[Tao: letteralmente la via o il sentiero; spesso tradotto
come il principio, è uno
dei principali concetti della filosofia cinese. È l'eterna, essenziale e
fondamentale forza che scorre attraverso tutta la materia dell'Universo. Per
dirla in una parola, il Tao "è".]
Una delle cose che mi capita più spesso nel discutere la mia
filosofia di investimento è di difendere
le mie convinzioni. Questo post è un tentativo di descrivere ed
approfondire alcune mie certezze riguardo
i mercati finanziari.
Tuttavia, prima di imbarcarmi in questo esperimento, ritengo che
valga la pena fare una domanda che purtroppo non viene chiesta abbastanza
spesso, ovvero: qual è l’obiettivo dei
nostri investimenti? Ognuno risponderà a questa domanda a modo proprio, e
non è certamente mia intenzione convincere altri che la mia metodologia è la migliore
in assoluto: va bene per me, per le mie caratteristiche ed i miei obiettivi; chi
ha altre caratteristiche finanziarie e psicologiche fa benissimo a seguire strategie diverse.
La mia personale risposta alla domanda precedente è molto
semplice: usando le parole di Sir John Templeton, “For a long-term investor, there
is only one objective – maximum total returns after taxes”. Ovviamente,
nel mondo moderno dominato dai supermercati
di fondi e dalla prevalenza della performance
relativa, un concetto semplice come questo viene spesso ignorato nelle
linee guida degli investimenti. Anche perché vedere il mondo attraverso queste
lenti ci evita di finire continuamente nell’ossessione delle moderne teorie di
portafoglio come i concetti di alpha
e beta (per chi fosse interessato ad
un’eccellente trattazione dei limiti del CAPM e dei concetti di alpha/beta, ho messo qui alcune considerazioni di James Montier).
[Addendum:
notate anche la falsa credenza promossa da chi usa i concetti di Markowitz: “La MPT induce gli investitori a
diversificare, quindi è meglio che niente. Sbagliato! La MPT spinge ad ottimizzare,
quindi ad investire più di quanto si dovrebbe. Non porta ad assumersi un
rischio inferiore basata sul concetto di diversificazione, ma piuttosto ad
avere più posizioni di quelle che si dovrebbe per la percezione di proprietà statistiche
che si compensano – i.e. basse correlazioni.]
Date queste premesse, la questione diviene, quindi, come investire per ottenere il risultato auspicato
da Sir John Templeton? Questi sono i punti cardine della mia strategia.
#1: Value, value, value
Al centro del mio approccio vi è la ferma convinzione che il prezzo pagato per un investimento
determina il rendimento futuro. Nessun asset
è così “buono” da essere immune dal rischio di sopravalutazione, e pochi asset sono così “pessimi” da sfuggire alla
possibilità di una sottovalutazione. Ogni
titolo può essere un buon investimento ad un prezzo ma non esserlo ad un altro prezzo.
La chiave è nella separazione dei concetti di prezzo
e valore (price e value),
rifiutando così esplicitamente l’efficienza dei mercati, dove invece prezzo e
valore coincidono sempre.
Per me, il value investing
(nella sua accezione più ampia) è l’unico approccio nel quale il risk management è al primo posto:
mettendo il concetto di margine di
sicurezza al centro del processo di investimento, minimizza il rischio di
pagare troppo. Ogni investimento dovrebbe essere acquistato solo se presenta un
sufficiente margine di sicurezza: la
stima del valore intrinseco si rivelerà esatta al 100% solo per caso,
quindi comprare con un significativo sconto su questa stima ci protegge nel
caso in cui si sia in errore.
Ovviamente, il concetto di risk
management non è quello proposto, spesso senza nemmeno capirlo, dai venditori
di prodotti di investimento, ma piuttosto la perdita permanente del capitale. Gli investitori value cercano di mitigare proprio il rischio di valutazione (pagare troppo
per qualcosa) e si focalizzano su cercare di capire il rischio di business che si assumono. E questo è un concetto assoluto, non relativo: dire che qualcosa è un buon investimento solo perché è
più a buon mercato di qualcos’altro è la ricetta per un disastro. La sola
variabile che importa è il rapporto tra prezzo pagato e valore intrinseco.
#2: Contrarian
Come aveva già
notato J.M. Keynes, “The central
principle of investment is to go contrary to the general opinion, on the
grounds that if everyone agreed about its merit, the investment is inevitably
too dear and therefore unattractive.”
Oppure, ritornando a Sir John Templeton, “It
is impossible to produce superior performance unless you do something different
from the majority.”
