martedì 3 febbraio 2015

Rendimenti dei mercati azionari (parte II)

La domanda che tutti continuano a porsi è: dopo alcuni anni di rendimenti positivi nei mercati azionari, cosa dobbiamo aspettarci da qui in avanti? Per chi è interessato ad una visione di lungo periodo, ripartiamo dal post precedente

Innanzitutto, facciamo una distinzione tra quello che possiamo aspettarci dal mercato in aggregato e dal portafoglio di stock-picking. Nel secondo caso i rendimenti sono (teoricamente) illimitati: si compra un’azione che va su del 20% in pochi mesi –molte lo fanno, in qualsiasi condizione economica -, si vende e si ripete il processo, garantendoci in maniera matematica di avere un rendimento del 50%+ all’anno senza problemi. Sappiamo però come questo sia difficile da fare, ed ancora di più da prevedere ex-ante.

Il mercato azionario in aggregato ha invece dei limiti ben precisi e molto reali nel lungo periodo, anche se nel breve può succedere quasi qualsiasi cosa: basta vedere i prezzi al picco del 2000 (P/E di oltre 40x per S&P 500) o ai minimi del 2009 (un terzo del P/E del picco). Ma nel lungo periodo il prezzo delle azioni segue quasi fedelmente gli utili prodotti dalle aziende, e questi sono una funzione dell’andamento dell’economia. Il grafico sottostante mostra ad esempio i dividendi pagati dalle aziende incluse nell’indice S&P 500 negli ultimi 55 anni (la linea arancione indica la crescita esponenziale).


Con soli 6 anni su 55 nei quali i dividendi sono diminuiti rispetto all’anno precedente (1970/1971, 2000/2001 e 2008/2009, tutti anni di recessione), la crescita annua composta in questo periodo è stata di 5,7%, un valore molto vicino a quello che ha fatto in termini nominali l’economia americana, appena superiore a 5% p.a. [Nota: l’indice S&P 500 è una buona approssimazione dell’economia americana aggregata, mentre lo stesso non vale necessariamente in altri paesi.]

Quindi nel lungo periodo il rendimento del mercato è dato da quello che viene pagato oggi in dividendi (circa il 2% in US, più vicino a 3% in Europa) più il tasso di crescita dell’economia (la terza variabile, come spiegato nel post precedente, è l’espansione del multiplo P/E, discussa in seguito). A meno che la struttura economica globale non cambi in modo radicale, nel lungo periodo il mercato non può rendere molto di più (o di meno) di questo.

Il valore indicato per la crescita economica del 5% è nominale, ed include circa 2% di inflazione. Oggi l’inflazione (almeno quella misurata dalle statistiche ufficiali) è universalmente inferiore, e due cose possono succedere: o rimane bassa per sempre, oppure torna alla sua media storica. Se dovesse rimane bassa per un lungo periodo, allora il tasso di crescita dell’economia sarà inferiore, ed il rendimento dei mercati azionari sarà anch’esso inferiore, ma solo in termini nominali: in termini reali sarà invece assolutamente lo stesso. Se invece la crescita reale sarà inferiore a 3% (nel 2014 è stata di 3,4%, nel 2015 è attesa in aumento), allora anche i rendimenti reali saranno inferiori. Nessuno sa con certezza cosa succederà, e questa è la differenza principale con le obbligazioni: se comprate un BTP decennale che oggi rende 1,6%, sapete esattamente che il vostro rendimento sarà 1,6% all’anno. [1]

Ovviamente, uno può aspettarsi di incrementare i rendimenti di base del mercato con una gestione attiva. Anche questo, però, è impossibile da prevedere a priori: le opportunità che si presentano ai gestori saranno differenti, alle volte ci saranno dei buoni affari, altre volte no. Ci sono tuttavia tre approcci che offrono (più o meno sistematicamente) risultati migliori del mercato in aggregato: value, momentum ed aziende “di qualità”.

Il value investing ha dimostrato nel corso del tempo la sua validità: consiste nel comprare qualcosa per il quale le aspettative non siano troppo ottimistiche, e quindi il prezzo sufficientemente contenuto. Il rischio sta nel comprare qualcosa che è a buon mercato per un motivo specifico e ben preciso. Ma con un po’ di cautela, l’evidenza dimostra che la strategia porta a buoni risultati. 

