldi di più investitori e ridurre i costi di transazione grazie alle economie di scala. Oggi i costi di transazione sono molto contenuti (soprattutto in campo azionario, meno per le obbligazioni) e presto, per portafogli sufficientemente grandi indicizzati a benchmark come S&P 500, potrebbe non avere più molto senso investire in un ETF: basterà un software che compra tutte le azioni nell’indice e ri-bilancia il portafoglio quando necessario. Allo stesso modo, il software potrà ottimizzare il portafoglio secondo filtri e criteri personalizzati, come minimum variance, value, size, 

Quindi, nonostante l’utilizzo massiccio di ETF nelle loro strategie, i robo-adviser sono paradossalmente un pericolo non tanto per le gestioni attive ma proprio per quelle passive e pseudo-passive. 

Re-inventare le banche
Un’altra proposizione che sta guadagnando molto seguito è quella delle banche 2.0 o anche 3.0.

Se c’è un paese nel quale le banche sono oggi disprezzate in maniera unanime è la Gran Bretagna, non solo per i danni della crisi finanziaria ma anche perché il mercato è molto concentrato e poco competitivo. Di conseguenza, negli ultimi anni sono nate molte nuove banche (Aldermore, Metro Bank, Virgin Money, OneSavings Bank tra le altre) che si focalizzano su specifici segmenti del mercato (come retail o piccole/medie imprese) utilizzando modelli distributivi differenti (online, filiali, intermediari).

Molti sostengono che il problema principale delle banche sia il fatto che non hanno un sofisticato sistema di pricing dei rischi perché non hanno le conoscenze e l’infrastruttura tecnologica per identificarli correttamente. Gli “innovatori” ritengono di poter entrare nel business delle carte di credito, dei prestiti o delle assicurazioni e rubare quote di mercato semplicemente utilizzando su larga scala algoritmi sofisticati e social media.

Non è così semplice. Intanto l’assunzione di partenza può essere corretta (in parte) per le piccole banche regionali, di sicuro non lo è per le grandi banche nazionali e multi-nazionali, che hanno invece sistemi di pricing avanzati e con miliardi di dati. Il problema, piuttosto, è che questi funzionano bene quando vengono testati nelle simulazioni ma falliscono miseramente nel mondo reale, e non mi riferisco solamente a modelli come il VaR e simili. Per spiegare questo punto occorre sottolineare un concetto che molti non hanno ancora ben capito: le banche non perdono soldi facendo prestiti a “cattivi clienti” (purché siano pagate sufficientemente), quanto piuttosto su prestiti ed investimenti considerati a basso rischio e che invece “vanno male”, basta pensare a cosa è successo con le tranche super senior dei CDO.

L’essenza stessa di un algoritmo, invece, è di ricercare le nicchie di mercato più redditizie, quei clienti con caratteristiche comuni che li rendono statisticamente migliori della media. Questo significa però che si avrà anche una concentrazione in un determinato tipo di clienti, e se il mondo cambia improvvisamente i rischi finiscono per essere tutti correlati l’un l’altro.

L’altro problema degli algoritmi è che anche i clienti prendono delle decisioni, non solo le banche. La banca finirà per fare le offerte migliori alle tipologie di clienti che l’algoritmo ha identificato, ma le persone che risponderanno a queste offerte non sono mai esattamente proprio quelle che il sistema ha modellato. In particolare, le quote di mercato che queste banche tenderanno ad accaparrarsi verranno certamente dalle tipologie preferite, ma anche da altre due categorie di persone: quelle che imbrogliano per ottenere un’offerta migliore rispetto alla loro reale situazione, e quelle che sono più attente ai prezzi. Le prime sono proprio quelle che il sistema vorrebbe evitare, mentre le seconde sono un rischio superiore a quanto previsto dal modello perché il motivo per il quale sono attratte da una particolare offerta in genere non è uno di quelli compresi nel software che hai comprato.

Non sto dicendo che questo business model non possa funzionare: solo che il modo migliore di competere in un’industria come quella bancaria/assicurativa è di ridurre la segmentazione al minimo (non massimizzarla) e lasciare che la matematica della diversificazione dei rischi lavori in tuo favore. Quello che passa per innovazione nel modo di fare banca in realtà è spesso la ripetizione degli errori passati perché non ci si accorge dell’effetto della selezione avversa.

E giusto per pignoleria, essere una banca 2.0, online, senza filiali, etc…, non è lo stesso che avere un business capital-light. Aldermore non ha filiali e tutti i costi associati, ma ha comunque un cost/income ratio di 60%, rispetto a 50% delle migliori banche europee: le dimensioni contano ancora nel mondo bancario. Non solo: l’industria dei servizi finanziari è una delle più regolamentate al mondo, soprattutto per quello che riguarda la protezione dei consumatori. Molti ritengono che poiché gli intermediari tradizionali sono disprezzati da tutti, i regolatori non aspettano altro che aprire le porte a questi nuovi player per avere maggior concorrenza e servizi migliori.

Anche questo è un mito. Alle autorità di regolamentazione non piacciono molto le piccole aziende finanziarie: oltre ad essere più prone a saltare, ci sono anche enormi dis-economie di scala nella loro supervisione. Molte start-up fintech stanno scoprendo a loro spese che essere tech ed innovative non è un buono-omaggio per essere esenti dalle leggi sul riciclaggio del denaro o sulla protezione dei consumatori: il semplice fatto che necessitano di una licenza per operare significa maggiori investimenti (compliance, risk management, …) e quindi maggior capitale.

