giovedì 2 aprile 2015

Quello che le banche non dicono…

Quale è stato l’utile netto di IntesaSanpaolo nel 2014? Sembra una domanda banale e basta guardare l’annuncio dei risultati per rispondere
“[…] Utile netto del 2014 a € 1,7 mld se si esclude l’aumento retroattivo della tassazione relativa alla partecipazione in Banca d’Italia, utile netto contabile a € 1.251 mln.”
E se vi dicessi che l’utile potrebbe invece essere stato di soli €780 milioni, ovvero il 38% in meno di quanto affermato dalla banca? Qual è il valore corretto?

Coming soon to an income statement near you: Comprehensive Income
La risposta all’ultima domanda, non certo incoraggiante e che aumenta la confusione quando si parla della valutazione di una banca, è purtroppo: “Sono entrambi corretti, accurati e plausibili”. Capire perché richiede di addentrarsi nei meandri delle analisi di bilancio: mentre l’utile comunemente riportato da tutte le aziende è infatti quello che appare nell’ultima riga del conto economico, l’altro valore è “nascosto” in quello che si chiama Prospetto della redditività consolidata complessiva (in inglese, “Statement of comprehensive income”). Questo rendiconto include infatti sia l’utile netto tradizionalmente calcolato che l’impatto di tutte le altre componenti reddituali (“Other comprehensive income”, d’ora in avanti OCI). OCI è stato introdotto nella terminologia contabile una quindicina di anni fa, ma ancora oggi rimane poco familiare per molti analisti.

In OCI sono riportati:

  • i guadagni/perdite non realizzati su alcuni titoli negoziabili
  • i guadagni/perdite non realizzati su derivati utilizzati come copertura
  • gli aggiustamenti per variazioni dei tassi di cambio su assets denominati in valuta non-domestica
  • le rivalutazioni di immobilizzazioni materiali ed immateriali
  • le variazioni nel deficit/surplus pensionistico
Per riassumere: tutte quelle voci che sono “politicamente sgradite” da includere nel conto economico per la loro variabilità da un periodo all’altro, e che pertanto sono state “nascoste” in modo da non farne notare immediatamente l’esistenza. Queste voci hanno tuttavia un impatto sul patrimonio delle aziende e non possono quindi essere ignorate: OCI è infatti una delle componenti del Prospetto delle variazioni del patrimonio netto consolidato (“Statement of changes in shareholder equity”), secondo la formula:
OCI + (utile netto – dividendi distribuiti) + operazioni sul capitale (nette) = variazione del patrimonio netto
Monitorare l’evoluzione del patrimonio netto è fondamentale per capire la performance ed il profilo di rischio di ogni azienda. Comprensive income (CI), includendo anche queste voci, permette una visione più olistica di quelli che sono stati i reali profitti generati durante l’anno, anche al costo di renderli più volatili di periodo in periodo.

Quanto appena detto vale ovviamente per tutte le aziende che utilizzano i principi contabili IFRS o US GAAP (che tuttavia permettono una differente presentazione delle stesse informazioni). Data la natura delle voci incluse in OCI, le differenze saranno maggiori per quelle aziende che hanno significativi deficit pensionistici (quindi, quelle anglosassoni più di quelle europee), ma soprattutto per quelle che hanno molti assets sotto forma di titoli negoziabili (banche ed assicurazioni) o che usano molti derivati (di nuovo le banche, ma anche società energetiche, minerarie e aerolinee).

Per le banche, in particolare, la domanda che molti dovrebbero porsi è: con il possibile rialzo dei tassi d’interesse (non una certezza, soprattutto riguardo alla tempistica, ma una possibilità si), gli investitori sono sicuri del profilo di rischio degli istituti nei quali investono?

Come è facile immaginare, le banche preferiscono utilizzare qualsiasi escamotage legale per nascondere la polvere sotto il tappeto, come ben descritto in questo articolo (“Banks prefer losses they don't have to talk about”). I titoli inclusi nella categoria “Available for sale (AFS)” fanno parte del cuscinetto di liquidità usato per coprire in maniera strutturale le equivalenti passività a tasso fisso. Questo tipo di obbligazioni sono possedute da tutte le banche, ed in genere rappresentano circa il 10% del totale dell’attivo. In aggiunta, le banche utilizzano derivati a copertura degli investimenti a tasso variabile e per le transazioni in valuta non domestica. E sono proprio queste due categorie che rappresentano la maggioranza di OCI. Ad esempio, nel 2008 il book value della banca belga Dexia fu decimato da “unrealised AFS losses” per €11,1 miliardi; nonostante questo e la necessità del bail-out governativo, tra il 2007 ed il 2010 il capitale totale ai fini regolamentari dava l’impressione di una banca in piena salute, perché le regole di Basilea II permettevano l’applicazione di “filtri prudenziali” nel conteggiare o meno queste perdite nel calcolo del capitale. [Basilea III ha invece eliminato questi filtri prudenziali e tutte le variazioni nel valore dei titoli AFS finiranno nel capitale regolamentare delle banche, per lo meno per quei paesi che hanno deciso di adottare in pieno le nuove regole. Va infatti precisato che alcuni paesi, tra i quali molti di quelli appartenenti all’Unione Europea – inclusa l’Italia ma non UK – hanno deciso di fare opt-out su questo principio e di continuare a non includere le perdite non realizzate su AFS nel capitale regolamentare.]

Le voci che compongono OCI non sono necessariamente sempre negative, e su un ciclo economico completo i valori finiscono spesso per compensarsi: ad esempio, le perdite non realizzate per l’aumento dei tassi d’interesse sui BTP nel corso del 2011 sono state poi più che recuperate dai guadagni, sempre non realizzati, quando i tassi hanno cominciato a scendere nel 2012 e 2013. Gli investitori farebbero tuttavia bene a considerare queste voci quando analizzano la solvibilità e redditività di una banca: la tabella sottostante mostra come – in termini assoluti - in ogni singolo periodo OCI può rappresentare una parte anche significativa del patrimonio netto di alcuni dei maggiori istituti italiani.


Un altro “sotterfugio” al quale gli investitori farebbero bene a prestare attenzione è collegato alle stesse considerazioni: in previsione del possibile aumento dei tassi, le banche americane (soprattutto, ma non solo) stanno spostando i titoli obbligazionari dalla voce “Attività finanziarie disponibili per la vendita” ad “Attività finanziarie detenute sino alla scadenza”. Questo perché la seconda categoria permette di continuare a valutare i titoli al costo storico, anziché al valore di mercato, e quindi di non avere alcun impatto sul capitale regolamentare, anche se significa legarsi le mani perché questi titoli non possono poi essere smobilizzati all’improvviso. 

Conclusione
Qualsiasi investitore interessato alla creazione di valore di un’azienda farebbe meglio a considerare Comprehensive Income – anziché Net Income – nelle sue valutazioni. Molte aziende, con intento fraudolento o perfettamente legale, sono infatti molto brave a spostare in OCI tutte le voci negative o comunque sgradite. Non solo le banche, ovviamente, ma anche tutte quelle che per un motivo o un altro utilizzano derivati a copertura di cash flows futuri (come società energetiche, minerarie o aerolinee che vogliono coprire l’esposizione al prezzo delle commodities).

Monitorare queste variazioni permette agli analisti di anticipare quanto gli utili ed il book value sono sensibili a potenziali cambiamenti nei tassi d’interesse o dei prezzi delle materie prime.

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