Post un po’ lungo e con
termini tecnici, ma che tratta di concetti in realtà semplici. Come premessa
vorrei aggiungere che non sono – per principio – contro le strategie discusse
in questo post: piuttosto, sono contro i prodotti venduti a caro prezzo
senza spiegare bene cosa siano. La maggior parte delle cosiddette innovazioni
nel campo dell’industria degli investimenti sono motivate dai dipartimenti
marketing delle società di gestione, che periodicamente sembrano re-inventare
la ruota.
Smart beta, risk parity ed altre strategie simili, quelle più di moda
negli ultimi tempi, non fanno eccezione a questa regola. I loro nomi racchiudono
l’idea di poter fare meglio del mercato in maniera consistente con un minimo sforzo
e costi contenuti. Intellettualmente seducenti, cercano di far passare il
concetto che sia possibile avere un’esposizione diversificata ai mercati evitando
i costi, i rischi ed i fallimenti comportamentali
delle strategie attive. Ed allo stesso tempo danno l’impressione di avere un qualcosa
in più rispetto alle tradizionali strategie passive. La loro attuale popolarità
ci dice molto sulla psicologia degli
investitori.
C’è
però un problema non trascurabile. La difficoltà sta nel fatto che una
strategia deve risultare efficace out-of-sample, ovvero nei rendimenti
successivi ai dati sui quali è stata ottimizzata. Non importa quanto
lunghe siano le serie storiche sulle quali è stata sviluppata, il vero test è quello
che succede dopo. Il rischio di
queste strategie è che siano state create grazie al data mining e quindi ottimizzate rispetto ad una situazione
economica che potrebbe non ripetersi.
Gli
investitori sono sempre alla ricerca del Sacro Graal degli investimenti, una
strategia che generi buoni rendimenti senza avere drawdowns né volatilità, come ad esempio riportato nel grafico
seguente dal nostro fondo misterioso.
Per
chi fosse interessato a perseguire questa strategia, purtroppo vi devo avvertire
che i rendimenti sono quelli di Bernard Madoff (rappresentati dal fondo
Fairfield Sentry)!
Smart
Beta = Beta “stupido” + Smart Marketing
Uno
dei ritornelli frequenti al momento è che gli investitori devo essere più “creativi”
nelle loro esposizioni ai movimenti dei mercati finanziari, il famoso beta.
Le innovazioni proposte sono appunto quelle che vanno sotto i nomi altisonanti
di smart beta, risk factors, etc… Ad esempio, in campo azionario negli ultimi anni
sono proliferate le strategie di minimum variance, bassa volatilità ed indici pesati secondo i fondamentali,
per non menzionarne altre ancora più esotiche.
Una
delle asserzioni più comuni è che le strategie di smart beta offrono rendimenti aggiustati per il rischio superiori
rispetto a quelle basate sui comuni indici a capitalizzazione. Un recente paper
(Arnott, Hsu, Kalesnik, Tindall: “The
Surprising Alpha from Malkiel’s Monkey and Upside-Down Strategies”,
disponibile qui) dimostra in maniera
quantitativa questa asserzione con riferimento, ad esempio, alle strategie a minimum variance o equal-weighted. Sfortunatamente, nello stesso paper gli
autori dimostrano che non solo l’inverso
delle strategie di smart beta
(letteralmente, rovesciando l’approccio) ha rendimenti superiori agli indici
tradizionali, ma anche che portafogli creati in maniera causale (“[…] selezionando gli investimenti come se
una scimmia tirasse delle freccette alle pagine economiche di un giornale”)
hanno performance simili. Se la retorica dietro le strategie di smart beta fosse corretta, questi altri
portafogli dovrebbero al contrario avere rendimenti pessimi. Come si spiegano allora
questi risultati?
