Mercati
emergenti
Qualche giorno fa ho pubblicato un post sui mercati
emergenti (Investire nei mercati emergenti e di frontiera).
Il timing della pubblicazione non voleva essere assolutamente in relazione con l’andamento
di questi mercati nell’ultimo mese, né tantomeno un’idea di market timing in un senso o nell’altro
(“Continuate a vendere, il crollo è solo
all’inizio!” oppure “I prezzi sono
scesi molto, è l’ora di cominciare a comprare!”): si è trattato di una
coincidenza, visto che ho cominciato a raccogliere i dati ed analizzare alcuni
dei titoli menzionati nel post addirittura la scorsa estate.
Come ripetuto più volte, non ho la minima idea di dove andranno i mercati nei prossimi mesi e
nei miei investimenti non cerco mai di comprare ai minimi, e nemmeno sperando
in un rimbalzo tecnico: mi piacerebbe, ma non ne sono capace (e chiunque
affermi che è in grado di farlo in maniera continua è un [omissis]!)
Piuttosto, ritengo importante ripetere una considerazione
fatta nel post, che non è minimamente cambiata a seguito degli eventi recenti: se l’interesse degli investitori
per i mercati emergenti e di frontiera è la storia secolare di crescita (sottolineo se, perché
l’interesse potrebbe essere di altro tipo: diversificazione, esposizione a
trend e/o settori differenti da quelli disponibili in Europa ed US, minore
efficienza, …), non c’è nessuna fretta di entravi (o, allo stesso modo) di
uscirvi. L’investimento dovrebbe essere visto in un’ottica di medio-lungo
periodo e la considerazione principale dovrebbe essere sul prezzo pagato (=
valutazione). Pertanto, si può avere un’opinione negativa sull’evoluzione a
breve di questi paesi ed essere tuttavia positivi sulle loro prospettive di
lungo periodo. Di nuovo, questo non è assolutamente un invito al market timing in una direzione o l’altra.
L’idea che i mercati emergenti potessero sganciare le
proprie fortune economiche dai paesi sviluppati (il famoso de-coupling) ha cominciato ad essere citata quasi giornalmente a
partire dal 2007-2008, ed il momentum
ha spinto i mercati emergenti oltre la crisi dell’Eurozona fino ad almeno tutto
il 2012. Questo nonostante vari elementi segnalassero che EM non stavano – in
aggregato – facendo meglio di paesi come gli US, anzi era esattamente il
contrario: il crollo dei prezzi di molte materie prime, la riduzione degli
ordini nel settore dei capital goods,
l’implosione del Brasile e dell’impero di Eike Batista, … Nonostante questo, il
mito dei consumatori nei paesi emergenti
che avrebbero risollevato l’economia mondiale e la trasformazione di queste
nazioni da economie basate sugli investimenti (che, con l’eccezione della Cina,
provengono quasi esclusivamente
dall’estero) in economie basate sui consumi come quelle occidentali sono
concetti che sono stati spinti ossessivamente dall’industria degli
investimenti.
Oggi, invece, gli investitori sembrano sorpresi che il de-coupling sia stato, tranne rari casi, più una speranza che un fatto reale.
E di nuovo vediamo come l’umore del mercato possa oscillare in maniera spesso irrazionale
da un estremo all’altro: oggi EM sono nel pieno panico e l’ordine è di vendere;
mentre le azioni europee, indicate due anni fa come senza speranza, sono viste
oggi come la classe con le maggiori opportunità (nonostante siano molto più
care di due anni fa…).
In perfetto stile contrarian, questo è proprio il momento nel
quale le valutazioni (soprattutto tra le mie amate small-caps) stanno diventando costose, e quindi è l’ora di
cominciare a guardare in maniera molto
selettiva ad una maggiore esposizione ad EM. Tuttavia, un investitore contrarian dovrebbe sempre essere ben
conscio del rischio di essere in anticipo, sia nell’entrare che nell’uscire,
ovvero l’esatto opposto degli investitori momentum.
