Dopo
averli introdotti in due post precedenti (qui e qui),
ancora alcune considerazioni sui mercati emergenti, questa volta di carattere
macroeconomico. Il prossimo post sarà invece dedicato ad un’idea di investimento specifica.
Il
dibattito sui mercati emergenti in questi giorni è centrato sulla seguente
domanda: le dinamiche attuali porteranno
ad una ripetizione della crisi del 1997-1998 o questa volta gli EM sono maggiormente
protetti da una situazione macroeconomica differente?
Osservando
i parametri economici attuali di questi paesi rispetto a 15 anni, la
conclusione di molti analisti è che in realtà non siano così vulnerabili, e di
conseguenza il recente sell-off è
eccessivo. Questo punto solleva anche un’altra domanda: quale crollo? L’indice
azionario MSCI EM in USD è sceso del 10% da inizio anno e del 21% dai massimi
del 2011, mentre un indice di obbligazioni in valuta locale è diminuito,
rispettivamente, di 1% e 12%. Dati in controtendenza rispetto ai paesi
sviluppati, ma non certo da diffondere il panico nei mercati.
Questa
analisi non è tuttavia completa: ci sono differenze significative tra i
fondamentali odierni di molti paesi emergenti e la situazione precedente alla
crisi del 1997-1998, questo però non
vuol dire che EM non abbiano problemi seri o che l’aggiustamento economico sarà
veloce ed indolore.
Due
conclusioni espresse nei post precedenti rimangono quanto mai importanti:
- I periodi di boom e di bust in EM tendono ad essere più lunghi di quello che molti pensano (o sperano)
- A livello globale, le scelte di asset allocation saranno sempre più dettate sia dalla scelta dei singoli paesi (country picking) che dei singoli investimenti (stock picking): questo vale per i paesi sviluppati e – a maggior ragione – per gli emergenti.
Leggendo qua e là i report ed i consigli su cosa fare, purtroppo, si incappa in alcune views che sono molto superficiali e quindi pericolose da prendere come verità assolute.
Convinzione #1: le valutazioni nei mercati emergenti sono scese molto e già scontano prospettive negative
Questa
affermazione è corretta se guardiamo in maniera generica alle valutazioni
degli indici azionari, per i quali i multipli P/E e P/BV sono vicini ai minimi
toccati nel 2002 e nel 2008. Tuttavia questo maschera l’enorme divergenza di valutazioni che oggi presenti nell’universo
di EM.
Il
P/E mediano per l’universo di EM è oggi 20x, mentre il P/CE (price-to-cash earnings) mediano è
di 12x, entrambi superiori allo loro medie storiche di 16x e 10x,
rispettivamente. Un P/E mediano di 20x significa che metà delle aziende
ha un P/E superiore a 20x, che non è certo una valutazione a sconto.
Considerazioni simili possono essere fatte anche per P/BV e dividend yield.
Fonte: BCA Research su dati
MSCI.
Le valutazioni mediane
in EM sono non solo costose rispetto alla loro storia, ma anche rispetto ai
mercati sviluppati (mentre vale l’esatto opposto se si
considerano i multipli utilizzando la media ponderata, come espresso anche
nella tabella nel post precedente):
solo il P/BV in EM è ha sconto rispetto ai paesi sviluppati.
Fonte: BCA Research su dati
MSCI.
Come
si spiega questa discrepanza tra multipli medi e mediani? La risposta è semplice:
i settori maggiormente rappresentati
negli indici EM trattano tutti a basse valutazioni. Questi includono ad
esempio le banche cinesi, il settore energetico in Russia e Brasile, il
segmento minerario e quasi tutte le SOE (state-owned
enterprises). Questi settori non sono delle vere opportunità value, quanto piuttosto delle value traps:
sono cioè cheap per un motivo. E queste ragioni sono facili da elencare:
scarsa capacità del management, interferenze dei governi, esposizione al ciclo
delle commodities quando i prezzi di
questi sono in diminuzione, pessima qualità degli asset bancari in paesi come Cina, Brasile, Turchia, India… Escludendo questi settori, le valutazioni del
resto del mercato sono invero molto elevate.
