venerdì 11 luglio 2014

Rischio aziendale e volatilità dei mercati

Dai giorni della crisi dell’Eurozona nell’autunno 2011, la volatilità dei mercati azionari è stata in continua diminuzione. In questo periodo, gli indici S&P 500 e MSCI Europe hanno guadagnato, rispettivamente, 55% e 35%. Nel 2012, quando per un breve periodo tornarono le paure sulla tenuta dell’euro, l’indice DAX perse il 15% da metà marzo a fine maggio, e la sua volatilità (misurata dall’indice VDAX) salì da 17% a 32%, mentre oggi è diminuita di nuovo fino attorno a 14%.



I periodi di bassa volatilità sono favorevoli per le strategie momentum, molto meno per quelle value, perché sempre più titoli tendono a superare il loro valore intrinseco. Inoltre, quando tutto il mercato sale anche le strategie di stock picking fanno bene: un errore nell’analisi dei fondamentale di un’azienda può essere “perdonato” da un mercato euforico. Chi ha cominciato ad investire nel 2010 crede infatti che lo stock picking sia la cosa più facile al mondo (non lo è!).

Una delle spiegazioni che è stata portata per la recente riduzione della volatilità nei mercati azionari è il fatto che molte delle aziende più grandi per capitalizzazione (Apple, Google, Microsoft, …) hanno accumulato ingenti disponibilità liquide, riducendo drasticamente il cosiddetto balance sheet risk.

Un’altra spiegazione è data da uno dei bias (necessità?) degli investitori istituzionali che si è esasperato dallo scoppio della grande crisi, ovvero la ricerca di liquidità per le enormi masse da loro gestite (intesa come possibilità di entrare ed uscire velocemente da un investimento senza avere un impatto sul prezzo), spesso una caratteristica privilegiata rispetto ai meriti stessi di uno specifico investimento.

A livello aggregato, questo si riflette nella prevalenza di indici a capitalizzazione - aggiustati, come nel caso di MSCI, per il flottante - e di prodotti basati su di essi, come gli ETF ma purtroppo anche la maggior parte dei fondi comuni che sono semplici closet-indexer (esistono anche indici che si discostano da questa metodologia, ma rimangono una minoranza). Il risultato principale è la sotto-rapresentazione o completa esclusione delle aziende più piccole o con minore flottante. Sfortunatamente per gli investitori, le aziende che dominano gli indici azionari sono anche quelle con le maggiori sfide in termini di crescita futura: è difficile per un’azienda con un fatturato di $100 miliardi generare ogni anno una crescita sufficiente in un mercato già saturo (impossibile no, ma difficile sicuramente si). A complicare la questione vi è il fatto che gli investitori si aspettano non solo che questa azienda aumenti vendite ed utili, ma che lo faccia anche in maniera stabile e poco volatile così da non “disturbare” troppo il prezzo di mercato. Se questo è quello che viene richiesto dai gestori a queste aziende, non sorprende che il loro management preferisca ridurre il rischio di business piuttosto che cercare di creare valore nel lungo periodo.

Un modo per misurare questo trend è calcolare quanta liquidità hanno oggi queste aziende rispetto al totale del loro attivo. Nelle due tabelle sottostanti ho riportato questi dati per le 20 maggiori società negli indici MSCI Europe e S&P 500 usando gli ultimi dati di bilancio disponibili (sono stati esclusi i titoli finanziari – compresa General Electric – in quanto questa metrica ha per loro poco senso).



 




Data soprattutto la loro differente composizione settoriale (negli US dominano i giganti tecnologici, mentre in Europa prevalgono farmaceutici ed energetici), la situazione non è analoga nei due mercati: mentre in Europa il dato è inferiore a 10%, le prime 20 società per capitalizzazione dell’indice S&P 500 detengono in media il 20% delle proprie attività in liquidità ed altri investimenti di breve termine (con punte anche superiori al 50%).

Questa statistica è molto interessante: se il gestore di un fondo attivo mantenesse il 20% del portafoglio in liquidità durante un mercato rialzista come quello attuale verrebbe considerato troppo prudente ed incompetente (“Come si fa a non accorgersi che il mercato sale???”) e verrebbe probabilmente licenziato con ignominia. Il motivo per il quale queste aziende sono invece ben liete di accumulare liquidità è che questo riduce la volatilità dei loro prezzi.

Un altro modo di vedere l’impatto della liquidità è attraverso il current ratio (il rapporto tra attività correnti e passività correnti). Un’azienda ben capitalizzata ha tipicamente un current ratio superiore a 1x (NB: questo dipende dal settore e dal business model: un rapporto inferiore a 1x non vuol dire che l’azienda abbia dei problemi, piuttosto che incassa dai clienti più velocemente di quanto paga i fornitori).



Questo livello di liquidità è ben superiore a quello che era tipico non troppi anni fa. Le aziende più grandi e che dominano gli indici di mercato hanno ridotto il loro balance sheet risk, e di conseguenza hanno reso meno volatili anche i loro profitti. Persino le banche hanno oggi meno leva finanziaria rispetto al 2008. Non sorprende, quindi, che in aggregato i mercati azionari siano meno volatili rispetto al loro passato.

Ma ogni medaglia ha il suo rovescio: per molte di queste aziende la priorità di accumulare liquidità va a scapito degli investimenti. Questa riluttanza ad investire potrebbe avere un effetto negativo sugli utili futuri (o per lo meno sulla loro crescita), e quindi le aziende più attraenti potrebbero essere quelle che sono oggi al di fuori degli indici tradizionali (investitori in ETF: caveat emptor!).


Forse, però, sono le premesse ad essere sbagliate, e sono altri i fattori che stanno influenzando la volatilità, come ad esempio la ricerca di rendimenti superiori in un periodo di bassi tassi d’interesse. Quindi si può dire che questa volta è diverso? Assolutamente no. Il periodo attuale di bassa volatilità potrà continuare ancora per qualche tempo. Tuttavia, più questo periodo dura, più volatile sarà quando terminerà.

2 commenti:

  1. L'aumento di volatilità,secondo te, coinciderà con la ripresa degli investimenti, sia interni che M&A di questi colossi (e quindi aumentando la voltilità degli utili futuri), o per altri fattori?
    Oppure... ridistribuita agli investitori (anche se mi sembra meno probabile nel complesso)?

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    1. Ad essere onesto, non so cosa rispondere: l'aumento della volatilità, se e quando ci sarà, sarà dovuto a molteplici fattori, non ultime le decisioni sulla politica monetaria da parte delle banche centrali.

      Qui volevo sottolineare come queste aziende abbiano ridotto il balance sheet risk (volgarmente, il rischio di fallire) accumulando liquidità, e questo ha influito sulla volatilità dei prezzi di mercato. Ma la liquidità non ha un impatto sulla volatilità degli utili (a maggior ragione quando gli interessi che genera sono minimi come oggi), che dipende maggiormente dal ciclo economico.

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