Come già trattato nel post precedente, uno degli
argomenti più controversi in finanza è quello dell’efficienza dei mercati, ed è
chiaro anche dall’intestazione di questo blog che la mia idea è che non lo
siano affatto (o per lo meno non sempre: come giustamente ha affermato Warren
Buffet: “Observing that markets were 90%
efficient, they concluded that markets were always efficient. The difference between the two propositions is
the same as between night and day.”).
Nonostante i moltissimi eventi degli ultimi 30 anni
che la contraddicono, la nozione di mercati sempre perfettamente efficienti è
dura a morire, e la riprova a supporto di questa tesi non può essere che la maggioranza delle gestioni attive non riesce a
battere il benchmark di riferimento. Vi sono infatti vari studi che
evidenziano le caratteristiche tipiche dei migliori gestori, quei tratti
psicologici e comportamentali che definiscono la loro filosofia d’investimento.
In molti casi si tratta di investitori di tipo value, ma non è necessariamente sempre così.
#1: Portafogli
concentrati
Una prima caratteristica comune ai migliori gestori
è che, in maniera contraria a quando predicato dalle teorie classiche,
preferiscono avere portafogli concentrati: il concetto di tracking error non ha per loro nessun significato.
Anche se vi sono numerosi eccellenti gestori che
elogiano i benefici della diversificazione su molteplici posizioni (Walter Schloss
tra tutti), l’analisi di alcuni famosi fondi di tipo bottom-up mostra portafogli contenenti tra 20 e 40 titoli,
decisamente in contrasto con il tipico fondo comune azionario che investe in
media in 150 aziende! Non solo: non di rado le prime 10 posizioni per questi
gestori rappresentano il 40%-50% del portafoglio, mentre raramente le prime 10
posizioni comprendono più del 10% in un tipico fondo comune.
Questi risultati riflettono la loro filosofia sotto due
aspetti. Il primo è che questi gestori hanno bisogno di un motivo per
investire in un’azienda: la loro scelta di default è non far niente
(non cercare di non rimaner indietro
rispetto al benchmark!), quindi prima di investire in qualcosa devono
essere fermamente convinti dei meriti di questa decisione.
“To suppose that safety-first consists in having a small gamble in a large number of different companies where I have no information to reach a good judgement, as compared with a substantial stake in a company where one’s information is adequate, strikes me as a travesty of investment policy. (John Maynard Keynes).”
Il secondo aspetto è che la maggioranza dei fondi
comuni sembrano essere gestiti dal dipartimento di risk management o da quello marketing,
più che dai portfolio manager: tutto
quello che viene chiesto ai gestori è di investire in quello che è di moda in
quel momento o di modificare l’allocazione a seconda se si è sopra o sotto il
budget di rischio imposto dalle politiche dei comitati investimenti. Il
risultato è che il gestore medio (e, purtroppo, mediocre) è più preoccupato del
tracking error e di quello che fa il
suo benchmark invece che di ricercare le migliori opportunità per i suoi
clienti: la loro opzione di default è fare qualcosa, e hanno bisogno di
un buon motivo per non investire in un’azione. La responsabilità
fiduciaria verso i clienti è relegata in seconda fila…
“Diversification is an admission of not knowing what to do, and an effort to strike an average (Gerald Loeb)”.
Deve
comunque essere notato che avere portafogli concentrate non è, di per se, una scelta
deliberata di questi gestori (né tantomeno una garanzia di successo), quanto
piuttosto una conseguenza del loro approccio disciplinato: al mondo non
esistono poi tutte queste opportunità di investimento, quindi perché comprare
la trentesima migliore idea quanto si può continuare ad investire nelle
migliori dieci?
“Our investment style has been given a name - focus investing - which implies ten holdings, not one hundred or four hundred. The idea that it is hard to find good investments, so concentrate in a few, seems to me to be an obvious idea. But 98% of the investment world does not think this way. It’s been good for us. (Charlie Munger)”
#2: Ignorano i rumori
di fondo
Questi
investitori sono consci del fatto del fatto che non devono sapere tutto di
tutti, e che devono focalizzarsi su poche, importanti informazioni, evitando di
essere distratti dai rumori di fondo
(ovvero tutte quelle informazioni esterne e casuali che sono completamente
inutili al processo di investimento, le chiacchiere e le opinioni di supposti
esperti finanziari, analisti e manager).
Come
ricorda Martin Whitman di Third Avenue, questi gestori non hanno accesso ad
informazioni confidenziali o riservate: quello che fanno, piuttosto, è
utilizzare le informazioni pubbliche in maniera migliore. Non perdono tempo a
prevedere gli utili o il fatturato del prossimo trimestre, l’andamento del
prezzo del petrolio o quando i tassi d’interesse cominceranno a salire; cercano
piuttosto di capire nel dettaglio il business sottostante, la sua valutazione
ed i rischi associati.
