mercoledì 21 maggio 2014

Rendimenti dei mercati azionari

In the short run, the market is a voting machine but in the long run it is a weighing machine (Ben Graham)
A differenza di quello che molti sostengono, le borse non sono un casinò ed il rendimento dei mercati azionari non è basato sulla casualità. Al contrario, nel lungo periodo è spiegato in gran parte dalla redditività e dalla crescita dei profitti aziendali.

Utilizzando i dati relativi al mercato americano, dalla fine della seconda guerra mondiale le società incluse nell’indice S&P 500 hanno realizzato in aggregato un return on equity (ROE) del 12%. Questo è ovviamente variato nel tempo a seconda delle fasi del ciclo economico, ma su periodi di 10 anni è stato sorprendentemente stabile attorno a questo valore. Le aziende incluse nell’indice hanno pagato in media metà degli utili sotto forma di dividendi e hanno reinvestito la parte rimanente, determinando un tasso di crescita dei profitti aziendali del 6% (ovvero 12% x 50%). Va tuttavia notato che non hanno offerto un uguale dividendo del 6%, bensì molto inferiore, circa 3%, perché in media le azioni hanno trattato ad un P/BV di 2x.

La crescita degli utili nel periodo analizzato è stata simile alla crescita del PIL nominale, che è una misura aggregata dell’output complessivo di un paese, composta da un 3% di crescita reale e circa 3% di inflazione (di nuovo, dati per il mercato americano dalla seconda guerra mondiale ad oggi). I profitti aziendali sono infatti una componente significativa del PIL: storicamente, al netto delle tasse, hanno fluttuato tra il 4,5% ed il 6% del PIL, a volte salendo fino al 10% o scendendo sotto al 4%, ma con una tendenza significativa a tornare verso la media del 6%.

In formule, il rendimento (R) del mercato azionario può pertanto essere espresso come:

Rendimento = variazione di prezzo
+ dividendi pagati = crescita degli utili + variazione del rapporto prezzo/utili + dividendi pagati  

Il rendimento atteso dal mercato azionario è la somma del dividend yield, della crescita degli utili e dell’espansione del rapporto prezzo/utili. Il primo elemento dell’equazione (dividend yield) è oggi tipicamente compreso tra 1,5% e 2,5% a seconda dei mercati di riferimento: questo valore è stato in continua diminuzione dagli anni 1980 perché le aziende preferiscono utilizzare i buy-back, che offrono maggiore flessibilità rispetto alla distribuzione di dividendi. Il secondo elemento è la crescita attesa degli utili aziendali (non del PIL!), che a sua volta può essere approssimata dalla formula: g = ROE x (1 – b), dove b è il tasso di distribuzione dei dividendi, cioè (1 – b) è il tasso di re-investimento. Infine, l’espansione del multiplo P/E: anche se esistono diverse versioni di questo multiplo a seconda del proprio approccio ai mercati, quelle più conservative dicono che il P/E di molti mercati è tra equo (ad esempio basandosi sugli utili degli ultimi 12 mesi) e troppo elevato (ad esempio rimuovendo la ciclicità degli utili come nel CAPE).

Mercati rialzisti, ribassisti e laterali
La maggior parte delle persone sono abituate a pensare che le fasi di mercato si dividono in rialziste (bull) o ribassiste (bear). In realtà la situazione numericamente più frequente è quella di un mercato laterale.

I mercati rialzisti non sono causati da un andamento favorevole dell’economia, da tassi d’interesse o inflazione in diminuzione (e l’opposto per i mercati ribassisti): sono sempre determinati dalla valutazione iniziale e dall’andamento degli utili aziendali, come illustrato nei tre esempi seguenti.




Mercati ribassisti:  contrazione di P/E + contrazione utili = rendimenti negativi
Mercati laterali:    contrazione di P/E + crescita utili = rendimenti bassi
Mercati rialzisti:   espansione di P/E + crescita utili = rendimenti elevati

Un mercato rialzista comincia sempre con valutazioni inferiori alla media e termina con valutazioni superiori alla media.

Il mercato giapponese è un esempio di mercato ribassista (e poi laterale) da libro di testo. Al picco a fine anni 1980, l’indice Nikkei 225 produceva utili aggregati di 590 e trattava ad un P/E di 66x. Nel corso dei 13 anni seguenti gli utili sono crollati a 191, mentre il P/E si è contratto a 43x, producendo una perdita cumulata di quasi 80%. Nei 10 anni seguenti gli utili sono risaliti fino a 570 oggi (inferiore al valore del 1989), ma il P/E si è ridotto ulteriormente (oggi è 25x, ma era sceso anche a 12x), e pertanto il mercato non è andato da nessuna parte e si è mosso in maniera laterale.




Lo stesso vale anche a livello di singole azioni e Microsoft (qui sotto) ne è un esempio, ma se ne potrebbero trovare molti altri. A dicembre 1999, quando produceva utili per azione di $0,71, MSFT trattava a $58 per un P/E di 82x; un anno dopo, gli utili erano saliti a $0,85 ma il mercato le assegnava un P/E di solo 26x e quindi il prezzo era sceso a $22. Dopo oltre tredici anni, gli utili sono saliti a $2,70 (+220%, per un incremento annuo di oltre 9%), ma il P/E si è ulteriormente ridotto, ed il prezzo è salito di “solo” 80% fino a $40.



Se torniamo ai dati sull’indice S&P 500, possiamo suddividere il periodo dal secondo dopoguerra in 4 sotto-periodi di durate più o meno simili, per i quali valgono esattamente le considerazioni sopra riportate in termini di rendimenti (ex-post) determinati dalle variazioni di utili e P/E (i dati non comprendono il reinvestimento dei dividendi e sono ribilanciati a 100 all’inizio del periodo).






Chiunque investa oggi nei mercati azionari, soprattutto attraverso strumenti passivi/indicizzati e basandosi sulle previsioni di dove saranno i mercati tra qualche mese (“il trend rialzista continuerà perché…”, “siamo vicini allo scoppio della bolla perché…”), deve avere un’opinione sull’evoluzione di queste due variabili.

1 commento:

  1. questo post ha un contenuto molto simile, analizzando walmart e cocacola! http://www.gurufocus.com/news/264199/walmart-and-coca-cola--how-much-is-too-much-

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