mercoledì 30 aprile 2014

Il book value è importante o no?

Il book value è una metrica molto utilizzata dagli investitori - soprattutto quelli di tipo value - perché rappresenta una specie di benchmark per la valutazione, ma troppo spesso non viene qualificata in maniera precisa. Trovo soprattutto interessante il fatto che il suo utilizzo sia forse la linea di demarcazione tra gli investitori alla Benjamin Graham – tra i quali rientra il Warren Buffett prima maniera - e quelli alla Warren Buffett degli ultimi 30 anni.

Nella sua forma più semplice, il book value è dato dalla differenza tra il valore delle attività e delle passività di un’azienda (i mezzi propri o equity). Da un lato, quindi, è solo il risultato della mera applicazione dei principi contabili; dall’altro lato, però, se fatta con la dovuta diligenza dovrebbe essere una buona approssimazione del valore netto della società.

Nell’approccio di Graham e del suo discepolo Walter Schloss era centrale il concetto di net-net, ovvero aziende il cui prezzo di mercato era inferiore al valore delle attività correnti dedotti tutti i debiti, quindi un concetto ancora più stringente di book value che potremmo definire come Net Current Asset Value (NCAV). Questo sconto rispetto a NCAV è il margine di sicurezza dell’investitore: se le cose vanno male e l’azienda fallisce, questo valore dovrebbe garantire che si riceverà più di quanto investito. Se invece le cose miglioreranno, si ritiene che il management della società sarà in grado di generare utili sufficienti a giustificare un prezzo superiore a NCAV.

Il problema è che le definizioni di BV, TBV e NCAV significano tutto e niente. Per cominciare, nel migliore dei casi sono solo una stima di quello che un azionista possiede. In teoria, il book value si realizza solo quando l’azienda decide di liquidare il business: prima vengono pagate tutte le passività e quello che rimane è distribuito agli azionisti. Ma questo succede solo raramente nella realtà, e quando vi è una liquidazione di solito è perché sono accaduti eventi straordinari e quello che resta per gli azionisti può essere superiore al book value ma più spesso è (molto) inferiore.

Il valore residuale dell’equity è infatti determinato in maniera predominante dalla composizione dell’attivo: due aziende possono avere entrambe un book value di €100 milioni, e questo può essere una realistica rappresentazione del valore per la prima ma solo una vana speranza per la seconda. Questo perché i debiti (lato destro) sono sempre certi, mentre gli attivi (lato sinistro) non sempre lo sono. Non ho mai trovato nelle note ad un bilancio una frase tipo: “Abbiamo preso a prestito dalla banca €10 milioni ma questa ci ha detto che si accontenta di riavere indietro solo €9 milioni.” Invece accade spesso di leggere: “I crediti verso i clienti, che lo scorso anno erano €20 milioni, sono stati svalutati di €5 milioni per problemi incontrati dal debitore”. Alcuni elementi catturati dal book value possono anche essere sottostimati: ad esempio, le immobilizzazioni materiali sono soggette ad un ammortamento annuo che dovrebbe rappresentare il loro grado di usura, ma questa non è una scienza esatta. Ci sono molte aziende con macchinari acquistati 20 o 30 anni fa completamente deprezzati dal punto di vista contabile ma ancora perfettamente funzionanti e con un valore di mercato positivo. Per inciso, mentre gli investitori azionari spesso danno solo un’occhiata veloce al book value, per i creditori è invece al centro dell’attenzione. I creditori ha infatti priorità sugli utili (gli interessi sono pagati prima della distribuzione dei dividendi), ma se per qualche motivo l’azienda non riesce a ripagare il debito il creditore può forzarla a vendere parte degli asset per essere rimborsato. La vendita di un asset trasforma un valore contabile teorico in uno tangibile: la vendita mostra quanto l’azienda riteneva valesse quell’asset e quello che invece altri ritengono valga realmente.

P/BV<1 non è tutto…
Il 1972 può essere considerato l’anno in cui lo stile di Warren Buffett ha iniziato ad evolversi, pur rimanendo all’interno di un approccio ben definito. In quell’anno infatti Berkshire Hathaway ha acquistato See’s Candy, uno degli investimenti che Buffett spesso ricorda come tra i migliori mai fatti. 