Il momentum è l’esatto opposto: l’idea non è di comprare qualcosa di poco costoso, quanto piuttosto quello il cui prezzo sta salendo. Molti studi hanno dimostrato che anche questa strategia funziona. Da investitore fondamentale, preferisco concentrarmi su profitti, assets e dividendi, piuttosto che puntare sulla possibilità di rivendere l’investimento a qualcun altro ad un prezzo superiore. Inoltre, per chi segue le strategie momentum, sapere quando uscire è più importante che sapere quando entrare.

Infine, c’è l’anomalia delle aziende di qualità, o a bassa volatilità: azioni che sono meno volatili della media, come gruppo fanno meglio del mercato. Questo contraddice uno degli assunti principali della teoria dei mercati efficienti, ma l’evidenza dimostra che è proprio così.

Un segmento del mercato nel quale non vi è invece alcun valore aggiunto è quello del market timing: è il momento giusto per comprare (vendere)? Il mercato correggerà presto? Dovrei forse aspettare? Se il timing è corretto, i risultati sono molto buoni, ed è per questo che così tanti ci provano. Ma farlo regolarmente è molto, molto difficile (ed i costi di transazione non sono marginali). Preferisco evitare.

Il ruolo del P/E
Dalla discussione fin qui è stato lasciato fuori il multiplo P/E, o meglio la sua espansione o contrazione. Il grafico sottostante, da uno studio di Bank of America Merrill Lynch, mostra la performance su intervalli di 12 mesi dell’indice MSCI World in valuta locale dal 1992. Questi rendimenti sono stati scomposti in due parti: 1) la variazione degli utili (in rosso) e 2) i cambiamenti nel modo in cui questi utili sono valutati (in grigio).


Quando il rosso domina l’area sopra lo zero, significa che i mercati azionari globali hanno avuto rendimenti positivi come conseguenza dell’aumento degli utili aziendali, che potremmo definire un mercato rialzista sano. Quando è il grigio a dominare la parte sopra lo zero, significa invece i rendimenti sono stati positivi a causa di un re-rating: il mercato è salito perché gli investitori erano disposti a pagare di più. In altre parole, è diventato più costoso, ed è un rialzo più pericoloso del precedente.

Nel corso del tempo si sono alternate differenti situazioni.

Primi anni 1990: andamento misto, ma è stato l’inizio di un periodo positivo per i mercati azionari, con un rialzo come anticipazione della ripresa degli utili che poi arrivò a fine 1993.

Metà anni 1990: la crescita degli utili aumentò e si mantenne stabile, ma la valutazione del mercato si contrasse (1994/1995) prima di tornare ad espandersi nel 1996. Fu un periodo di buone performance azionarie, guidate principalmente dagli utili e sostenute da una moderata crescita nelle valutazioni.

Fine anni 1990: qui ci spostiamo nella classica fase “late-stage bull market”, dove la crescita degli utili rallenta ma i mercati continuano a salire grazie al continuo re-rating: le valutazioni diventano sempre più costose, ed i mercati sono guidati dal sentiment piuttosto che dai fondamentali.

Inizio anni 2000: la bolla scoppia ed i mercati azionari hanno performance negative tra il 2000 ed il 2003. Questo è stato dovuto soprattutto alla drastica riduzione delle valutazioni, ma è stato aggravato anche da una qualche riduzione degli utili.

Metà anni 2000: dal 2003 al 2007 comincia un altro rally guidato dagli utili. Con il senno di poi, oggi sappiamo che gran parte di questa crescita è stata illusoria, il prodotto di credito facile, bassi tassi d’interesse e livelli eccessivi di debito. Questi eccessi hanno alla fine innescato la crisi finanziaria, che ha spazzato via la maggior parte della crescita precedente negli utili.

Fine anni 2000: i mercati hanno subito il secondo crollo  in una decade: è cominciato con il de-rating a partire dal 2008, per poi continuare con il crollo degli utili nel 2009. Questo è stato seguito da una rapida ripresa dei multipli a fine 2009, che ha anticipato il miglioramento negli utili in attesa di un “nuovo normale”. 

Primi anni 2010: a partire dal 2011, sopratutto in Europa, ci siamo accorti che la ripresa economica non era poi dietro l’angolo, ed i mercati azionari, pur in presenza di una crescita degli utili ancora positiva, hanno ridotto almeno in parte le valutazioni. 

Metà anni 2010 (oggi): quello che è più significativo è quello che è successo dal 2012 ad oggi: i mercati sono stati guidati dagli interventi delle banche centrali (re-rating del P/E), non dagli utili (in leggera contrazione), aprendo un gap tra le valutazioni ed i fondamentali.