Eliminare l’intermediario (“middle-man”)
Questo è essenzialmente quello che i robo-adviser vogliono fare nel campo delle gestioni patrimoniali, ed allo stesso modo il social lending (peer-to-peer lending) per i prestiti o le piattaforme di trading per gli investitori istituzionali.

L’idea è appunto quella di creare una piattaforma che metta assieme mercati frammentati, come possono essere quelli della domanda vs. offerta di prestiti o di chi vuole comprare vs. chi vuole vendere un determinato titolo: il sistema automatizza il processo raccogliendo le proposte delle varie parti, eliminando così l’intermediario e permettendo a tutti di guadagnare dalla riduzione dei costi.

Questo ha funzionato per le varie trading facilities come BATS, molto meno in altre situazioni. C’è un motivo essenziale per il fatto che serve un broker che agisca come middle-man: perché due controparti che per qualsiasi motivo non si “fidano” a trattare direttamente tra di loro non hanno appunto bisogno di farlo, ma possono operare ciascuna indipendentemente con l’intermediario. Quando depositiamo i nostri soldi in banca, questi sono poi prestati a chi li richiede dopo una selezione (si spera accurata…) da parte della banca; i nostri soldi sono protetti non solo dalla reputazione della banca e dalla sua capacità di diversificare i rischi, ma anche dalle regolamentazioni e dall’intervento diretto dello stato. Creare semplicemente una piattaforma automatizzata non è di per sé una garanzia di successo se gli utilizzatori non saranno sicuri al 100% che non verranno fregati dalla controparte (o dalla piattaforma stessa).

Poi questa mattina ho letto questa interessate notizia (“Citigroup Joins the Lending Club”: Lending Club è il più famoso di questi “marketplace lenders”, quotato in borsa 6 mesi fa e che oggi vale US$7 miliardi). L’idea di questi operatori sarebbe quella di sostituirsi alle banche: quello che succede qui, invece, è che un grande banca (Citigroup) presta dei soldi ad un hedge fund (Varadero Capital), che a sua volta, attraverso la banca 2.0 (Lending Club), compra i prestiti emessi ai clienti finali da un’altra banca tradizionale (WebBank). Sarebbe questa la dis-intermediazione? Alla fine i prestiti di questi innovatori sono fatti con i soldi dei depositanti di Citigroup… E tutti questi attori non lavorano certo gratis.

La conclusione più logica è quella riportata nell’articolo: Lending Club e simili non potranno prendere il posto delle banche, perché “People don't want to invest their savings by picking out individual borrowers to lend to. They want to chuck their savings in a bank and not worry about them; they want the bank to do its job of transforming risky loans into risk-free savings accounts.” 

“Believe in Big Data”
I devoti più ferventi di Big Data ritengono che fornire un reale servizio finanziario sia un noioso fardello: la vera miniera d’oro sta invece nel raccogliere una massa enorme di dati con i quale fare soldi a palate. È vero che “informazione = conoscenza”, ma i dati sulle transazioni non hanno poi così tanto valore, e per estrarlo devi comunque accoppiarlo ad una attività operativa.

Una delle maggiori società di analisi dati al mondo è Dunnhumby, che analizza le transazioni di oltre 1 miliardo di persone per creare offerte e programmi personalizzati. Dunnhumby è posseduta da oltre dieci anni da Tesco ed è stata integrale nel gestire le sue Clubcard: ebbene, dopo un enorme lavoro su una gigantesca mole di transazioni nei supermercati, è riuscita a segmentare i clienti di Tesco in ben 8 gruppi economici (!). Oggi Dunnhumby è probabilmente una delle migliori aziende in questo campo ed è in vendita per circa £1,5 miliardi: quindi questo tipo di attività ha certamente un valore, ma è piuttosto incrementale ad un business come un supermercato o simile più che una realtà a se stante.

Se si guarda alle storie di successo nel rivoluzionare il mondo dei servizi finanziari, la caratteristica comune è che sono molto “fin” e meno “tech”. A meno che non si voglia definire successo offrire servizi peggiori a costi più bassi, che è quello che ha fatto la fortuna dei discount brokers. 

[E no, non riuscirete a fare miliardi cercando di anticipare l’andamento dei mercati finanziari combinando milioni di tweet con algoritmi neurali…]

2 commenti:

  1. Ciao Matteo interessante post, i roboadvisor posso avere successo solo se c'e' un'istruzione media finanziaria diffusa, in Italia gli Etf sono di per se ancora poco conosciuti, figuriamoci se gli investitori (che sono tutti oltre gli anta) utilizzano un sito per la loro asset allocation, infatti i robo advisor italiani producono ricavi da fame

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  2. il vantaggio dei robo-advisor (oltre a costi contenuti) dovrebbe essere che, se l'algoritmo è tarato bene sull'individuo, dovrebbe rimuovere la componente emotiva dell'investimento e produrre migliori risultati NEL LUNGO PERIODO (ad esempio per chi investe per la pensione).

    Se invece gli investitori pensano di usare gli algoritmi dei robo-adviser per fare market trading (che è quello che ho trovato su un paio di siti italiani), allora è bene che si preparino ai soliti risultati mediocri...

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