Dal punto di vista psicologico, la maggior parte degli investitori sono infatti
alla ricerca di una gratificazione
istantanea: se comprano un’azione, vogliono che il prezzo cominci subito a
salire in modo da avere un feedback positivo immediato sulla loro scelta (“Visto, avevo ragione!”). Sono pochi quelli
che riescono ad ignorare la volatilità, soprattutto quando vedono scendere il
prezzo di un nuovo investimento. Anche per gli investitori istituzionali c’è
una sorta di imperativo a seguire il momentum
del mercato, perché questo fa sembrare soddisfacente la performance nel breve
periodo, e spesso questa è la sola cosa che conta.
Tornando ai mercati emergenti, vi sono vari modi di accedervi:
1) fondi/ETF con un’esposizione diversificata per settore e/o paese; 2) società
domiciliate in EM ma trattate su mercati occidentali (ADRs/GDRs); 3) aziende
basate nei mercati sviluppati ma con significative operazioni in quelli
emergenti.
Personalmente, pur avendo qualche esperienza di
investimenti diretti nei mercati emergenti, non comprerei mai un’azione cinese/indiana/russa/brasiliana/…
senza avere la minima idea di come funzioni il mercato locale e le dinamiche
del settore in cui opera, perché questo sarebbe un puro azzardo. Allo stesso
modo evito in tutti i modi quello che potrebbe per molti sembra essere un accettabile compromesso, come ad
esempio aziende cinesi quotate in Germania, UK o US. L’approccio diversificato
tipico di fondi ed ETF ha anch’esso degli svantaggi, in particolare che spesso
non si riesce a capire quale sia la reale esposizione sottostante, e che la
diversificazione in sé e per sé non protegge certo dalle oscillazioni violente
di questi mercati né dalla sopravvalutazione.
Questo mi lascia con una sola alternativa (meglio, due:
l’altra sono gli investment trust), ovvero ricercare aziende - in particolare
europee - con una significativa
esposizione ai consumatori nei mercati emergenti (il tema di lungo periodo preferito),
anche se si tratta di una esposizione solo indiretta come ad esempio nel caso
di TFF.
Un’ultima considerazione: la mia (pur limitata)
esperienza mi suggerisce che i periodi di boom
e di bust in EM tendono ad essere più
lunghi di quello che molti pensano. Per tornare al punto iniziale, non vedo
nessuna urgenza al momento di saltare in questi mercati. Dall’altro alto, è quasi
impossibile identificare i minimi dei mercati: quindi, chi trovasse qualcosa con l’esposizione giusta alla valutazione giusta
farebbe bene ad evitare considerazioni di market
timing. E questo è quello che cercherò di fare in maniera più
continuativa nei prossimi mesi, oltre a cercare identificare i pochi assets sottovalutati rimasti in Europa.
Questo potrebbe voler dire perdere parte del continuo rialzo in Europa e/o una perdita
temporanea sui nuovi investimenti. Ma questo è esattamente quello che vuol dire
essere contrarian.
Currency
hedging
Un argomento collegato al precedente è quello della
copertura degli investimenti non denominati nella propria valuta domestica.
A seguito del crollo delle valute dei paesi
emergenti molte SGR stanno martellando ancora di più con quanto siano buoni i
loro prodotti con copertura del cambio, non solo per i mercati emergenti
ma anche per le azioni americane o giapponesi. Purtroppo, come spesso avviene nel campo del
risparmio gestito, i prodotti hedged vengono venduti come se avessero tutti
i vantaggi e nessun costo.
Cominciamo con un punto che molti non vogliono
capire, o fanno finta di non capire: la copertura valutaria non elimina il
rischio di cambio. Il
vantaggio principale è nella riduzione della volatilità di breve periodo, che
può essere importante se non – purtroppo - la caratteristica principale per
molti investitori. Ma questo avviene ad un costo spesso elevato, tralasciando
per semplicità i costi di transazione, che sono minimi per le valute più
liquide ma spesso esorbitanti per altre valute, ammesso che queste abbiano gli
strumenti di copertura adatti, ed in molti casi (i.e., EM) non è assolutamente così.