Cosa succederà nei prossimi anni nessuno può dirlo, ma due strade sono possibili: o gli utili crescono (anche lentamente) fino a giustificare le valutazioni correnti, oppure – in assenza di ulteriori interventi delle banche centrali – i prezzi delle attività finanziarie rientrano fino a valutazioni più prudenti e giustificate dai fondamentali economici.

Sotto alcuni aspetti, anche se la situazione è differente, ci sono dei parallelismi con la fine degli anni 1990: anche in quel caso i mercati si scordarono che i fondamentali hanno un’enorme importanza. Dato che le valutazioni assolute sono però differenti (oggi sono molto meno eccessive), non è probabile un declino come quello che seguì la bolla Internet.

Ma allo stesso tempo bisogna anche essere realisti: la situazione attuale non giustifica aspettative molto ottimiste di rendimenti futuri elevati. I tassi d’interesse sono molto bassi, l’inflazione è bassa ed i multipli sono più o meno equi. Una gestione attiva di stock-picking può aiutare nel caso di mercati con bassi rendimenti (o anche in declino): ci sono aziende che hanno la capacità di prosperare anche in condizioni economiche difficili e che sono in grado di offrire una crescita stabile nei loro utili e dividendi.

[1] In realtà questo non è tecnicamente corretto: il rendimento atteso a scadenza (yield to maturity) è calcolato assumendo che tutte le cedole pagate siano reinvestite allo stesso tasso; se questo non accade (ad esempio per il pagamento delle tasse o perché le cedole sono spese) il rendimento effettivo ex-post sarà differente dal rendimento atteso al momento dell’acquisto (ed in genere inferiore).

2 commenti:

  1. E' la prima volta che capisco cosa c'è scritto in un suo articolo.
    Complimenti a lei per il suo miglioramento nell'esposizione e per l'ottimo articolo.

    Siccome dice: "ci sono aziende che hanno la capacità di prosperare anche in condizioni economiche difficili e che sono in grado di offrire una crescita stabile nei loro utili e dividendi."

    Sarebbe stato carino se avesse aggiunto alcuni dei settori che lei ritiene più capaci di "prosperare anche in condizioni economiche difficili e che sono in grado di offrire una crescita stabile nei loro utili e dividendi."

    Non dico le aziende singole, so che lei ama fare stock picking perché ne è capace, ma almeno alcuni settori che tipicamente hanno queste caratteristiche, a grandi linee (mi rendo conto che un settore fa per forza di tutta un'erba un fascio).

    Grazie se vorrà rispondere.

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    1. Non sono sicuro di aver capito bene la prima parte del messaggio (“Complimenti a lei per il suo miglioramento nell'esposizione”): non mi sembra di aver cambiato molto nelle mie esposizioni, e spero che anche i post passati siano stati sufficientemente chiari.

      Per quanto riguarda i settori che possono “prosperare anche in condizioni difficili”, la mia risposta è abbastanza scontata. In genere si tratta di tutte quelle industrie comunemente raggruppate nella categoria “Consumer non cyclicals”, ovvero quelle che non dipendono in maniera preponderante dall’andamento dell’economia o da dove siamo nel ciclo economico: aziende farmaceutiche; quelle che producono strumenti medici (o offrono servizi legati a questi); quelle che producono prodotti per la casa e l’igiene; supermercati; etc.

      Un altro settore è quello delle assicurazioni (non le banche), che dipendono da fattori specifici alla loro industria ma molto meno dalla crescita economica. Un altro ancora è quello dei media. E ci sono aziende “poco cicliche” anche all’interno del segmento industriale.

      Quanto detto per una classificazione di tipo settoriale: come ha detto anche lei non si può far di tutta l’erba un fascio. In realtà il fattore preponderante è il già discusso “moat”, in quanto è quello che fa rimanere competitiva un’azienda (e ricercati i suoi prodotti/servizi) anche quando il mercato non cresce. Ci sono ottime aziende con moat in settori ciclici, competitivi o instabili; e ci sono aziende senza moat in settori non ciclici, con poca concorrenza o più stabili.

      Questo può rendere “relativamente stabili (in termini di ricavi, utili e FCF)” anche aziende in settori più ciclici come quello tecnologico, o delle tlc, o dei “commercial services”.

      Senza ovviamente mai dimenticare l’altra variabile fondamentale, ancora più della crescita: cioè la valutazione.

      Spero di aver risposto alla sua domanda.

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