[Questo post riprende quanto già pubblicato
nel vecchio blog ad inizio anno, con alcuni aggiornamenti]
L’idea
dietro la risk parity è che una
allocazione tradizionale basata su quanto investito in ciascuna classe non
tiene conto dell’effettivo profilo di rischio di quella classe. Ad esempio, una
statistica spesso riportata è che un portafoglio composto al 60% da azioni e
40% da obbligazioni (60/40, com’è tipico nel caso dei fondi pensione americani)
ha in realtà circa il 90% del rischio, misurato in termini di volatilità,
nella componente azionaria. Il rischio è quindi superiore a quello che
l’investitore vorrebbe.
Quello
che la strategia originaria di Bridgewater cercava di fare era di utilizzare la
leva finanziaria sui rendimenti delle varie classi per avere un profilo di
rischio costante attorno al 10%. Utilizzando differenti fonti di beta (esposizione neutrale al rischio
di un determinato mercato), per ottenere rendimenti sufficienti nel lungo periodo
non era più necessario avere un’elevata esposizione alle azioni. La strategia
consisteva infatti nel selezionare gli investimenti in modo che il portafoglio si
comportasse bene in ognuna di quattro
differenti situazioni economiche: 1) inflazione in aumento, 2) inflazione in diminuzione,
3) crescita sostenuta, e 4) crescita debole. Crescita economica ed inflazione
furono scelte perché sono i fattori che meglio spiegano la variazione nei
rendimenti delle varie classi, in particolare per i portafogli dei fondi
pensione che erano i primi clienti di questa strategia per Bridgewater.
Questa
metodologia ha delle solide basi nelle teorie economiche. Purtroppo, al successo
segue l’imitazione, e la maggior parte delle strategie oggi offerte sono delle copie
scadenti del concetto originario. Le implementazioni più semplicistiche usano
infatti le stime storiche di volatilità e correlazione per costruire un
portafoglio nel quale il contributo marginale di ogni classe alla volatilità
complessiva è lo stesso. Mentre questo è il significato letterale di risk parity (ogni classe contribuisce un
ugual ammontare di volatilità), queste strategie non affrontano il problema fondamentale.
Consideriamo
ad esempio la relazione tra azioni ed obbligazioni. Le azioni derivano il loro
valore dagli utili/flussi di cassa aziendali e quindi questo è maggiore quando
la crescita economica è elevata. Le obbligazioni rappresentano un flusso
prefissato di pagamenti e valgono di più quando i tassi d’interesse sono in
discesa o in situazioni deflazionistiche. Di conseguenza, quando si ha
incertezza sull’andamento dell’economia queste due classi dovrebbero essere negativamente correlate. Utilizzando la leva sui rendimenti obbligazionari
per renderli simili a quelli azionari, si può investire lo stesso ammontare nelle
due classi ed aspettarsi che il portafoglio sia diversificato rispetto al fattore crescita economica. [Senza
leva, si dovrebbe avere un portafoglio 20/80 (20% azioni, 80% obbligazioni) per
ottenere la stessa diversificazione, ma con rendimenti attesi nel lungo periodo
molto più bassi.]
Tuttavia,
questo approccio non considera che sia le azioni che le obbligazioni sono
vulnerabili ad un aumento dell’inflazione [2]. Quindi, se
l’incertezza è dovuta alle aspettative sull’inflazione piuttosto che sulla
crescita, azioni ed obbligazioni saranno positivamente correlate, ed una stima semplicistica delle correlazioni
storiche potrebbe non considerare questo evento. Bridgewater ha più volte
sottolineato che per determinare i pesi di ogni classe la strategia All Weather
non usa le correlazioni storiche, quanto piuttosto delle previsioni su come le
differenti condizioni economiche si riflettono sui prezzi delle attività
finanziarie: il portafoglio cerca infatti di essere bilanciato su diversi
scenari economici.