L’hedging è fatto tipicamente con contratti forward ad un mese (alle volte a tre/sei mesi): se i tassi d’interesse
nella valuta che si vuol coprire sono più alti rispetto alla valuta domestica (e
questo è il caso tipico delle valute emergenti vs. euro), il forward
tratta a premio e quindi l’investitore che vende le valute forward blocca immediatamente una perdita. In questo tipo di hedging si sa il valore a termine delle
posizioni in valuta non-domestica, quindi si riduce - almeno per un certo
periodo - la volatilità dei rendimenti. Quello
che non si sa è se questa scelta sarà vincente o perdente dal punto di vista
dei rendimenti. E dopo un mese, quando si deve fare il roll-over delle posizioni, se i tassi di cambio e/o d’interesse si
sono mossi in maniera significativa si è mosso anche il valore delle posizioni
da coprire, il loro costo, …
Per un’allocazione strutturale e di lungo
periodo, occorre considerare che i tassi di cambio sono molto ciclici
(anche in EM), mentre i costi per la copertura sono pressoché costanti, in
quanto i tassi d’interesse nelle valute emergenti sono normalmente ben più alti
rispetto all’Eurozona. Per questo motivo si
rischia di pagare per anni una copertura che serve a poco o nulla, in
quanto il cambio prima o poi tende a tornare al punto di partenza. In altre
parole, per ridurre la volatilità di breve dei tassi di cambio si finisce per neutralizzare
l'effetto positivo delle cedole più alte, ovvero si ha il rischio di credito
dell’Indonesia a rendimenti non troppo superiori alla Germania…
Per
quello che riguarda gli investimenti azionari, la mia regola di base è di non coprire l’esposizione valutaria per
azioni non denominate in euro. Il motivo è che spesso non ho idea di quale sia
il valore esatto da coprire. Prendete il caso di Nestlè: un’azienda svizzera,
domiciliata in Svizzera e quotata in CHF in Svizzera. Ma la stragrande maggioranza
dei suoi profitti è denominata in euro, dollari e varie valute asiatiche;
inoltre ha debito denominato in franchi, euro, dollari, sterline ed in molte valute
locali dei paesi emergenti in cui opera. Determinare l’esatta sensitività (e
quindi l’hedge) ai movimenti nei
tassi di cambio è molto difficile.
L’idea
di base della mia strategia è di identificare buoni business con un management
onesto che possa tenere per 5 anni o più. Questa idea sembra semplice, ma non
così facile da mettere in pratica: pensate a quante aziende o interi settori
sono scomparsi negli ultimi trent’anni. Il vantaggio di questa strategia ed il
motivo per il quale si adatta alle mie personali caratteristiche di investitore
è che mi forza a riflettere sul business
sottostante: quello che cerco sono business durevoli, (relativamente)
stabili e con un’elevata capacità di generare profitti (earning power). Ma non mi interessa minimamente se il prezzo è
quotato in euro, dollari o Special
Drawing Rights; mi interessa che il business continui a produrre profitti e
che questi possano essere usati per fare cose reali (tipo pagare l’università
ai figli o comprare una casa per le vacanze). Non ho la minima idea di quale
sarà il valore del dollaro tra 10 anni, quindi che il prezzo sia quotato in
dollari non è importante. Quello che importa sono i servizi ed i beni reali che
i profitti e gli assets sottostanti
possono comprare tra 10 anni.
Dopo
averci riflettuto molto, ho bisogno di
un argomento molto solido per deviare dall’opzione di default di “own the stock, own the currency”.
Frase della settimana
"Chi ha cominciato ad investire nel 2010/2011 pensa che lo stock-picking sia la cosa più facile del mondo. Non lo è. (Blogger anonimo)"
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