Quando gli fu prospettata per la prima volta l’opportunità di acquistare See’s Candy, Buffett rispose con un sonoro no. L’azienda trattava infatti ad un P/BV di 3x, e - coerentemente con la filosofia di Graham - Buffett era maldisposto a pagare più di 80% del book value. Tuttavia, alla fine cambiò idea perché vide l’investimento sotto una nuova luce, grazie soprattutto all’influenza di Charlie Munger, rivoluzionando profondamente anche i suoi investimenti seguenti. La spiegazione di questa decisione non è complessa ed è la risposta alla domanda: sotto quali condizioni un’azienda vale più del suo valore di libro?

Come già discusso, in termini contabili esiste una cosa chiamata goodwill, che viene quantificata solo in caso di acquisizioni e riflette la differenza tra prezzo pagato e valore tangibile dell’azienda acquisita. Il goodwill è solo un artificio contabile, ma per molte aziende riflette una componente reale e significativa del valore intrinseco. 

Facciamo un esempio molto sbrigativo. Supponiamo di aver comprato un albero di mele per €100: tutto quello che devo fare è annaffiarlo, per semplicità a costo zero e senza necessità di ammortamenti. Il book value del mio investimento è pertanto €100. L’albero è maturo e comincia a produrre mele al ritmo di 50 all’anno, e si tratta di mele deliziose, tanto che uno dei commercianti al mercatino locale è disposto a pagarle €0,50 ciascuna per poi venderle a €1 l’una. Pertanto il mio investimento genera un flusso di cassa (pre-tasse) di €25 (50 mele x €0,50).

Arriva il gestore di un hedge fund, sempre alla ricerca di buoni investimenti, e mi offre di acquistare l’albero per il suo book value, ovvero €100. Voi accettereste? Considerate le alternative (se reinvestiamo il ricavato in obbligazioni otteniamo, se siamo fortunati, €2-€3 per i €100 di investimento), penso che chiunque preferisca tenersi l’albero ed i suoi €25 all’anno in FCF. In altre parole, questo investimento vale molto più del book value proprio per i FCF che genera.

Ipotizziamo che oltre all’albero di mele ne abbia comprato anche uno di arance, sempre per €100. Il problema è che qui in Toscana crescono molto bene i vigneti e gli oliveti, molto meno gli aranceti: il mio albero riesce a produrre solo 20 arance all’anno, che posso vendere a €0,25 perché di qualità inferiore a quelle siciliane, e quindi genera solo €5 di flussi pre-tasse all’anno.

Facciamo adesso un salto in avanti di 20 anni: i miei alberi hanno completato il loro ciclo di produzione e cominciano ad invecchiare, pertanto per mantenere il mio business in attività decido di rimpiazzarli. Nel corso di questi 20 anni l’albero di mele ha generato FCF totali per €500, quindi sottraendo il costo di €100 per il nuovo albero mi rimane un utile di €400 (di nuovo, per semplicità non ho considerato il probabile aumento di prezzo degli alberi nel corso dei 20 anni, ad esempio a causa dell’inflazione). Nello stesso periodo l’albero di arance ha prodotto però solo €100 di FCF, appena sufficienti per comprarne uno nuovo.

Se il gestore del hedge fund avesse speso €250 per acquistare il mio albero di mele 20 anni fa (un prezzo ben superiore al suo book value, 2,5x), oggi si ritroverebbe comunque con €400 ed un nuovo albero per la produzione. Se invece avesse speso anche solo €50 per l’albero di arance, pensando di fare un affare perché l’ha avuto a metà del book value (0,5x), oggi si ritroverebbe con un albero poco produttivo del valore di €100, esattamente dove aveva cominciato 20 anni fa. 

Una della frasi più celebri di Warren Buffett è proprio: “Time is the friend of the wonderful business, and the enemy of the poor business”, e questo esempio illustra esattamente perché. Comprare a sconto rispetto al book value può rivelarsi un ottimo affare, ma più tempo ci vuole a chiudere il gap tra prezzo e valore, e più basso è il rendimento realizzato. Ma quando si investe in attività di qualità, non importa quanto tempo passa perché il loro valore intrinseco aumenta ogni anno con i FCF che producono (il presupposto per avere rendimenti sufficienti rimane in ogni caso di non pagare troppo all’inizio). 

