Secondo JP Morgan, ci sono oggi in circolazione titoli di stato per €3,6 trilioni che trattano a rendimenti negativi, pari al 16% dell’indice JP Morgan Global Government Bond Index. La domanda che molti si pongono è: chi è che paga per il privilegio di prestare i soldi a questi emittenti? Non sarebbe meglio rimanere in liquidità e mettere i soldi (letteralmente) sotto il materasso?
La risposta non è tuttavia così semplice come molti vogliono far credere (“Gestori pavidi ed incapaci che non sanno fare il loro mestiere!”). JP Morgan fornisce una lista di investitori disposti (forzati?) ad accettare rendimenti negativi:
- Chi si aspetta o teme ancora maggiore deflazione, soprattutto in Europa: le obbligazioni con rendimenti nominali negativi rimangono attraenti se la deflazione è tale da rendere i rendimenti reali positivi. In una situazione di deflazione gli investitori tendono a spostarsi dagli investimenti reali a quelli nominali: in Giappone negli anni 1990 questo ha significato proprio l’uscita da azioni e real estate per comprare titoli di stato.
- Chi specula sulla ri-valutazione di una valuta: questo vale ad esempio per chi continua ad acquistare titoli svizzeri, danesi o svedesi, sperando in un rapido apprezzamento di CHF, DKK o SEK che più che compensi per i rendimenti negativi.
- Chi acquista in previsione di ulteriori azioni delle banche centrali: chi ha comprato i titoli dell’Eurozona in anticipazione del QE della BCE ha già realizzato un buon capital gain, ma potrebbe decidere di mantenere le posizioni nell’attesa di ulteriori manovre. Oppure chi ha acquistato titoli svedesi speculando sulla possibilità che anche la Riksbank tagliasse il proprio tasso repo fino a valori negativi, cosa avvenuta proprio oggi.
- Le banche centrali possono comprare titoli con rendimenti negativi, come annunciato dalla BCE nell’introdurre il programma di QE: se la BCE riesce a finanziarsi con i depositi delle banche ad un tasso di -20 bp, comprare titoli che rendono -0,1% è comunque un carry trade positivo. Anche la Bank of Japan ha comprato titoli con rendimenti negativi negli ultimi mesi.
- Fondi passivi ed indicizzati: questi devono necessariamente comprare tutti i titoli inclusi nel benchmark di riferimento, compresi quelli che non sono minimamente attraenti. L’universo di fondi passivi ed ETF è aumentato in maniera considerevole negli ultimi anni: negli US circa il 10% di tutti i fondi obbligazionari è oggi passivo o indicizzato. Non tutti investono in titoli di stato, ma una buona fetta si.
- Le banche che vogliono “sfuggire” dai tassi di deposito negativi imposti dalla BCE e dalle banche centrali svizzere e danesi: solo nell’Eurozona ci sono circa €220 mld di riserve delle banche soggette a interessi negativi.
Tutti questi investitori sono tutt’altro che stupidi o timorosi, sono anzi perfettamente razionali nelle loro decisioni: alcuni, come quelli al #3, sono addirittura molto aggressivi.
Matematicamente è facile dimostrare che per chi si attende tassi ancora più bassi il rendimento da questi investimenti è comunque positivo. Prendiamo ad esempio un generico titolo tedesco a 2 anni, che al momento di scrivere tratta ad un rendimento di -0,23%: su un orizzonte temporale di un anno, se i rendimenti richiesti scendessero anche a solo -0,30% il rendimento dell’investitore sarebbe di 11 bp. Per un generico titolo a 5 anni che tratta oggi a -0,06%, la semplice riduzione a -0,10% porterebbe su un orizzonte di un anno ad un rendimento di 18 bp, mentre una discesa fino a -0,20% offrirebbe un rendimento di 63 bp. Se questi rendimenti sembrano comunque assai miseri, pensate ad un macro hedge fund o al trading desk di una banca che può farlo con una leva di 20x, ed ecco che i rendimenti attesi cominciano ad essere interessanti.
Quelli che seguono questa strategia sanno che la componente di rendita (la cedola) non ha più nessun significato: quello su cui stanno puntando è solamente la forma della curva dei tassi nel futuro (ed in parte sul rischio di credito dell’emittente). Ovviamente questa strategia è rischiosa (meno per i titoli a breve, di più per quelli a lunga, e maggiore per chi opera a leva), ed è nota in finanza come “greater fool theory”: si basa infatti sulla previsione che ci sarà qualcuno disposto a comprare a rendimenti ancora più negativi.
Mentre un mondo di rendimenti nominali negativi può sembrare nuovo ed assurdo per gli investitori obbligazionari, questo non è molto diverso da quello che gli investitori azionari hanno invece fatto anche per lunghi periodi. Uno studio del CFA Institute – purtroppo non aggiornato – ha determinato che tra il 1965 ed il 2007 gli investitori hanno acquistato azioni americane con un equity risk premium pari a -0,91%. Detto in altre parole, l’earnings yield (l’inverso del multiplo P/E) è stato in media inferiore al rendimento (yield) dei Treasuries americani. L’interpretazione è che gli utili non erano considerati importanti, quello che contava erano solo i capital gains: la speranza di un investitore azionario di battere i titoli di stato era basata sull’aspettativa di rivendere le azioni ad un prezzo superiore a qualcun altro.
Suona familiare? Se sì, è perché è esattamente quello che stanno facendo oggi gli acquirenti di queste obbligazioni. Per le azioni, questa assunzione è durata per 42 anni. È possibile che alcuni settori del mercato obbligazionario rimangano con rendimenti negativi per 42 anni? Difficile dirlo, ma di sicuro la situazione attuale è abbastanza peculiare per non escludere nemmeno questa possibilità.
Un’ultima osservazione: le azioni non hanno una scadenza naturale, ma le obbligazioni si. Fino ad un giorno prima della scadenza c’è sempre la possibilità di realizzare un guadagno se il cambiamento nel rendimento compensa per il costo del capitale. Questo però rende investire in obbligazioni a rendimenti negativi un esercizio molto più rischioso, perché prima o poi la musica smetterà di suonare e qualcuno rimarrà senza una sedia su cui sedersi…
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