Uno degli
argomenti più discussi negli ultimi mesi è quello se i mercati azionari siano
al momento in una “bolla”, soprattutto quello americano.
Da un lato
ci sono quelli che sostengono che i margini di profitto sono e rimarranno elevati,
che le aziende sono molto meno indebitate rispetto al passato e che hanno
abbondante liquidità che dovrebbe portare ad un aumento delle operazioni di
M&A, e che il multiplo P/E calcolato sugli utili attesi rimane basso. Quindi,
niente bolla ed prospettive positive per il 2014.
Nel campo
opposto ci sono quelli che guardano ad indicatori come il CAPE (Ciclically-Adjusted Price Earning) e ritengono
che il mercato americano sia invece sopravvalutato.
Il CAPE,
reso popolare dal Premio Nobel per l’Economia Robert Shiller, divide il prezzo
di un indice azionario (in questo caso S&P 500) per la media degli utili
dei 10 anni precedenti, aggiustando in entrambi i casi per l’impatto dell’inflazione.
Questo multiplo viene spesso indicato come la valutazione preferita dai
pessimisti: il valore attuale di 25x è infatti superiore alle medie storiche (di
19x e 17x dal 1970 e dal 1880, rispettivamente). Sulla base di questi valori, il mercato
americano potrebbe essere sopravvalutato tra il 30% ed il 50%.
Tuttavia, il
CAPE ha anche attirato molte critiche. Nel corso della sua lunga storia ha
passato il 55% del tempo sopra la media ed il 45% del tempo sotto
la media, un risultato plausibile per una variabile che dovrebbe essere mean-reverting. Ma dal 1990 è stato
sopra la media storica per ben il 98% del tempo, e quindi deve
esserci qualcosa di sbagliato nella sua misurazione.
- Composizione dell’indice. Rispetto al secolo scorso, l’indice S&P500 contiene oggi molte più aziende tecnologiche e consumer staples, che hanno margini e multipli superiori rispetto ai titoli industriali che storicamente hanno dominato l’indice. Di conseguenza, margini e valutazioni superiori al passato sono sostenibili.
- Principi contabili. Prima del 2001, il goodwill proveniente ad esempio da acquisizioni doveva essere ammortizzato su un periodo di 40 anni. Oggi questo non è più permesso: invece di ammortizzarlo su un periodo prefissato, le aziende devono fare un test annuale per determinare se quel valore è ancora corretto o se necessita di una svalutazione. E queste svalutazioni sono maggiori in periodi di recessione e dopo due decadi di acquisizioni spesso insensate. Non è una questione se i nuovi principi contabili siano migliori o peggiori, semplicemente che sono diversi. Aggiustando per queste differenze, il CAPE attuale scenderebbe a circa 21x.
- Interpretazione troppo meccanica. Il CAPE è semplicemente una misura del prezzo che gli investitori sono disposti a pagare per gli utili passati. Ma ci sono svariate ragioni per le quali oggi potrebbero essere disposti a pagare di più per quelli futuri: inflazione più bassa e più stabile; minor tassazione; maggiori buyback e maggior uso della leva finanziaria; e soprattutto la prospettiva di bassi tassi d’interesse per un lungo periodo. Non ha senso paragonare i valori attuali con quelli del 1800, quando i mercati finanziari erano completamente differenti.
- Il gap con le medie dipende dal periodo utilizzato. Ad esempio, la media dal 1990 (che comprende però la bolla Internet) è di 25x, esattamente come oggi.
- Il valore attuale è distorto dal crollo degli utili durante la crisi del 2008. Il CAPE può essere un buono strumento di valutazione, ma non nelle condizioni attuali: poiché recentemente ci sono state due gravi recessioni (anche se quella del 2000-2002 entra nel calcolo in maniera marginale) e quella del 2008 è stata molto significativa, utilizzare gli utili degli ultimi 10 anni da un’idea distorta di quelli che potrebbero essere gli utili in futuro.
Tutte
queste critiche sono sensate, e possono ben spiegare come l’attuale valore non
implichi necessariamente una bolla e come, nonostante la sua importanza, il
CAPE soffra effettivamente di alcune limitazioni.
Quello
che i critici non colgono, tuttavia, è che il CAPE non è un indicatore per il market
timing, come molti che si limitano all’analisi tecnica vorrebbero
utilizzarlo: un valore elevato (basso),
in assoluto o rispetto alla media, NON significa che siamo ad un punto di
inflessione e che domani il mercato comincerà a scendere (salire). A tutti
piacerebbe tornare ad una situazione come nel marzo 2009, quando il CAPE crollò
a 13x e dopo poche settimane il mercato azionario invertì rotta, ma non
funziona così.
L’idea
di utilizzare un rapporto P/E normalizzato rispetto al ciclo economico è nata
dall’osservazione che gli utili aggregati del mercato azionario sono molto
volatili di anno in anno, ed inoltre tendono a tornare verso il trend storico.
In particolare, come risposta al punto 5) qui sopra, chi
critica l’inclusione degli utili del 2008 nel calcolo del denominatore del CAPE
non ha una posizione coerente: nessuno di loro infatti obietta sull’inclusione
degli elevati utili registrati per molti anni fino al 2007, prima dello scoppio
della bolla. Queste persone vedono il 2008 come un evento eccezionale, che non
dovrebbe avere rilevanza per il futuro e non dovrebbe quindi abbassare il
denominatore. La distruzione degli utili post-2008 è stata invece la
diretta conseguenza di utili eccessivi
negli anni precedenti, che stavano in un certo senso prendendo a prestito dal
futuro. In questo contesto includere il 2008 è corretto, perché è un modo per
correggere gli errori passati. Piuttosto che renderlo inutile, gli eventi del 2008 e la volatilità degli
utili nell’ultima decade sono esattamente il motivo per cui questo indicatore è
stato creato.
Una
ulteriore riprova è data dal Q-ratio,
che misura il valore dei mercati azionari rispetto al valore di rimpiazzo delle
attività sottostanti. I due indicatori si possono riassumere così: il CAPE guarda
al conto economico ed ai profitti aziendali (avendo gli utili al denominatore),
mentre il Q-ratio guarda allo stato patrimoniale (avendo al denominatore il
valore di mercato delle attività fisiche). Normalizzando i valori storici rispetto
alle loro medie, il grafico sottostante mostra come il loro andamento sia molto
simile e che oggi entrambi puntano verso una qualche sopravvalutazione.
Più che è
uno strumento di trading, il CAPE è utile
per mettere in contesto i possibili
rendimenti futuri dei mercati azionari. La seguente tabella riporta i
rendimenti nominali medi annui (esclusi i dividendi) dell’indice S&P500 a
seconda del valore del CAPE ad inizio anno (115 osservazioni annuali a partire
dal 1900 che sono state suddivise in 5 segmenti ciascuno contenente 23
osservazioni).
La
storia, e la logica, suggeriscono che un valore iniziale elevato del CAPE è associato
con rendimenti dei mercati azionari più
bassi negli anni seguenti, anche se questo non significa
necessariamente che questi saranno negativi. Il CAPE non è assolutamente un segnale per fare trading su brevi periodi (“Il
valore di 25x significa che i mercati crolleranno presto!”), ma sicuramente
mette in guardia su quale performance aspettarsi nei prossimi anni.
credo che uno dei più grossi difetti sia la non ponderazione con il tasso free risk.
RispondiEliminaè forse un caso che il punto più basso del CAPE (1982/1983) sia stato concomitante con il picco dei t-notes decennali (resa al 15%).