lunedì 26 settembre 2016

“Don’t be a yield pig” (II) – Oil majors

Alcune precisazioni sul post precedente. Il riferimento alla sostenibilità dei dividendi delle oil majors era da intendersi nel contesto della metrica utilizzata da GMO, non in senso assoluto. Ho utilizzato l’esempio di Royal Dutch Shell perché con una capitalizzazione di $200 miliardi ed uno dei dividend yield più alti è in un certo senso rappresentativa del settore, non perché abbia una qualche intuizione particolare se il dividendo sarà tagliato o meno.

Non vi è dubbio che vi siano aziende energetiche i cui dividendi siano sostenibili anche a bassi prezzi del petrolio, perché le differenze nei costi unitari (e quindi nei profitti/cash flows) sono molto marcate: nei settori come oil&gas nei quali tutte le aziende vendono lo stesso identico prodotto (più o meno), gli unici che fanno soldi sono i low-cost producers

Un report di Goldman Sachs va più nello specifico: il grafico sottostante mostra il dividend yield corrente per le principali majors ed il prezzo del petrolio necessario per sostenerlo senza ricorrere ad ulteriore debito ed assumendo che la stima corrente del capex sia sufficiente per mantenere i volumi di produzione (“organically”). Per alcune aziende i prezzi recenti (tra $45 e $50) sono sufficienti, Shell invece ha bisogno di un prezzo di $63 (circa +30%-40% rispetto ai livelli attuali), e lo stesso vale per BP, Total ed ENI.


È indubbio che alcune di queste aziende offrano ottimi dividendi più un’opzione gratuita se i prezzi del petrolio dovessero salire, ma questa è una tesi (molto?) rialzista ed una previsione su una delle variabili più imprevedibili.

Il punto centrale dell’analisi di Goldman è la parola “organica”: in questo contesto significa che la stima del capex è sufficiente a mantenere i volumi di produzione attuali in perpetuo rimpiazzando le riserve consumate 1:1. Questa è una condizione necessaria se vogliamo considerare queste aziende come mature ed in grado di pagare dividendi sostanziosi e crescenti.  Se le stime di Goldman e del management sul capex fossero troppo basse, l’opzione di scommettere sul rialzo del prezzo del petrolio non è più gratuita ma viene pagata dalla riduzione dello stock di capitale. Oggi sappiamo che negli ultimi anni il reserve replacement ratio delle super majors è stato abbondantemente inferiore a 100%, e considerate anche che gran parte delle nuove riserve è in zone politicamente instabili, come il giacimento di Kashgan in Kazakhstan (fino ad oggi tutt’altro che un successo) o la Libia.

Infine, la scorsa settimana il Financial Times ha scritto quanto segue:

"(…) The SEC is now also looking at Exxon’s reporting of its reserves, asset valuations and writedowns, as well as its disclosures on the risks that climate change creates for its business"
La SEC vuole avere maggiori informazioni sulla valutazione che Exxon fa dei suoi assets, ovvero del book value: dopo aver speso miliardi in investimenti quando il petrolio era a $100 (inclusi $41 miliardi per XTO Energy al picco del prezzo del gas), è possibile che questi investimenti non abbiano subito un deprezzamento? Nel 2015 Shell ha contabilizzato impairments per $8,4 miliardi (4% degli assets), e lo stesso ha fatto Chevron per $4,7 miliardi (3% degli assets). Al contrario, Exxon ha avuto impairments di soli $1 miliardo dal 2008 ad oggi.
ConclusioniLe aziende i cui dividendi Goldman ritiene “sicuri” hanno dividend yield tra 2,5% e 4,5%: non male, ma se questi rendimenti vi sembrano interessanti perché allora non guardare a “gemme nascoste” come Microsoft (2,7%) o Cisco (3,3%)?

