lunedì 10 febbraio 2014

Il Tao dei miei investimenti



[Tao: letteralmente la via o il sentiero; spesso tradotto come il principio, è uno dei principali concetti della filosofia cinese. È l'eterna, essenziale e fondamentale forza che scorre attraverso tutta la materia dell'Universo. Per dirla in una parola, il Tao "è".]


Una delle cose che mi capita più spesso nel discutere la mia filosofia di investimento è di difendere le mie convinzioni. Questo post è un tentativo di descrivere ed approfondire alcune mie certezze riguardo i mercati finanziari.

Tuttavia, prima di imbarcarmi in questo esperimento, ritengo che valga la pena fare una domanda che purtroppo non viene chiesta abbastanza spesso, ovvero: qual è l’obiettivo dei nostri investimenti? Ognuno risponderà a questa domanda a modo proprio, e non è certamente mia intenzione convincere altri che la mia metodologia è la migliore in assoluto: va bene per me, per le mie caratteristiche ed i miei obiettivi; chi ha altre caratteristiche finanziarie e psicologiche fa benissimo a seguire strategie diverse.

La mia personale risposta alla domanda precedente è molto semplice: usando le parole di Sir John Templeton, “For a long-term investor, there is only one objective – maximum total returns after taxes”. Ovviamente, nel mondo moderno dominato dai supermercati di fondi e dalla prevalenza della performance relativa, un concetto semplice come questo viene spesso ignorato nelle linee guida degli investimenti. Anche perché vedere il mondo attraverso queste lenti ci evita di finire continuamente nell’ossessione delle moderne teorie di portafoglio come i concetti di alpha e beta (per chi fosse interessato ad un’eccellente trattazione dei limiti del CAPM e dei concetti di alpha/beta, ho messo qui alcune considerazioni di James Montier).

[Addendum: notate anche la falsa credenza promossa da chi usa i concetti di Markowitz: “La MPT induce gli investitori a diversificare, quindi è meglio che niente. Sbagliato! La MPT spinge ad ottimizzare, quindi ad investire più di quanto si dovrebbe. Non porta ad assumersi un rischio inferiore basata sul concetto di diversificazione, ma piuttosto ad avere più posizioni di quelle che si dovrebbe per la percezione di proprietà statistiche che si compensano – i.e. basse correlazioni.]

Date queste premesse, la questione diviene, quindi, come investire per ottenere il risultato auspicato da Sir John Templeton? Questi sono i punti cardine della mia strategia. 

#1: Value, value, value 
Al centro del mio approccio vi è la ferma convinzione che il prezzo pagato per un investimento determina il rendimento futuro. Nessun asset è così “buono” da essere immune dal rischio di sopravalutazione, e pochi asset sono così “pessimi” da sfuggire alla possibilità di una sottovalutazione. Ogni titolo può essere un buon investimento ad un prezzo ma non esserlo ad un altro prezzo. 

La chiave è nella separazione dei concetti di prezzo e valore (price e value), rifiutando così esplicitamente l’efficienza dei mercati, dove invece prezzo e valore coincidono sempre.

Per me, il value investing (nella sua accezione più ampia) è l’unico approccio nel quale il risk management è al primo posto: mettendo il concetto di margine di sicurezza al centro del processo di investimento, minimizza il rischio di pagare troppo. Ogni investimento dovrebbe essere acquistato solo se presenta un sufficiente margine di sicurezza: la stima del valore intrinseco si rivelerà esatta al 100% solo per caso, quindi comprare con un significativo sconto su questa stima ci protegge nel caso in cui si sia in errore.

Ovviamente, il concetto di risk management non è quello proposto, spesso senza nemmeno capirlo, dai venditori di prodotti di investimento, ma piuttosto la perdita permanente del capitale. Gli investitori value cercano di mitigare proprio il rischio di valutazione (pagare troppo per qualcosa) e si focalizzano su cercare di capire il rischio di business che si assumono. E questo è un concetto assoluto, non relativo: dire che qualcosa è un buon investimento solo perché è più a buon mercato di qualcos’altro è la ricetta per un disastro. La sola variabile che importa è il rapporto tra prezzo pagato e valore intrinseco. 

#2: Contrarian 
Come aveva già notato J.M. Keynes, “The central principle of investment is to go contrary to the general opinion, on the grounds that if everyone agreed about its merit, the investment is inevitably too dear and therefore unattractive. Oppure, ritornando a Sir John Templeton, It is impossible to produce superior performance unless you do something different from the majority.