Seguire un approccio di tipo value
porta quasi necessariamente ad avere un atteggiamento contrarian, perché si comprano gli asset che sono poco amati e si vendono quelli preferiti dal
mercato. Vari studi dimostrano che le azioni che i fondi comuni vendono
hanno poi una migliore performance di quelle che sono impegnati a comprare
(chi fosse interessato ad una trattazione dettagliata può vedere: Dasgupta, Prat and Verardo, “The Price of Conformism”, working paper,
2005). Questo perché in media gli analisti non sono interessati a capire il
concetto di valore, ma sono piuttosto focalizzati sulle performance relative di
breve periodo: le tipiche azioni con un rating “strong buy” sono costose
in termini di P/E, hanno bassi dividendi ed alti multipli del prezzo rispetto a
fatturato e cashflows; hanno inoltre
elevate aspettative per quanto riguarda la crescita degli utili nel lungo
periodo e hanno fatto molto bene negli ultimi 12 mesi (fattore momentum). Come del resto gran parte dell’industria degli investimenti, gli
analisti sono concentrati solo su quello che accadrà nei prossimi mesi. E
questo porta a domandarsi quale sia l’utilità delle centinaia di pagine di
ricerca che producono se tutto quello che fanno è rincorrere i rendimenti degli
ultimi mesi…
#3: Pazienza
Anche essere pazienti è una caratteristica peculiare di un
approccio value. La sottovalutazione di
un asset è spesso causata da
trascuratezza o pregiudizi che possono persistere per un lungo periodo, e lo
stesso accade per prezzi gonfiati da eccessivo ottimismo o stimoli artificiali.
Ogni volta che si prende una posizione non si può mai essere certi
se questa funzionerà oppure no. Comprare qualcosa a prezzi scontati aiuta ad
avere migliori rendimenti nel lungo periodo, ma non ci dice niente sulle prospettive di breve termine. Un’azione
sottovalutata può diventare ancora più a buon mercato, mentre una sopravalutata
può diventare sempre più costosa. Di conseguenza, la pazienza è necessaria.
Una investimento con caratteristiche value può infatti portare a tre risultati:
- il mercato corregge la sottovalutazione ed il prezzo aumenta verso il valore intrinseco
- l’azione rimane sottovalutata ma genera lo stesso rendimenti sufficienti, ad esempio attraverso il pagamento di sostanziosi dividendi
- il prezzo non recupera mai ed anzi i fondamentali peggiorano (value traps).
Quindi la pazienza è un pre-requisito nei primi due casi (anche
perché la maledizione dei value investors è di entrare troppo
presto), ma un problema nel terzo.
Anche in questo casi vari studi dimostrano la validità di questo
approccio. Su un orizzonte temporale di un anno, il 60% del rendimento totale
viene da cambiamenti nella valutazione, ovvero fluttuazioni casuali del prezzo
sulle quali nessuno può sapere niente in anticipo. Tuttavia, se si allunga
l’orizzonte temporale, i fondamentali prendono il sopravvento: su un orizzonte
di cinque anni, 80% del rendimento totale è dato dal prezzo pagato e dalla
crescita del business sottostante (i.e.,
le fluttazioni casuali del prezzo hanno meno rilevanza).
Nonostante questo, la pazienza non sembra essere in cima ai
pensieri della maggior parte dei gestori. Il turnover medio dei portafogli
azionari dei fondi comuni è oggi del 120%, cioè un’azione viene tenuta in portafoglio in media per circa 10 mesi. I
gestori dichiarano che la loro strategia è basata sulle aspettative future
delle aziende nelle quali investono, ma non hanno nemmeno la pazienza di
aspettare 12 mesi per vedere se le loro previsioni si sono effettivamente
rivelate corrette: in questa situazione, la loro unica preoccupazione è cosa
succederà agli utili e dove andranno i tassi d’interesse, il prezzo del petrolio,
il PIL, … nei prossimi tre mesi. Questo
focus sui risultati di breve termine va anche contro le loro dichiarazioni di
valutare le perfomance sul lungo periodo.
#4: Niente
previsioni
Il peggio vizio dell’industria degli investimenti è quello di mettere le previsioni al centro del processo di investimento. E questo nonostante decine di studi dimostrino come le persone non sono capaci di fare previsioni accurate con costanza, soprattutto in campo economico e nemmeno nel loro settore di specializzazione (anzi: gli esperti in genere sono solo più sicuri delle loro previsioni, non più accurati).
Il peggio vizio dell’industria degli investimenti è quello di mettere le previsioni al centro del processo di investimento. E questo nonostante decine di studi dimostrino come le persone non sono capaci di fare previsioni accurate con costanza, soprattutto in campo economico e nemmeno nel loro settore di specializzazione (anzi: gli esperti in genere sono solo più sicuri delle loro previsioni, non più accurati).
