Le
strategie di risk parity sono state
tra gli investimenti preferiti dagli investitori negli ultimi anni (vedere
anche il post relativo). L’attrazione di queste strategia è che sono molto flessibili perché
permettono al gestore di scegliere la volatilità del portafoglio secondo l’appetito
per il rischio dei clienti. Quindi un portafoglio con un obiettivo di
volatilità di 10% utilizzerà la leva per aumentare l’esposizione alle
obbligazioni e sottopeserà invece le azioni.
Queste
strategie hanno fatto molto bene in una situazione di diminuzione dei tassi
d’interesse, mentre non è chiaro come si comporteranno se e quando i tassi
dovessero cominciare ad aumentare. Affinché le strategie di risk parity funzionino, occorre infatti assumere
che mantenere il rischio del portafoglio sotto controllo equivalga a generare
dei buoni rendimenti (aggiustati per il rischio). Ma gestire il rischio non è lo stesso che gestire i rendimenti. La
volatilità non ha un segno positivo o negativo, e quindi non considera la
direzione dei mercati. Una strategia che guarda esclusivamente al rischio
utilizzerà la leva su un asset con
bassa volatilità sia che il suo prezzo
stia andando verso l’alto sia che vada verso il basso.
Gli
ultimi 30 anni sono stati caratterizzati da uno dei più lunghi mercati azionari rialzisti (gli ultimi 10 anni
un po’ meno); ma anche – e soprattutto – dal maggior mercato obbligazionario rialzista, con rendimenti positivi
senza soluzione di continuità. Questa potrebbe non essere la situazione in
futuro.
Per
vedere cosa potrebbe accadere, scomponiamo il rendimento delle obbligazioni in
due componenti: le cedole e la
variazione di prezzo data da cambiamenti nei tassi d’interesse. Il
rendimento dato dalle cedole può essere approssimato dallo yield attuale (y) moltiplicato il tempo (t)
di possesso del titolo. La variazione di prezzo può invece essere approssimata
dalla duration (D).
Nel caso di un aumento dei
tassi,
occorre che le cedole siano sufficienti a compensare la riduzione nel prezzo
del titolo. Ne consegue che lo yield
e la duration determinano una sorta
di limite alla velocità con cui
possono salire i tassi d’interesse prima che l’obbligazione cominci a produrre
una perdita complessiva.
Maggiore è lo yield iniziale, maggiore è la velocità
alla quale i tassi devono aumentare per generare una perdita. La duration, invece, riduce questa
velocità, ed infatti i titoli a lunga scadenza (=maggiore duration) perdono valore anche per variazioni ridotte dei tassi.
La tabella sottostante
mostra questi limiti di velocità per alcune tipologie di investimenti
obbligazionari (sia singoli titoli che indici).
Fonte: Bank of America Merrill Lynch.
Il limite di velocità
è minuscolo per i titoli sicuri come quelli tedeschi: basta che il loro
rendimento aumenti anche di solo 1bp/mese per cancellare il rendimento positivo
dato dalle cedole. I titoli corporate
(ed a maggior ragione quelli high yield o
dei mercati emergenti) o quelli di paesi meno sicuri come l’Italia hanno un
limite maggiore dato il loro rendimento attuale superiore e (spesso) bassa duration. Tuttavia, per la maggior parte
dei titoli obbligazionari basta un piccolo aumento dei tassi d’interesse per avere
rendimenti negativi.
Fonte: Bank of America Merrill Lynch.
I numeri nella tabella qui
sopra si riferiscono ad un aumento
immediato ed istantaneo nei tassi d’interesse. Per aumenti graduali,
le cedole delle nuove emissioni si adegueranno ai maggiori tassi ed il
rendimento totale delle obbligazioni ritornerà ad essere positivo: anche se si
dovesse superare il limite di velocità il rendimento delle obbligazioni non
sarebbe negativo per sempre (inoltre, per le obbligazioni corporate e simili occorre considerare anche l’andamento dello spread, che potrebbe muoversi in maniera
opposta rispetto alla variazione dei tassi d’interesse). Ed ovviamente questo problema non riguarda coloro che
comprano singoli titoli e li detengono fino a scadenza.
Ma quanto appena discusso
avrà un impatto per chi investe in fondi ed ETF obbligazionari, che sono basati
(implicitamente o esplicitamente) su indici costruiti su regole predeterminate,
e di conseguenza sono soggetti ad acquisti/vendite a seconda del tunnover dei
vari titoli nel benchmark stesso. Ad esempio, un ETF di titoli governativi che
comprende solo bond con scadenza tra
5 e 10 anni sarà costretto a vendere quei titoli la cui scadenza residua è
scesa sotto i 5 anni. Il turnover di
questi titoli negli indici significa che si può effettivamente generare un rendimento
totale negativo.
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