Seguire un approccio di tipo value porta quasi necessariamente ad avere un atteggiamento contrarian, perché si comprano gli asset che sono poco amati e si vendono quelli preferiti dal mercato. Vari studi dimostrano che le azioni che i fondi comuni vendono hanno poi una migliore performance di quelle che sono impegnati a comprare (chi fosse interessato ad una trattazione dettagliata può vedere: Dasgupta, Prat and Verardo, “The Price of Conformism”, working paper, 2005). Questo perché in media gli analisti non sono interessati a capire il concetto di valore, ma sono piuttosto focalizzati sulle performance relative di breve periodo: le tipiche azioni con un rating “strong buy” sono costose in termini di P/E, hanno bassi dividendi ed alti multipli del prezzo rispetto a fatturato e cashflows; hanno inoltre elevate aspettative per quanto riguarda la crescita degli utili nel lungo periodo e hanno fatto molto bene negli ultimi 12 mesi (fattore momentum). Come del resto gran parte dell’industria degli investimenti, gli analisti sono concentrati solo su quello che accadrà nei prossimi mesi. E questo porta a domandarsi quale sia l’utilità delle centinaia di pagine di ricerca che producono se tutto quello che fanno è rincorrere i rendimenti degli ultimi mesi… 

#3: Pazienza 
Anche essere pazienti è una caratteristica peculiare di un approccio value. La sottovalutazione di un asset è spesso causata da trascuratezza o pregiudizi che possono persistere per un lungo periodo, e lo stesso accade per prezzi gonfiati da eccessivo ottimismo o stimoli artificiali. 

Ogni volta che si prende una posizione non si può mai essere certi se questa funzionerà oppure no. Comprare qualcosa a prezzi scontati aiuta ad avere migliori rendimenti nel lungo periodo, ma non ci dice niente sulle prospettive di breve termine. Un’azione sottovalutata può diventare ancora più a buon mercato, mentre una sopravalutata può diventare sempre più costosa. Di conseguenza, la pazienza è necessaria.

Una investimento con caratteristiche value può infatti portare a tre risultati:
  1. il mercato corregge la sottovalutazione ed il prezzo aumenta verso il valore intrinseco
  2. l’azione rimane sottovalutata ma genera lo stesso rendimenti sufficienti, ad esempio attraverso il pagamento di sostanziosi dividendi
  3. il prezzo non recupera mai ed anzi i fondamentali peggiorano (value traps).
Quindi la pazienza è un pre-requisito nei primi due casi (anche perché la maledizione dei value investors è di entrare troppo presto), ma un problema nel terzo.

Anche in questo casi vari studi dimostrano la validità di questo approccio. Su un orizzonte temporale di un anno, il 60% del rendimento totale viene da cambiamenti nella valutazione, ovvero fluttuazioni casuali del prezzo sulle quali nessuno può sapere niente in anticipo. Tuttavia, se si allunga l’orizzonte temporale, i fondamentali prendono il sopravvento: su un orizzonte di cinque anni, 80% del rendimento totale è dato dal prezzo pagato e dalla crescita del business sottostante (i.e., le fluttazioni casuali del prezzo hanno meno rilevanza).

Nonostante questo, la pazienza non sembra essere in cima ai pensieri della maggior parte dei gestori. Il turnover medio dei portafogli azionari dei fondi comuni è oggi del 120%, cioè un’azione viene tenuta in portafoglio in media per circa 10 mesi. I gestori dichiarano che la loro strategia è basata sulle aspettative future delle aziende nelle quali investono, ma non hanno nemmeno la pazienza di aspettare 12 mesi per vedere se le loro previsioni si sono effettivamente rivelate corrette: in questa situazione, la loro unica preoccupazione è cosa succederà agli utili e dove andranno i tassi d’interesse, il prezzo del petrolio, il PIL, … nei prossimi tre mesi. Questo focus sui risultati di breve termine va anche contro le loro dichiarazioni di valutare le perfomance sul lungo periodo. 


#4: Niente previsioni 
Il peggio vizio dell’industria degli investimenti è quello di mettere le previsioni al centro del processo di investimento. E questo nonostante decine di studi dimostrino come le persone non sono capaci di fare previsioni accurate con costanza, soprattutto in campo economico e nemmeno nel loro settore di specializzazione (anzi: gli esperti in genere sono solo più sicuri delle loro previsioni, non più accurati).

L’ossessione per le previsioni deriva in parte da un amore profondo per l’efficienza dei mercati: se i mercati sono efficienti, l’unico modo per fare meglio degli altri è sapere qualcosa in più. Può sembrare paradossale mettere assieme nella stessa frase mercati efficienti e gestione attiva, ma questo ragionamento è invece coerente con la EMH (Efficient Markets Hypothesis), perché secondo questa l’unico modo per battere il mercato è sapere qualcosa che non è ancora inclusa nel prezzo (informazioni non pubbliche). Il modo più diretto per sapere qualcosa più degli altri e quindi anticiparli è essere più precisi nelle previsioni su cosa succederà in futuro.