Tipicamente,
quando si verifica una dislocazione nei mercati finanziari, le valutazioni
tendono a muoversi oltre il loro valore equo in entrambe le direzioni (overshooting/undershooting): dato il
deterioramento delle condizioni economiche in molti EM, è probabile che le
valutazioni debbano scendere ancora (undershooting),
soprattutto rispetto ai paesi sviluppati,
prima di essere sicuri di essere al punto più basso.
Conclusioni:
le valutazioni in EM non sono così a prezzi di saldo come molti assumono. Il
mercato ribassista potrà finire solo quando le valutazioni saranno più basse su
un’ampia gamma di paesi e settori.
Convinzione #2: la crisi del 1997-1998 fu dovuta a deficit delle
partite correnti ed elevato debito pubblico, sopratutto in valuta estera; nessuna
di queste condizioni prevale oggi
È
sicuramente vero che a partire dalla seconda metà degli anni 1990 molti paesi
emergenti cominciarono ad avere un deficit delle partite correnti non
sostenibile, che i paesi asiatici avevano significativi debiti denominati in
valuta estera e che quelli dell’America Latina (così come la Russia) avevano
eccessivo debito pubblico, e senz’altro tutti questi fattori contribuirono allo
scoppio della crisi e del suo contagio.
Tuttavia,
il fatto che oggi gli EM non siano nelle stesse condizioni non vuol dire che
siano esenti da problemi o eccessi. Come già successo per i paesi sviluppati
nel 2008, il problema più pressante oggi per EM è il livello del debito
privato, che è cresciuto troppo (e soprattutto
troppo in fretta). Stime dell’International
Monetary Fund (IMF) e della Bank for
International Settlements (BIS) indicano che il livello di debito privato in
un sotto-insieme delle 16 principali economie emergenti è salito da $5 trilioni
nel 2005 a $29 trilioni nel 2013, con un aumento di $17 trilioni dal solo 2009
(questi numeri includono il debito sia in valuta domestica che estera per
famiglie ed aziende, ad esclusione delle banche). La sola Cina è responsabile per
$18 trilioni di questo debito totale (ovvero il 200% del PIL nazionale), con un
incremento di $12 trilioni dal 2009. Questi valori sono oggi superiori a quelli
degli US.
Fonte: BCA Research.
Al
centro della crisi asiatica del 1997-1998 ci fu lo squilibrio delle aziende
asiatiche che avevano finanziato i loro investimenti (molti dei quali senza
senso) con debito in valuta estera. Quando gli investitori esteri realizzarono
che i rendimenti attesi erano in realtà molto bassi, si ritirarono in fretta ed
il sistema finanziario asiatico crollò. Oggi al centro del problema c’è la
cattiva allocazione del capitale in Cina: la differenza è che questi
investimenti sono finanziati con
capitale domestico, e quindi il sistema si regge sui risparmiatori cinesi (famiglie,
intermediari finanziari ed aziende con surplus di liquidità). Se e quando i
creditori cinesi si stancheranno di finanziare debitori non affidabili, i
problemi del paese diverranno evidenti.
Dall’altro
lato, paesi come Brasile e Turchia, pur con livelli di debito molto inferiori
alla Cina, sono ancora troppo esposti agli investimenti dall’estero, che
possono evaporare molto velocemente.
Conclusioni:
il debito del settore privato in EM è cresciuto troppo. Se aggiungiamo che i
rendimenti del capitale in molti di questi paesi stanno invece diminuendo (troppi soldi che inseguono rendimenti marginali),
la conseguenza sarà un deleveraging forzato,
che porterà ad una riduzione dell’attività economica e (probabilmente) una
recessione. I prezzi delle attività (incluse le valute) in EM diminuiranno
ulteriormente per scontare queste prospettive.
Convinzione #3: nel 1997-1998 i paesi emergenti avevano limitate riserve
in valuta ed i tassi di cambio erano legati al dollaro; oggi invece hanno
enormi riserve valutarie e cambi flessibili
Non c’è
dubbio che un cambio flessibile sia migliore di uno fisso, in quando la svalutazione agisce come ammortizzatore
degli shock economici. L’idea è che gli EM dovrebbero oggi soffrire un
aggiustamento economico più graduale e meno doloroso di quanto accaduto nel
1997-1998. Questo è vero, a patto però che questi paesi non si siano indebitati
in valuta estera, nel qual caso la svalutazione della moneta domestica potrebbe
causare fallimenti in serie tra chi è indebitato in valuta estera.