Semplicemente, il tratto unificante di tutte queste strategie è
che non basandosi sulla capitalizzazione di mercato costruiscono un portafoglio indifferente ai prezzi
correnti, un processo che garantisce essenzialmente che ci sarà una propensione
verso azioni di tipo value e small-cap. Quando queste strategie sono aggiustate
per la loro esposizione a questi fattori non
mostrano nessuna sovraperfomance statisticamente significante rispetto ai
tradizionali benchmark. In altre parole, il fatto che le strategie smart beta abbiano sovraperformato non
ha niente a che fare con le storie che le società di gestione ci raccontano (migliore matrice delle covarianze, sfruttano
l’idea di non copiare gli indici tradizionali o trading contrario rispetto alla
capitalizzazione), quanto piuttosto sul fatto che sono più esposte ai
fattori “value” e “size”, ovvero quelli già identificati da Fama e
French.
Ovviamente, nessuna SGR riuscirebbe mai a piazzare a mani basse
un prodotto se dicesse semplicemente: “Ho
un’idea innovativa per battere gli indici tradizionali: un portafoglio che
investe in azioni value e small-cap!” Ma non fatevi confondere: questo è
esattamente quello che le strategie di smart
beta fanno.
Essendo
un investitore di tipo value e con
una marcata preferenza per le small cap,
posso solo essere d’accordo su questo approccio. Questo tuttavia è valido se
e solo se viene rispettata la regola
aurea: nessun investimento è così “buono” che può essere comprato senza alcuna
considerazione sul prezzo pagato. Anche le strategie value e small cap non
sono assolutamente una garanzia di rendimenti (nemmeno nel lungo periodo) se
sono considerate indipendentemente dal loro prezzo!
Per
quanto riguarda l’asset allocation,
la moda attuale è di spingere verso maggiore attenzione sui fattori di rischio
come carry, value, momentum, etc…
Sotto molti aspetti questo è l’equivalente degli smart beta nel segmento azionario: invero, il termine smart beta spesso è usato per
ricomprendere anche gli ETF che si focalizzano su questi fattori.
Chi
propone questo approccio è invogliato dalla bassa correlazione che i singoli fattori di rischio hanno rispetto
agli altri investimenti tradizionali, nonché dalle intuizioni che si possono avere
dal guardare il mondo attraverso le lenti dei risk factors. In realtà non hanno scoperto niente di
rivoluzionario: non è difficile scomporre (e ricomporre) i rendimenti del private equity come i rendimenti del
mercato azionario più l’utilizzo della leva finanziaria (meno un bel po’ di
costi pagati agli sponsor, però). Oppure che gli hedge funds, in aggregato, non fanno molto di più che vendere
opzioni put ed un arbitraggio tra
volatilità implicita ed effettiva.
Il
trucco per capire i risk factors è di
interpretarli come una trasformazione di altri assets. Ad esempio, cos’è l’equity
risk? Poiché è l’extra-rendimento atteso da un investimento azionario può
essere definito come long equity/short cash. Il fattore value è invece long azioni
poco costose/short azioni costose.
Quello momentum è long azioni
che sono salite di prezzo/short azioni che sono scese di prezzo, mentre
il fattore carry non è altro che long valute
con alti interessi/short valute con bassi interessi. Come avrete
capito, sono tutti una combinazione di una posizione lunga in qualcosa ed
una corta in qualcos’altro.
Pensate ad un asset
(azioni, obbligazioni, valute, …) come strumenti sui quali potete andare solo long. I risk factors sono invece una combinazione di assets dove il vincolo di andare solo lunghi è stato rimosso, ma in
ultima istanza sono sempre ottenuti da investimenti in qualche asset. Secondo i proponenti il maggior
pregio dei risk factors è la loro
bassa correlazione con gli assets
tradizionali. Occorre tuttavia ricordare che qualsiasi portafoglio ottenuto
come combinazione di investimenti long
e short dovrebbe avere una correlazione più o meno pari a zero con
gli assets sottostanti.
Di
conseguenza, quello che importa è l’intuizione economica dietro i risk factors. Forse sono maggiormente efficienti, anche se spesso l’efficienza
è definita in un sistema di
media-varianza, ovvero dove il
rischio è rappresentato in maniera assolutamente inutile dalla volatilità.
Ricordate comunque due cose. La prima è che, come gli assets sottostanti, nessun risk
factor farà bene indipendentemente dal suo prezzo. Ci sono periodi nei
quali le strategie di carry saranno
prezzate per fare bene, e periodi nei quali non lo saranno; periodi nei quali value sarà prezzato per fare meglio di growth, e periodi in cui varrà
l’opposto. E così via.