Purtroppo
le persone cercano sempre una scorciatoia. A molti non piace la leva finanziaria,
a maggior ragione oggi; e non gli piace pensare a fondo a come strutturare una
strategia, e quindi usano la volatilità storica e le stime sulle correlazioni
per determinare i pesi di ogni classe. Questo finisce per dare un maggior peso
a quelle classi che esibiscono bassa volatilità, e poco peso a quelle con
elevata volatilità, che spesso risulta in una concentrazione in una singola
classe (tipicamente le obbligazioni). Il rischio diviene di avere certamente bassa
volatilità, ma rendimenti bassi o negativi: il portafoglio 20/80 come sopra determinato
in una strategia di risk parity naïve
è estremamente esposto ad un rialzo dei tassi d’interesse. In fondo, una linea
retta in costante discesa ha volatilità nulla…
Il problema di fondo è che la volatilità non è una
(buona) misura del rischio: Bridgewater considera il
significato economico di volatilità come una guida per determinare il livello
di leva finanziaria nel portafoglio, ma non un fattore nella gestione del
rischio. Questo è invece proprio quello che molti fondi non capiscono ed usano
la volatilità sia per il livello della leva (quindi basso o nullo) che per il risk management.
Inoltre,
questo processo di utilizzare la volatilità e le correlazioni per determinare i
pesi nel portafoglio implica che i rendimenti delle varie classi sono un’approssimazione lineare
dei fattori di rischio. Questa è una imprecisione,
perché i rendimenti delle varie classi sono dinamici ed una funzione non-lineare dei
fattori economici sottostanti. Nel caso di
azioni ed obbligazioni, ad esempio, la correlazione (che è una misura statistica,
non una caratteristica implicita dei mercati) varia nel tempo tra positiva e
negativa a seconda del fattore economico prevalente in quel momento. Creare
un’allocazione basata su volatilità e correlazioni può portare il portafoglio
ad essere troppo esposto ad una classe, e quindi ad avere successo in una
singola, specifica condizione economica.
L’idea
originaria della risk parity era di
costruire un portafoglio che fosse egualmente esposto ai principali rischi
economici (crescita ed inflazione). Oggi purtroppo questo concetto è stato
frainteso come uguale
contributo alla volatilità, ovvero una
strategia che da troppo peso alla componente obbligazionaria. I fondi
oggi disponibili sul mercato hanno fatto molto bene nel 2011, quando l’elevata
allocazione ai titoli di stato sicuri
ha dato ottimi risultati, ma meno bene nel 2012 (quando sono andate bene le
azioni) e nel 2013 (quando invece gli aumenti anche contenuti dei tassi
d’interesse hanno colpito soprattutto le obbligazioni). Poiché gli intermediari
spingono quello
che si vende meglio - e non quello che avrebbe senso - gli eccellenti risultati dei backtest sono presentati come dovuti
alla strategia in sé, piuttosto che all’allocazione alle obbligazioni negli
ultimi anni [3].
Purtroppo,
una strategia di questo tipo è vulnerabile sia alla crescita dell’inflazione
che dei tassi d’interesse: esattamente l’opposto di una metodologia di risk parity.
[1] Per chi fosse
interessato, la storia completa di questa strategia può essere scaricata qui.
[2] L’argomento molto spesso usato che le azioni sono una buona
copertura contro l’inflazione non è assolutamente corretto: alcune lo sono,
molte altre no. Soprattutto, tutte le azioni sono vulnerabili ad aumenti
dell’inflazione inattesa.
[3] Vari studi hanno inoltre dimostrato come il periodo di analisi
influisce in maniera preponderante sui risultati del backtest di una strategia,
e questo vale anche nel caso della risk parity. Ad esempio, per il mercato
americano la risk parity ha avuto un rendimento cumulato superiore ad altre
strategie nel periodo 1926-2010 (ma non dopo aver contabilizzato i costi di
transazione!); ma nel periodo del dopoguerra una semplice strategia di 60/40
avrebbe avuto dei risultati migliori. [Fonte: Anderson – Bianchi - Goldberg: “Will my risk parity strategy outperform?”,
Financial Analysts Journal, 2012]
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