L’industria di oil&gas è convinta che i prezzi del petrolio ritorneranno presto ai livelli di un paio di anni fa, e lo stesso fanno gli investitori che ritengono che il dividend yield sia in aggregato sostenibile, o che l’opzione implicita di prezzi del petrolio più alti valga molto. Queste view sono al momento già incluse nelle valutazioni correnti (Exxon è appena 13% sotto i massimo del 2014) e quindi investire nel settore energetico non è un contrarian play: in aggregato, non è cheap.

Non solo: il book value, una delle metriche più utilizzate (ENI, spesso indicata come estremamente sottovalutata, tratta ad un P/BV di 0,9x) sembra non essere così affidabile, un po’ come è stato per le banche nel 2007-2008. Se il prezzo del petrolio non recupera sostanzialmente (da $30 a $45 non è sufficiente), ce ne accorgeremo presto.

5 commenti:

  1. Buongiorno, sarebbe interessante confrontare a quali prezzi le aziende oil hanno messo a bilancio le riserve, per valutare quanto ottimistiche sono le previsioni dei management. Mi sembra che Eni valorizzi a 60$...
    Riprendendo la fine del post, è azzardato ipotizzare un paragone tra valore delle riserve certe di idrocarburi e crediti bancari in sofferenza, se entrambi non vengono rettificati?

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    1. Ho dato un’occhiata veloce al bilancio 2015 di ENI:

      “[…] la direzione aziendale allineandosi ad un consensus di mercato conservativo ha rivisto al ribasso per tutti gli anni di piano il riferimento Brent utilizzato per la redazione del piano strategico 2016-2019: in particolare il riferimento Brent di lungo temine è stato ridotto a $65 (in termini reali 2019) rispetto ai $90 utilizzati per la redazione del piano precedente e per le valutazioni del bilancio 2014.”

      Quindi ENI usa una previsione di lungo periodo del Brent di $65 (oggi è $47). Per arrivare alla stima del valore degli assets i flussi attesi sono scontati a 6,5% (forse un po’ basso). Questo ha portato nel 2015 ad impairments per €5,1 miliardi, ed il book value è sceso (anche per altri motivi) da €62 a €54 miliardi.

      Non sono sicuro di capire bene la seconda parte del messaggio. Per le banche gli assets sono (principalmente) prestiti ed altri investimenti; nel 2007-2008 si è capito che molti di questi, ma soprattutto gli investimenti, non valevano quello che diceva il bilancio, ci sono stati write-offs e quindi il book value è crollato. I prestiti in genere vengono “scontati” ogni anno attraverso accantonamenti, bisognerebbe conoscerne la composizione dettagliata per poter dire che le rettifiche non sono sufficienti.

      Per le oil companies è simile: il valore degli assets è determinato con un DCF, quindi se le assunzioni del modello sono aggressive (incluso il tasso di sconto) è possibile che in futuro questi assets valgano meno e siano necessari ulteriori write-down.

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  2. Buongiorno,
    davvero grazie della risposta sulla valorizzazione delle riserve Eni.
    Il resto era solo una ipotesi, per analogia, sulla "possibile malafede" nella valutazione/svalutazione di ciò che crea il valore finale presunto di una società.
    Approfitto per una ultima domanda (off topic) per chiedere qual è la sua opinione sul settore assicurativo, visti i rendimenti risibili del portafoglio titoli delle compagnie. Da ex-promotore finanziario (ecco, l'ho detto, ora faccio tutt'altro: ma nel mio piccolo in sala operativa della Sim ne ho viste tante...) ricordo fino a qualche anno fa polizze senza scadenza con tasso tecnico al 4%, come fai a "starci dentro"?
    Saluti.


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    1. il modello di business delle assicurazioni mi piace molto, ma il problema è quello che ha identificato: i tassi sono talmente compressi che non riescono a generare uno spread sufficiente per remunerare il capitale.

      il trucco nelle assicurazioni è di identificare quelle con i migliori combined ratio / underwriting ratio.

      non sono un esperto delle polizze vita/tassi tecnici, ma credo che oggi i tassi garantiti siano 1%-2% (forse anche meno).

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    2. oggi in gran pate non hanno tasso tecnico positivo, per questo le compagnie spingono unit/index linked e similari.

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