Molto interessante è la spiegazione di cosa sia andato storto nell’investimento in WeWork:
“In 2014, we made a small private investment in this upstart provider of amenity-rich office space that, unfortunately, has since caused us outsized headaches and disappointments. Explicit in our investment was an understanding with WeWork’s management that they would slow the company’s blistering pace of growth and focus instead on developing a more sustainable business strategy. They took our advice for a few months, but new investors soon arrived who convinced management to put its foot back on the accelerator.
Massive losses soon followed, but the CEO promised profitability was just over the horizon. We did not take him at his word, and we communicated to WeWork’s management and board our displeasure with its eroding corporate governance. In 2017 and again in 2019, we sold stock in tenders totaling about 16% of our shares and 50% of our initial investment. We also had a tentative deal to sell our remaining shares to a large investor in early 2019. Unfortunately, WeWork’s management had to approve the transaction, and they refused. In the wake of intense public scrutiny, WeWork abandoned its IPO plans this fall, leaving our remaining shares worth a fraction of their earlier valuation.
While it’s possible that WeWork’s new management will improve operations somewhat, we are ready to declare this a terrible investment. […] In short, we believe the WeWork debacle was an error in judgment, not in process.”
Sicuramente da apprezzare per l’onestà (“è stato un pessimo investimento” non è qualcosa che si sente spesso da parte dei gestori e men che meno è richiesta per legge) e per l’ultima frase: i buoni investitori sono proprio quelli che si focalizzano sul processo e non sui singoli risultati.
Ma come al solito la colpa è di qualcun altro, “i nuovi investitori (Softbank) che hanno spinto di nuovo il piede sull’acceleratore.” Tuttavia, era stata proprio T. Rowe Price a guidare il round di finanziamento che a fine 2014 valutò WeWork oltre $5 miliardi, ossia più di quanto l’azienda vale dopo la debacle dello scorso anno.
Ancora più interessante è che viene evidenziata in maniera esplicita la principale differenza tra investimenti pubblici e privati. Il classico stereotipo sui venture capitalist è che si preoccupano solo della crescita e delle economie di scala, scommettendo in maniera visionaria su prodotti/servizi che potrebbero cambiare il mondo ma stando sempre dalla parte dei fondatori. Gli investitori in aziende quotate, al contrario, si preoccupano soltanto della redditività nei prossimi 3 mesi, non gradiscono aziende che investono per il lungo termine a scapito dei profitti, fanno pressione sui manager per centrare gli obiettivi di breve e scaricano le azioni quando mancano questi obiettivi.
Qui abbiamo un fondo comune che investe anche in start-up a rapida crescita, ma con l’intesa che WeWork avrebbe rallentato l’espansione per focalizzarsi sul diventare redditizia nel breve periodo: quando questo non è successo ha cominciato a scaricare le sue azioni, ed avrebbe anche venduto tutto prima del disastro, purtroppo WeWork non era ancora quotata e non ci sono riusciti.
Oggi, con il senno di poi, è chiaro che l’intuizione di T. Rowe Price fosse giusta e quella di Softbank sbagliata. Ma la differenza di opinioni era dovuta alle caratteristiche peculiari di WeWork (è un’azienda di real estate che dovrebbe massimizzare i profitti o “il primo social network fisico che aspira ad elevare le coscienze”?), oppure ai differenti approcci? T. Rowe Price è un fondo comune con liquidità giornaliera, con obiettivi di performance annuali e quindi preferirà sempre la redditività nel breve periodo ed uscirà quando questo non accade.
Questo vale per tutti quelli che chiedono: “Vorrei aggiungere qualche start-up/private equity al mio portafoglio, c’è un certificato che lo fa? Se proprio non c’è, mi va bene anche un fondo comune/ETF.”
Esattamente, cosa dovrebbe essere il sottostante di un certificato su start-up?
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