Inoltre,
con la svalutazione delle valute emergenti, gli investitori esteri che
detengono assets in questi paesi
vedono diminuire il loro valore. Anche se le obbligazioni emesse in valuta forte
(USD e EUR) non hanno un esplicito rischio di cambio, i loro spread del credito tendono tipicamente
ad aumentare quando i tassi di cambio in EM si indeboliscono. In ultima
istanza, un cambio flessibile non è una panacea per gli investitori internazionali,
perché questo non protegge completamente
il valore dei loro investimenti quando misurato in USD o EUR.
Conclusioni:
molte banche centrali in EM hanno le risorse per difendere le valute domestiche
(o per politiche monetarie che favoriscano l’aggiustamento dell’economia), ma
questo a scapito o dell’economia stessa (se difendono i tassi di cambio) o dei
mercati azionari/obbligazionari (se preferiscono favorire l’economia in
aggregato). Non si può avere tutto allo stesso tempo.
Convinzione #4: i problemi in EM sono strutturali, ma la ripresa
economica nei paesi del G7 li aiuterà a risollevarsi
La
nozione che i mercati emergenti, dopo essersi cullati sui successi degli ultimi
anni, necessitino oggi di interventi strutturali è abbastanza diffusa. Che sia
la ripresa nei paesi sviluppati (molti dei quali ancora faticano a sistemare le
proprie economie) a salvarli da questa situazione è una conclusione tutta da
verificare.
Oggi la
crescita dei paesi emergenti è molto più legata a variabili interne a questo gruppo di nazioni rispetto al passato,
quando i legami con i paesi sviluppati erano molto più forti. Ad esempio, più
del 40% delle esportazioni dei paesi emergenti è diretta oggi verso altri EM, mentre
nel passato esportavano quasi esclusivamente ai paesi del G7. Se le esportazioni
verso gli altri EM si contraggono, sarà necessario un boom delle importazioni
da Europa ed US per mantenere la produzione ai livelli recenti, ma al momento questa non sembra essere la
strada più probabile.
Conclusioni:
la crescita economica in EM è a rischio non per quello che succede in
occidente, ma per i fondamentali di questi paesi. Ed al centro di questa
situazione si trova (di nuovo) il deterioramento del ciclo del credito in
EM.
Particolarmente
esposti potrebbero essere i beniamini di molti investitori, quei BRICs che fino a pochi anni fa
sembravano inarrestabili dal punto di vista sia politico che economico: questi
paesi sono stati proclamati come i nuovi dominatori del 21esimo secolo ed hanno
sovraperformato fino alla crisi (2002-2008), ma sottoperformato – per motivi
diversi – da quel momento.
Questi
paesi devono affrontare oggi delle nuove sfide. L’India è strozzata dalla
burocrazia e dalla inadeguatezza delle sue infrastrutture. La Russia ha
cominciato a perdere il suo quasi-monopolio sul gas naturale a seguito della shale revolution in US. In Cina i salari
sono sempre bassi ma sono esplosi (+400%), ed oggi subisce la concorrenza di
Indonesia, Vietnam e Filippine. Il Brasile ha puntato quasi tutto sulla
crescita cinese ed è quindi inesorabilmente legato al suo successo. In tutti
questi paesi, infine, le presunzioni di
maturità e stabilità politica sono oggi rimesse sotto esame.
Per
la prima volta in una decade, i vantaggi
competitivi dei BRIC non sono più dati per scontati: il gap in termini di
costi con l’occidente si è ridotto, la Cina non è più la fabbrica per il resto
del mondo ed US ed Europa stanno riportando a casa quegli investimenti che
invece avevano precedentemente outsourced
ai mercati emergenti (per mancanza di lavoratori qualificati in questi paesi,
per la miglior produttività dell’occidente, per la scarsa protezione su marchi
e proprietà intellettuali, …).
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