#3: Sono disposti a
mantenere una significativa parte del portafoglio in liquidità
Anche
questo è un corollario della disciplina del loro processo di investimento: la
liquidità è infatti una conseguenza della mancanza di opportunità quando i
prezzi ed i rischi non giustificano un investimento. Valgono infatti le
identità:
Portafoglio = Opportunità di investimento + Liquidità
==> Liquidità = Portafoglio - Opportunità di investimento
Se
non trovano qualcosa che tratta a prezzi ragionevoli, questi investitori sono
disposti ad aspettare finché non si presentano opportunità migliori, anche
se questo costa in termini di performance rispetto agli indici di mercato.
“Avere molta liquidità è scomodo e faticoso, ma non così problematico come fare qualcosa di stupido. (Warren Buffett)”
#4: Hanno un lungo
orizzonte temporale
Un’analisi
compiuta da James Montier sui portafogli di alcuni famosi investitori [“The perfect
value investor”, DrKW Macro Research, 8 giugno 2006] dimostra
come tutti hanno un lungo orizzonte temporale: nello specifico campione
analizzato il periodo medio di possesso di un’azione era di 5 anni (la media
dei fondi comuni è inferiore ad uno!), con un massimo di 17 anni ed un minimo di
3 anni. Il turnover annuo di questi portafogli è inferiore al 20%, e di
conseguenza i costi per i clienti sono molto contenuti.
#5: Sanno accettare gli
anni negativi
Questi
gestori sanno accettare il fatto che investire è una maratona, non uno sprint,
e che anni negativi non solo sono la regola nei mercati azionari, ma
soprattutto che prima o poi capitano a tutti, anche ai migliori.
Il
value investing non funziona in ogni
singolo anno: tutti i fondi hanno periodi - anche lunghi - di performance
inferiori al mercato. Uno studio di Tweedy Browne mostra come per
gestori con risultati di lungo periodo eccellenti non
è infrequente sottoperformare per 40% del tempo, ed alcuni lo hanno fatto anche
per 7 anni su 10 (le performance assolute negative sono comunque rare).
Tutti questi fondi hanno avuto periodi di sottoperformance (ricordate
comunque che assegnano poca importanza alla composizione del benchmark come da
punto #1), e molti di loro persero enormi masse in gestione nel corso della
bolla Internet perché erano rimasti indietro rispetto al mercato che era dominato
dall’euforia e dall’ottimismo. Nonostante questo rimasero fedeli alla loro
disciplina di comprare solo quello che aveva senso. Come ha giustamente rimarcato Jean-Marie
Eveillard di First Eagle Funds: “I would
rather lose half my shareholders than lose half my shareholders’ money”.
Da italiani ci troviamo ad operare in un mercato domestico molto povero di società ed in un mercato non proprio amichevole per gli azionisti di minoranza. Questo è uno svantaggio.
RispondiEliminaIl vantaggio di operare in questa epoca è però che chiunque può facilmente accedere a mercati esteri; e qui nascono alcune domande. Quali mercati frequentare?
Personalmente amo il mercato americano sia per l'ampiezza sia per la presenza di aziende multinazionali (e non) con una corporate governance molto più affidabile.
Il recente storno dei mercati emergenti ha però a mio avviso creato opportunità interessanti in questi paesi.
In questi mercati però si aprono problemi di trasparenza (per esempio sono all'ordine del giorno casi di frode tra aziende cinesi, anche di discrete dimensioni; ma anche le società degli altri paesi BRIC non sono ancora il massimo dell'affidabilità).
Sarei curioso di sapere la sua opinione relativamente all'affidabilità delle società multinazionali di grandissime dimensioni basate in questi paesi. Secondo lei "ci si può fidare"?
Chiedo ciò perché ritengo interessante Petrobras ma questi dubbi ed il fatto che non ami particolarmente i settori ciclici..... mi stanno facendo desistere.
p.s.
Lei quali paesi preferisce?
cordiali saluti
Claudio, chiedo scusa, credevo di aver risposto ma non vedo più il mio messaggio.
RispondiEliminaPer quanto riguardi i mercati emergenti, pur essendone un fan, non consiglierei ad un investitore retail di accedervi direttamente, sia per i costi (non so quanti broker/banche italiane danno accesso diretto a questi mercati), sia perché bisogna essere sicuri di cosa si compra. La corporate governance è fondamentale, così come capire i loro bilanci: in Sudafrica è molto facile e lineare perché di derivazione anglosassone, in Brasile ed India è quasi impossibile - almeno per me - fare paragoni affidabili con aziende di altri paesi dato il livello di informazioni che rendono disponibile ed i principi contabili seguiti.
Per quanto riguarda i paesi, essendo principalmente uno stock picker su small caps, i paesi in cui al momento trovo le opportunità migliori sono Francia ed Olanda, ed in maniera minore Germania. Ma si tratta di quello che è disponibile oggi, non di una preferenza specifica per questi paesi: domani potrebbe essere la Spagna o il Portogallo (già successo nel 2012), oppure la Finlandia – difficilmente l’Italia.
A presto
PS: non cha la mia opinione abbia un gran peso, ma per me Petrobras è più una value trap che un buon investimento
grazie mille per la gentile risposta! :)
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