L’ossessione
per le previsioni deriva in parte da un amore profondo per l’efficienza dei
mercati: se i mercati sono efficienti, l’unico modo per fare meglio degli altri
è sapere qualcosa in più. Può sembrare paradossale mettere assieme nella stessa
frase mercati efficienti e gestione attiva, ma questo ragionamento è invece
coerente con la EMH (Efficient Markets
Hypothesis), perché secondo questa l’unico modo per battere il mercato è
sapere qualcosa che non è ancora inclusa nel prezzo (informazioni non
pubbliche). Il modo più diretto per sapere qualcosa più degli altri e quindi
anticiparli è essere più precisi nelle previsioni su cosa succederà in futuro.
Molti
investitori ritengono pertanto che il loro ruolo sia di spendere tempo ed
energia cercando di essere più intelligenti degli altri: cosa farà il prossimo
mese la Federal Reserve; quando vendere i titoli ciclici per comprare quelli
difensivi; come aggiustare la duration
per anticipare i movimenti nei tassi d’interesse; quando il mercato cambierà da
risk-on a risk-off; quale sarà il prezzo dell’oro tra 6 mesi; etc… Decine di
studi dimostrano tuttavia come gli investitori siano in genere incapaci di fare
previsioni macroeconomiche accurate, per non parlare della competenza nel
determinare esattamente quando avverranno i cambiamenti. Quindi cominciare il
processo di investimento basandosi su previsioni, spesso di breve periodo, è
come correre una maratona su una gamba sola.
Gli
investitori dovrebbero re-indirizzare i loro sforzi oltre le previsioni: avere
un esercito di economisti ed analisti che produce anticipazioni sul futuro è,
nel migliore dei casi, una perdita di tempo. Esiste una ragione precisa per il
fatto che sono chiamati analisti e
non chiaroveggenti: il loro compito dovrebbe
essere analizzare, capire e valutare
un investimento, non cercare di predire il futuro. Le loro capacità sarebbero utilizzate
meglio se cercassero di studiare il presente per determinare cosa questo possa implicare
per il futuro, piuttosto che fornire agli investitori una sorta di falsa ancora
a cui aggrapparsi.
#5: I cicli sono importanti…
Questo
vale anche per gli investitori di lungo periodo. Come ricorda Howard Marks: “We may not be able to predict, but we can prepare”.
Spesso
si sente dire che i mercati finanziari sono guidati da euforia e panico (greed e fear), ma solo uno di questi è presente in ogni singolo momento ed
i mercati oscillano tra entusiasmo eccessivo e depressione profonda. Non si può
prevedere in quale stato Mr. Market sarà tra qualche mese, ma sicuramente si
può valutare in quale situazione siamo al momento, e comportarsi di
conseguenza.
#6: … ma la storia lo è ancora di più
Se c’è una cosa sulla quale possiamo contare negli investimenti è
che la storia si ripete, spesso anche più volte. È un’innata caratteristica
umana ripetere alcune caratteristiche psicologiche, e tutte le bolle seguono
uno schema più o meno prefissato:
- Dislocamento e nascita del boom: uno shock esogeno crea nuove opportunità di profitto in alcuni settori e gli investimenti finanziari si orientano verso di essi.
- Creazione del credito: un boom ha sempre bisogno di liquidità di cui nutrirsi; l’espansione monetaria è favorita dal sistema bancario ma anche da nuove strumenti e dall’uso della leva.
- Euforia: tutti comprano questa nuova idea, la bolla diviene la nuova norma: all’inizio i prezzi vanno sempre e solo in su. I metodi tradizionali di valutazione sono sostituiti da nuove misure per giustificare il prezzo corrente; ottimismo e fiducia pervadono i mercati: le persone sovrastimano i potenziali guadagni, sottostimano i rischi ed ingannano sé stessi sulla possibilità di controllare la situazione.
- Fase critica: gli insiders cominciano a monetizzare i loro investimenti ed iniziano le prime difficoltà finanziarie (debito eccessivo accumulato nel periodo di boom); emergono le prime frodi.
- Revulsione: gli investitori sono spaventati e non partecipano più in nessun mercato. Le attività sono a prezzi di saldo e le valutazioni molto basse (venditori forzati).
#7: Scetticismo
Uno degli elementi caratteristici dei migliori investitori è un
certo grado di scetticismo.
L’investitore medio (e purtroppo mediocre) si chiede: “Perché non dovrei avere questo investimento?”. Esempi tipici
sono un’allocazione alle obbligazioni governative perché sicure o
all’oro perché protegge in caso di crollo dei sistemi finanziari (?!?).
Un bravo investitore dovrebbe invece chiedersi: “Perché dovrei avere questo investimento?”
E decidere di soprassedere se la risposta non è sufficientemente convincente.
Purtroppo, di nuovo, questa non è la strada scelta dalla maggior
parte dei gestori dei fondi comuni: ossessionati dalla performance relativa e
dal rischio di rimanere indietro rispetto al benchmark, la loro risposta è troppo spesso di investire in
qualcosa perché è di moda, perché così fan tutti e perché nessuno è mai stato
licenziato per essere stato nella media (e mediocrità) di tutti i gestori.
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