Devo
confessare che non sono un avido lettore dei working papers accademici: anche per i report azionari preferisco
quelli nei quali le 4/5 cose essenziali riguardo l’investimento vengono
presentate in maniera chiara ed immediata rispetto a qualcosa che è più
rigoroso ma richiede lunghe pagine di formule complicate per spiegare le
conclusioni.
Detto
questo, un paper che ho letto con
attenzione, forse perché abbastanza breve, è quello del prof. Jeffrey Wurgler
(“On the Economic Consequences ofIndex-Linked Investing”, disponibile cliccando sul titolo)
su come le strategie passive, o comunque strettamente basate su indici, possano
distorcere i prezzi di mercato.
Tutto quello che punta verso distorsioni nei mercati
cattura subito la mia attenzione, perché un’anomalia di solito significa
un’opportunità di investimento. Prendete ad esempio il cosiddetto effetto value (già trattato nel post riguardo
i fattori di rischio), secondo il quale per una qualche ragione le azioni cheap (sulla base di utili o valore di
libro) tendono ad avere rendimenti migliori nel lungo periodo. Molte
spiegazioni sono state portate per spiegarlo: la prima è che queste azioni sono
più rischiose (più
volatili, in peggiori condizioni finanziarie, …) e quindi maggior rischio
dovrebbe tradursi in maggior rendimento. La seconda spiegazione è che queste
aziende non sono sexy, e pertanto non attraggono molta attenzione dagli
investitori. Altre e differenti spiegazione sono state offerte negli anni. Indipendentemente
da quale sia quella corretta, il punto interessante è che l’effetto
value continua ad esistere! L’efficienza dei mercati implicherebbe
che appena un’anomalia è identificata, questa venga sfruttata da investitori pienamente
razionali e che i prezzi si muovano verso il loro livello di equitilibrio. Ma il value investing è tutt’altro che un fenomeno recente: la
performance superiore di queste strategie nel lungo periodo non sembra sia
stata eliminata (ridotta forse sì).
Tornando al paper,
il suo punto centrale è che il proliferare di strategie strettamente legate ad
un indice di mercato (passive, ETF, certificati, derivati, …) potrebbe creare
delle distorsioni che non sono immediatamente ovvie. Due esempi che il prof.
Wurgler usa sono l’incremento di prezzo mostrato dai titoli quando sono inclusi
nell’indice S&P500 (ben 9%) e la tendenza per queste azioni a cambiare il
modo in cui i loro prezzi di muovono:
“Se l’effetto-inclusione di +9% fosse la fine della storia, allora l’impatto complessivo delle strategie indicizzate sui prezzi sarebbe modesto. Ma questo è solo l’inizio. Lo schema dei movimenti di prezzo delle azioni appena incluse nell’indice S&P500 cambia magicamente e velocemente. Comincia a muoversi più in linea con i nuovi 499 vicini e meno in linea con il resto del mercato, come se si fosse unito ad un nuovo banco di pesci. […] È importante ricordare che questo avviene per alcune delle azioni più grandi e liquidi al mondo.”
“Questi schemi di movimenti comuni sono dove cominciano i veri impatti economici. Così come il salto iniziale nel prezzo è il risultato di una improvvisa domanda aggiuntiva per quell’azione, l’aumento della correlazione con gli altri membri dell’indice S&P500 è collegato ai flussi in entrata ed uscita dai fondi passivi.”
Se accettiamo la premessa che il valore di un’azione è dato dal valore
attuale dei flussi di cassa futuri (i suoi fondamentali), allora i due fattori appena
descritti appaiono difficili da spiegare. In realtà sono perfettamente logici:
i fondi passivi devo comprare le azioni che vengono incluse in un indice, e da
quel momento questi titoli tenderanno a muoversi in linea con i loro simili,
perché non è più vero che i soli fondamentali determinano il prezzo, ma anche
che i flussi nei fondi passivi determinano cosa viene comprato e cosa venduto.
Come giustamente ricordato anche nel paper, non vi è dubbio che le varie
strategie passive abbiano portato dei benefici agli investitori, sia
individuali che istituzionali. Ma dall’altro lato la loro popolarità ha creato
degli effetti non pienamente compresi. Come accaduto con altre innovazioni
finanziarie
(ad esempio i CDS), l’incremento nell’utilizzo di queste strategie potrebbe
portare addirittura ad una riduzione dei benefici pubblicizzati. Uno
dei maggiori selling points dei fondi
passivi è infatti la possibilità di offrire un’ampia diversificazione a basso
costo. Ma l’evidenza empirica che i movimenti nei prezzi sono una funzione non
solo dei fondamentali ma soprattutto dell’appartenenza o meno ad un indice di
mercato potrebbe minare questa asserita diversificazione.
In fondo, gli ETF comprano quello che è disponibile, non quello che avrebbe senso.
PS: Il paper
si focalizza sui mercati azionari, ma l’evidenza vale anche per quelli
obbligazionari: basta
infatti ricordare il caso dell’Argentina quando fece default nel 2000. All’epoca non vi erano ancora ETF obbligazionari,
ma i fondi indicizzati erano già uno dei veicoli preferiti per investire nel
debito dei paesi emergenti: il debito argentino rappresentava la maggiore
esposizione per paese - circa 20% - dell’indice JP Morgan EMBI, il barometro più
famoso in quel settore del mercato. E più l’Argentina si indebitava (più debito
emetteva), più gli investitori indicizzati dovevano comprare le obbligazioni,
pena il rischio di divergere dal
benchmark. Sappiamo tutti come è poi finita.
di recente sono nati ETF che investono passivamente nei cosìdetti "aristocrats" (aziende con dividendo crescente negli ultimi X anni). La diminuzione del dividendo ne comporterà l'espulsione immediata con il conseguente riversamento di titoli sul mercato. Sarà interessante vederne l'effetto quando questi popolari fondi/etf saranno ancora.... più popolari e "pesanti"!
RispondiElimina