La
seconda considerazione è forse ancora più importante: quando si tratta di risk factors, si sta implicitamente
introducendo la leva finanziaria
nell’investimento (in particolare, quella di tipo long/short). Questo è uno dei peggiori rischi della Modern Portfolio Theory (MPT): nella
classica ottimizzazione di tipo media-varianza la leva è vista come senza
costi, sia in termini di implementazione che come impatto sugli investitori.
L’approccio basato sui risk factors
sfrutta proprio questo errata concezione.
Ma
come dovremmo aver ormai imparato, la leva è tutt’altro che priva di costi dal
punto di vista degli investitori. La
leva NON può mai rendere buono un cattivo investimento, mentre può portare
un buon investimento ad un disastro, trasformando una perdita temporanea dovuta
alla volatilità dei prezzi in una perdita permanente, ad esempio forzando a
vendere esattamente nel momento peggiore.
La
caratteristica più pericolosa della leva è che introduce una sorta di
dipendenza dal movimento dei prezzi. Come ben proposto
da Benjamin Graham, ci sono due differenti approcci agli investimenti: pricing
e timing.
Nel primo (pricing) si compra
qualcosa quando il prezzo di mercato è inferiore al valore intrinseco e si
vende quando il prezzo sale oltre questo valore intrinseco. Nel secondo (timing) si cerca invece di anticipare
l’andamento del mercato, comprando prima che questo salga e vendendo prima che
scenda. Quando si utilizza un approccio long-only
su un orizzonte temporale di lungo periodo, l’unica cosa di cui ci si deve
preoccupare è il prezzo di quello che si compra. Questo vuol dire che se si
compra un asset a poco prezzo e
questo diventa più economico (i.e.,
il prezzo scende), se si ha liquidità disponibile se ne può comprare ancora,
mentre se non se ne ha si può semplicemente mantenere la posizione. Ma quando
si comincia ad introdurre la leva nel nostro portafoglio (come in un approccio
basato sui risk factors), ci si deve
preoccupare sia del pricing che
del timing. Si è infatti
obbligati ad avere un’opinione non solo sul prezzo ma anche sul percorso che seguirà
in futuro, ovvero: il mio portafoglio long/short sarà in grado di sopravvivere
ad un movimento dei prezzi che va contro di me?
Risk parity = “Misura
sbagliata del rischio” + Leva + Indifferenza ai prezzi = Pessima idea
Dal punto di vista di un investitore focalizzato sui fondamentali,
i rischi impliciti nella risk parity
possono essere riassunti in:
- Considera una misura sbagliata di rischio. Molti proponenti usano la volatilità come misura del rischio di un portafoglio. Come non mi stancherò mai di sottolineare, il rischio non è un numero: mettere la volatilità al centro del processo di investimento avrebbe, ad esempio, spinto ad aumentare l’esposizione nel 2007 (quando la volatilità di tutti i mercati era bassa) ed a diminuirla nel 2009 (quando la volatilità era esplosa), ovvero l’esatto opposto di quello che un investitore accorto avrebbe dovuto fare.
- Utilizza la leva. Vedere la discussione precedente sui risk factors.
- Manca di “solidità”. Non ci sono risultati generali ed univoci per la risk parity. Non perché non ci sia abbastanza profondità dei dati, piuttosto perché i risultati dei backtest sono molto sensibili agli assets sottostanti utilizzati (ad es. S&P500 vs. MSCI World, indici di obbligazioni governative vs. corporate). Inoltre, vi è molta arbitrarietà riguardo quali classi includere: ad esempio, perché mettere anche le commodities, che potrebbero non avere un loro specifico premio al rischio? In generale, la mancanza di questa robustezza solleva il dubbio che i risultati dei backtest siano dovuti a data mining, e quindi fragili.
- È indifferente alle valutazioni. Uno dei vantaggi spesso proposti da questo approccio è l’indifferenza ai rendimenti attesi, come se fosse qualcosa di cui andare fieri. Qualcuno si è anche spinto a dire che la risk parity è “l’approccio da seguire se non hai la minima idea di quali siano i rendimenti attesi dalle varie classi”. Dal mio punto di vista, non c’è niente di più irresponsabile per un investitore di dire che non si ha idea di quali rendimenti aspettarsi, che significa che non si ha idea delle valutazioni correnti: qualcuno andrebbe da un cardiochirurgo che afferma di non sapere come funziona il cuore? A dire il vero, mi correggo: non c’è niente di più irresponsabile di non avere idea dei rendimenti attesi ed usare la leva!