Molti investitori ritengono pertanto che il loro ruolo sia di spendere tempo ed energia cercando di essere più intelligenti degli altri: cosa farà il prossimo mese la Federal Reserve; quando vendere i titoli ciclici per comprare quelli difensivi; come aggiustare la duration per anticipare i movimenti nei tassi d’interesse; quando il mercato cambierà da risk-on a risk-off; quale sarà il prezzo dell’oro tra 6 mesi; etc… Decine di studi dimostrano tuttavia come gli investitori siano in genere incapaci di fare previsioni macroeconomiche accurate, per non parlare della competenza nel determinare esattamente quando avverranno i cambiamenti. Quindi cominciare il processo di investimento basandosi su previsioni, spesso di breve periodo, è come correre una maratona su una gamba sola.

Gli investitori dovrebbero re-indirizzare i loro sforzi oltre le previsioni: avere un esercito di economisti ed analisti che produce anticipazioni sul futuro è, nel migliore dei casi, una perdita di tempo. Esiste una ragione precisa per il fatto che sono chiamati analisti e non chiaroveggenti: il loro compito dovrebbe essere analizzare, capire e valutare un investimento, non cercare di predire il futuro. Le loro capacità sarebbero utilizzate meglio se cercassero di studiare il presente per determinare cosa questo possa implicare per il futuro, piuttosto che fornire agli investitori una sorta di falsa ancora a cui aggrapparsi. 

#5: I cicli sono importanti… 
Questo vale anche per gli investitori di lungo periodo. Come ricorda Howard Marks: “We may not be able to predict, but we can prepare”.

Spesso si sente dire che i mercati finanziari sono guidati da euforia e panico (greed e fear), ma solo uno di questi è presente in ogni singolo momento ed i mercati oscillano tra entusiasmo eccessivo e depressione profonda. Non si può prevedere in quale stato Mr. Market sarà tra qualche mese, ma sicuramente si può valutare in quale situazione siamo al momento, e comportarsi di conseguenza. 

#6: … ma la storia lo è ancora di più 
Se c’è una cosa sulla quale possiamo contare negli investimenti è che la storia si ripete, spesso anche più volte. È un’innata caratteristica umana ripetere alcune caratteristiche psicologiche, e tutte le bolle seguono uno schema più o meno prefissato: 

  1. Dislocamento e nascita del boom: uno shock esogeno crea nuove opportunità di profitto in alcuni settori e gli investimenti finanziari si orientano verso di essi. 
  2. Creazione del credito: un boom ha sempre bisogno di liquidità di cui nutrirsi; l’espansione monetaria è favorita dal sistema bancario ma anche da nuove strumenti e dall’uso della leva. 
  3. Euforia: tutti comprano questa nuova idea, la bolla diviene la nuova norma: all’inizio i prezzi vanno sempre e solo in su. I metodi tradizionali di valutazione sono sostituiti da nuove misure per giustificare il prezzo corrente; ottimismo e fiducia pervadono i mercati: le persone sovrastimano i potenziali guadagni, sottostimano i rischi ed ingannano sé stessi sulla possibilità di controllare la situazione. 
  4. Fase critica: gli insiders cominciano a monetizzare i loro investimenti ed iniziano le prime difficoltà finanziarie (debito eccessivo accumulato nel periodo di boom); emergono le prime frodi. 
  5. Revulsione: gli investitori sono spaventati e non partecipano più in nessun mercato. Le attività sono a prezzi di saldo e le valutazioni molto basse (venditori forzati). 
#7: Scetticismo 
Uno degli elementi caratteristici dei migliori investitori è un certo grado di scetticismo. L’investitore medio (e purtroppo mediocre) si chiede: “Perché non dovrei avere questo investimento?”. Esempi tipici sono un’allocazione alle obbligazioni governative perché sicure o all’oro perché protegge in caso di crollo dei sistemi finanziari (?!?).

Un bravo investitore dovrebbe invece chiedersi: “Perché dovrei avere questo investimento?” E decidere di soprassedere se la risposta non è sufficientemente convincente.

Purtroppo, di nuovo, questa non è la strada scelta dalla maggior parte dei gestori dei fondi comuni: ossessionati dalla performance relativa e dal rischio di rimanere indietro rispetto al benchmark, la loro risposta è troppo spesso di investire in qualcosa perché è di moda, perché così fan tutti e perché nessuno è mai stato licenziato per essere stato nella media (e mediocrità) di tutti i gestori.

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