L’altro enorme vantaggio è che la crescita futura per le aziende di qualità è meno costosa da finanziare. Dopo 4 anni posso comprare un nuovo albero di mele con i €25 all’anno che il primo albero ha generato, e quindi produrre FCF di €50 dal quinto anno in poi. Dopo altri due anni posso comprare un terzo albero ed avere €75 in FCF all’anno. La crescita è più veloce grazie al maggior rendimento del capitale investito, che è del 25% per l’albero di mele (€25/€100) ma solo 5% per quello di arance (€5/€100). 

Ovviamente, la vita reale non è così facile. Il gestore noterà immediatamente che il mio albero di mele ha un ROIC del 25%, e quindi si chiederà perché spendere €250 per comprarlo quando può andare al mercato degli alberi ed avere gli stessi €25 all’anno con un investimento di €100. È a questo punto che entra in gioco il famoso moat: ci deve essere una barriera all’ingresso di nuovi concorrenti che non permetta loro di copiare la mia idea. Questo è il caso dei brevetti per le società farmaceutiche e tecnologiche, della reputazione del brand (Apple, Coca-Cola, Colgate, …) o dell’effetto network (elevato costo di cambiare: Microsoft, Facebook, Skype). In altri casi i vantaggi possono essere meno ovvi ma altrettanto potenti, come ad esempio le economie di scala che un supermercato può generare rispetto ad un piccolo negozio. [È comunque sempre utile ricordare che anche investire in questi business è rischioso, perché se le barriere all’ingresso non sono così efficaci come si ritiene il valore assegnato all’azienda è poco protetto dall’esistenza di asset tangibili ed il downside può essere brutale.]

Conclusioni
Per quanto sia una misura imperfetta, il book value ha una sua logica molto precisa: l’idea è che il mercato è in quel momento disposto a pagare per l’azienda meno di quello che valgono i suoi asset al netto di tutte le passività. Come detto, però, raramente le aziende decidono per una liquidazione volontaria e per la restituzione del valore netto agli azionisti e quindi BV è solo una stima approssimativa: è infatti una misura della solvibilità dell’azienda, non della sua liquidità. Anche aziende con elevati valori netti a protezione dell’investimento possono finire nei guai se parte di questo non è facilmente convertibile in liquidità in caso di necessità, come è successo alle aziende di costruzione nel corso dell’ultima crisi: disponibilità di vati terreni edificabili che però era impossibile vendere al valore di bilancio per ripianare i debiti. Altro esempio è quanto il BV è costituito prevalentemente da intangibles di dubbio valore: le aziende attribuiscono spesso valori elevati a voci come “relazioni con i clienti”, “brand” o simili, ma se queste voci hanno un reale valore monetario si dovrebbe vedere nel conto economico, sotto forma di fatturati costanti ed elevati margini di profitto.

Trovare aziende che trattano a sconto rispetto al Net Tangibile Asset Value (stimato in maniera conservativa) è un’ottima strategia, soprattutto se ci sono asset nascosti in bilancio. Ma a meno di identificare un chiaro catalizzatore che permetterà la riduzione del gap, personalmente preferisco di gran lunga quelle aziende che accrescono il loro book value per azione nel corso del tempo. Quando questo cresce vuol dire che ogni anno gli azionisti posseggono un po’ di più di qualcosa. Tutte le aziende devono reinvestire per continuare a crescere o anche solo per rimanere competitive: se un’azienda non investe abbastanza, la crescita rallenta e gli investitori fuggono. Ma quando un’azienda accresce il book value significa che è rimasto qualcosa dopo aver coperto tutti i costi: questi sono spesso gli investimenti più affidabili. Queste aziende hanno in genere alti ROIC/ROE ed elevate barriere all’ingresso, e si può quindi pagare anche più del valore netto contabile: l’idea è di mantenere l’investimento per sempre (a meno che la valutazione non diventi assurdamente eccessiva) perché il tempo è dalla mia parte e non mi devo preoccupare della performance di breve periodo.   

Post Scriptum: in termini matematici, il P/BV al quale un’azienda dovrebbe trattare è dato dalla formula:
 






dove g è la crescita attesa futura, ROE è il Return on Equity e COE è il Cost of Equity. Come si può vedere, non importa quanto un’azienda crescerà in futuro: se non guadagna abbastanza da coprire il costo del capitale non dovrebbe trattare ad un P/BV > 1.

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