Come
con le due strategie discusse precedentemente, anche la risk parity è implementata attraverso assets, e quindi può essere prezzata. James Montier ha fatto alcune
simulazioni storiche, costruendo un portafoglio di risk parity fatto da liquidità, obbligazioni governative ed azioni
in modo da avere storicamente la stessa volatilità del classico portafoglio
statico 60% azioni/40% obbligazioni, ed ha poi paragonato la performance di
queste due strategie, identificando 4 distinti periodi di performance, come
mostrato nel grafico sottostante.
Nel
primo periodo, dal 1928 al 1945, la risk
parity è stata di gran lunga la vincitrice, data la pessima performance dei
mercati azionari dopo la Grande Depressione del 1929. Ma con il boom seguente
alla fine della Seconda Guerra mondiale, dal 1946 al 1980 un semplice
portafoglio 60/40 avrebbe fatto molto meglio. A partire dai primi anni 1980, il
maggiore mercato rialzista di sempre sia per azioni che obbligazioni, le
due strategie hanno avuto risultati più o meno simili. Infine, negli ultimi
anni la risk parity ha di nuovo fatto
meglio, grazie alla decisa sovraperformance delle obbligazioni sulle azioni.
Risultati simili sono stati riscontrati in un altro importante articolo su
queste strategie [Anderson,
Bianchi, Goldberg: “Will My Risk Parity Strategy Outperform?” Financial Analyst
Journal, Nov/Dec 2012: per chi fosse interessato e non trovasse questo articolo, chiedete pure].
Più interessante è analizzare i pesi nelle tre classi della
strategia di risk parity simulata: in
media, questa era investita per il 44% in azioni, per il 155% in obbligazioni (con
punte di quasi il 400%) più una posizione short
del 99% in liquidità (con punte di -300%). Da queste esposizioni, Montier ha
potuto calcolare quali rendimenti reali la strategia di risk parity era prezzata per offrire. I risultati sono ben visibili
nel seguente grafico: nel lungo periodo, la risk
parity dinamica non sembra molto differente da un portafoglio 60/40
statico.
Al momento entrambe le strategie sono prezzate per avere rendimenti reali prossimi allo zero, in
linea con l’attuale limbo di bassi rendimenti. Questo è un anatema per chi
afferma che il portafoglio 60/40 è prezzato per avere bassi rendimenti e che
sarebbe quindi molto meglio seguire una strategia di risk parity. [Nota: i
risultati sono quelli di una risk parity simulata creata con la stessa
volatilità del portafoglio 60/40: strategie che usano differenti obiettivi – ad
esempio volatilità costante del 10% - avranno risultati differenti.]
La conclusione più importante è però quella più semplice ed
intuitiva: quando la risk parity è prezzata per fare meglio
del portafoglio 60/40, fa effettivamente meglio. Se si usa la leva sulle
obbligazioni quando queste sono poco costose (i.e., hanno rendimenti elevati), si hanno ottimi risultati – a
patto, ovviamente, di avere una qualche idea sul percorso che questi rendimenti
prenderanno. Al contrario, quando si usa la leva su obbligazioni costose (i.e., bassi rendimenti), i risultati non
sono così positivi come ci si aspetterebbe. Non c’è niente di magico nella risk
parity!
Conclusioni
La
lezione da trarre, come è sempre stato, è che in finanza “there are no free lunches”. Se
qualcosa sembra troppo bello per essere vero, probabilmente non lo è. E nessun investimento è così pregiato da
potersi permettere di pagare qualsiasi prezzo!
Dubitate
sempre di chi vi propone la classica pallottola
d’argento: se vi dicono che hanno identificato una strategia che offre
elevati rendimenti e basso
rischio/volatilità, vi devono anche spiegare esattamente come funziona e sotto
quale insieme di assunzioni riguardo le situazioni di mercato.
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