giovedì 9 gennaio 2014

CAPE: mito vs. realtà



Uno degli argomenti più discussi negli ultimi mesi è quello se i mercati azionari siano al momento in una “bolla”, soprattutto quello americano.


Da un lato ci sono quelli che sostengono che i margini di profitto sono e rimarranno elevati, che le aziende sono molto meno indebitate rispetto al passato e che hanno abbondante liquidità che dovrebbe portare ad un aumento delle operazioni di M&A, e che il multiplo P/E calcolato sugli utili attesi rimane basso. Quindi, niente bolla ed prospettive positive per il 2014.

Nel campo opposto ci sono quelli che guardano ad indicatori come il CAPE (Ciclically-Adjusted Price Earning) e ritengono che il mercato americano sia invece sopravvalutato.

Il CAPE, reso popolare dal Premio Nobel per l’Economia Robert Shiller, divide il prezzo di un indice azionario (in questo caso S&P 500) per la media degli utili dei 10 anni precedenti, aggiustando in entrambi i casi per l’impatto dell’inflazione. Questo multiplo viene spesso indicato come la valutazione preferita dai pessimisti: il valore attuale di 25x è infatti superiore alle medie storiche (di 19x e 17x dal 1970 e dal 1880, rispettivamente). Sulla base di questi valori, il mercato americano potrebbe essere sopravvalutato tra il 30% ed il 50%. 

Tuttavia, il CAPE ha anche attirato molte critiche. Nel corso della sua lunga storia ha passato il 55% del tempo sopra la media ed il 45% del tempo sotto la media, un risultato plausibile per una variabile che dovrebbe essere mean-reverting. Ma dal 1990 è stato sopra la media storica per ben il 98% del tempo, e quindi deve esserci qualcosa di sbagliato nella sua misurazione. 
  1. Composizione dell’indice. Rispetto al secolo scorso, l’indice S&P500 contiene oggi molte più aziende tecnologiche e consumer staples, che hanno margini e multipli superiori rispetto ai titoli industriali che storicamente hanno dominato l’indice. Di conseguenza, margini e valutazioni superiori al passato sono sostenibili. 
  2. Principi contabili. Prima del 2001, il goodwill proveniente ad esempio da acquisizioni doveva essere ammortizzato su un periodo di 40 anni. Oggi questo non è più permesso: invece di ammortizzarlo su un periodo prefissato, le aziende devono fare un test annuale per determinare se quel valore è ancora corretto o se necessita di una svalutazione. E queste svalutazioni sono maggiori in periodi di recessione e dopo due decadi di acquisizioni spesso insensate. Non è una questione se i nuovi principi contabili siano migliori o peggiori, semplicemente che sono diversi. Aggiustando per queste differenze, il CAPE attuale scenderebbe a circa 21x. 
  3. Interpretazione troppo meccanica. Il CAPE è semplicemente una misura del prezzo che gli investitori sono disposti a pagare per gli utili passati. Ma ci sono svariate ragioni per le quali oggi potrebbero essere disposti a pagare di più per quelli futuri: inflazione più bassa e più stabile; minor tassazione; maggiori buyback e maggior uso della leva finanziaria; e soprattutto la prospettiva di bassi tassi d’interesse per un lungo periodo. Non ha senso paragonare i valori attuali con quelli del 1800, quando i mercati finanziari erano completamente differenti. 
  4. Il gap con le medie dipende dal periodo utilizzato. Ad esempio, la media dal 1990 (che comprende però la bolla Internet) è di 25x, esattamente come oggi. 
  5. Il valore attuale è distorto dal crollo degli utili durante la crisi del 2008. Il CAPE può essere un buono strumento di valutazione, ma non nelle condizioni attuali: poiché recentemente ci sono state due gravi recessioni (anche se quella del 2000-2002 entra nel calcolo in maniera marginale) e quella del 2008 è stata molto significativa, utilizzare gli utili degli ultimi 10 anni da un’idea distorta di quelli che potrebbero essere gli utili in futuro.
Tutte queste critiche sono sensate, e possono ben spiegare come l’attuale valore non implichi necessariamente una bolla e come, nonostante la sua importanza, il CAPE soffra effettivamente di alcune limitazioni.

Quello che i critici non colgono, tuttavia, è che il CAPE non è un indicatore per il market timing, come molti che si limitano all’analisi tecnica vorrebbero utilizzarlo: un valore elevato (basso), in assoluto o rispetto alla media, NON significa che siamo ad un punto di inflessione e che domani il mercato comincerà a scendere (salire). A tutti piacerebbe tornare ad una situazione come nel marzo 2009, quando il CAPE crollò a 13x e dopo poche settimane il mercato azionario invertì rotta, ma non funziona così.

L’idea di utilizzare un rapporto P/E normalizzato rispetto al ciclo economico è nata dall’osservazione che gli utili aggregati del mercato azionario sono molto volatili di anno in anno, ed inoltre tendono a tornare verso il trend storico. In particolare, come risposta al punto 5) qui sopra, chi critica l’inclusione degli utili del 2008 nel calcolo del denominatore del CAPE non ha una posizione coerente: nessuno di loro infatti obietta sull’inclusione degli elevati utili registrati per molti anni fino al 2007, prima dello scoppio della bolla. Queste persone vedono il 2008 come un evento eccezionale, che non dovrebbe avere rilevanza per il futuro e non dovrebbe quindi abbassare il denominatore. La distruzione degli utili post-2008 è stata invece la diretta conseguenza di utili eccessivi negli anni precedenti, che stavano in un certo senso prendendo a prestito dal futuro. In questo contesto includere il 2008 è corretto, perché è un modo per correggere gli errori passati. Piuttosto che renderlo inutile, gli eventi del 2008 e la volatilità degli utili nell’ultima decade sono esattamente il motivo per cui questo indicatore è stato creato.

Una ulteriore riprova è data dal Q-ratio, che misura il valore dei mercati azionari rispetto al valore di rimpiazzo delle attività sottostanti. I due indicatori si possono riassumere così: il CAPE guarda al conto economico ed ai profitti aziendali (avendo gli utili al denominatore), mentre il Q-ratio guarda allo stato patrimoniale (avendo al denominatore il valore di mercato delle attività fisiche). Normalizzando i valori storici rispetto alle loro medie, il grafico sottostante mostra come il loro andamento sia molto simile e che oggi entrambi puntano verso una qualche sopravvalutazione. 


Più che è uno strumento di trading, il CAPE è utile per mettere in contesto i possibili rendimenti futuri dei mercati azionari. La seguente tabella riporta i rendimenti nominali medi annui (esclusi i dividendi) dell’indice S&P500 a seconda del valore del CAPE ad inizio anno (115 osservazioni annuali a partire dal 1900 che sono state suddivise in 5 segmenti ciascuno contenente 23 osservazioni). 

La storia, e la logica, suggeriscono che un valore iniziale elevato del CAPE è associato con rendimenti dei mercati azionari più bassi negli anni seguenti, anche se questo non significa necessariamente che questi saranno negativi. Il CAPE non è assolutamente un segnale per fare trading su brevi periodi (“Il valore di 25x significa che i mercati crolleranno presto!”), ma sicuramente mette in guardia su quale performance aspettarsi nei prossimi anni.  

1 commento:

  1. credo che uno dei più grossi difetti sia la non ponderazione con il tasso free risk.
    è forse un caso che il punto più basso del CAPE (1982/1983) sia stato concomitante con il picco dei t-notes decennali (resa al 15%).

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