lunedì 16 dicembre 2013

Le inefficienze dei mercati efficienti



Devo confessare che non sono un avido lettore dei working papers accademici: anche per i report azionari preferisco quelli nei quali le 4/5 cose essenziali riguardo l’investimento vengono presentate in maniera chiara ed immediata rispetto a qualcosa che è più rigoroso ma richiede lunghe pagine di formule complicate per spiegare le conclusioni.

Detto questo, un paper che ho letto con attenzione, forse perché abbastanza breve, è quello del prof. Jeffrey Wurgler (“On the Economic Consequences ofIndex-Linked Investing”, disponibile cliccando sul titolo) su come le strategie passive, o comunque strettamente basate su indici, possano distorcere i prezzi di mercato.

Tutto quello che punta verso distorsioni nei mercati cattura subito la mia attenzione, perché un’anomalia di solito significa un’opportunità di investimento. Prendete ad esempio il cosiddetto effetto value (già trattato nel post riguardo i fattori di rischio), secondo il quale per una qualche ragione le azioni cheap (sulla base di utili o valore di libro) tendono ad avere rendimenti migliori nel lungo periodo. Molte spiegazioni sono state portate per spiegarlo: la prima è che queste azioni sono più rischiose (più volatili, in peggiori condizioni finanziarie, …) e quindi maggior rischio dovrebbe tradursi in maggior rendimento. La seconda spiegazione è che queste aziende non sono sexy, e pertanto non attraggono molta attenzione dagli investitori. Altre e differenti spiegazione sono state offerte negli anni. Indipendentemente da quale sia quella corretta, il punto interessante è che l’effetto value continua ad esistere! L’efficienza dei mercati implicherebbe che appena un’anomalia è identificata, questa venga sfruttata da investitori pienamente razionali e che i prezzi si muovano verso il loro livello di equitilibrio. Ma il value investing è tutt’altro che un fenomeno recente: la performance superiore di queste strategie nel lungo periodo non sembra sia stata eliminata (ridotta forse sì).

Tornando al paper, il suo punto centrale è che il proliferare di strategie strettamente legate ad un indice di mercato (passive, ETF, certificati, derivati, …) potrebbe creare delle distorsioni che non sono immediatamente ovvie. Due esempi che il prof. Wurgler usa sono l’incremento di prezzo mostrato dai titoli quando sono inclusi nell’indice S&P500 (ben 9%) e la tendenza per queste azioni a cambiare il modo in cui i loro prezzi di muovono: 

“Se l’effetto-inclusione di +9% fosse la fine della storia, allora l’impatto complessivo delle strategie indicizzate sui prezzi sarebbe modesto. Ma questo è solo l’inizio. Lo schema dei movimenti di prezzo delle azioni appena incluse nell’indice S&P500 cambia magicamente e velocemente. Comincia a muoversi più in linea con i nuovi 499 vicini e meno in linea con il resto del mercato, come se si fosse unito ad un nuovo banco di pesci. […] È importante ricordare che questo avviene per alcune delle azioni più grandi e liquidi al mondo.”
“Questi schemi di movimenti comuni sono dove cominciano i veri impatti economici. Così come il salto iniziale nel prezzo è il risultato di una improvvisa domanda aggiuntiva per quell’azione, l’aumento della correlazione con gli altri membri dell’indice S&P500 è collegato ai flussi in entrata ed uscita dai fondi passivi.” 

Se accettiamo la premessa che il valore di un’azione è dato dal valore attuale dei flussi di cassa futuri (i suoi fondamentali), allora i due fattori appena descritti appaiono difficili da spiegare. In realtà sono perfettamente logici: i fondi passivi devo comprare le azioni che vengono incluse in un indice, e da quel momento questi titoli tenderanno a muoversi in linea con i loro simili, perché non è più vero che i soli fondamentali determinano il prezzo, ma anche che i flussi nei fondi passivi determinano cosa viene comprato e cosa venduto.

Come giustamente ricordato anche nel paper, non vi è dubbio che le varie strategie passive abbiano portato dei benefici agli investitori, sia individuali che istituzionali. Ma dall’altro lato la loro popolarità ha creato degli effetti non pienamente compresi. Come accaduto con altre innovazioni finanziarie (ad esempio i CDS), l’incremento nell’utilizzo di queste strategie potrebbe portare addirittura ad una riduzione dei benefici pubblicizzati. Uno dei maggiori selling points dei fondi passivi è infatti la possibilità di offrire un’ampia diversificazione a basso costo. Ma l’evidenza empirica che i movimenti nei prezzi sono una funzione non solo dei fondamentali ma soprattutto dell’appartenenza o meno ad un indice di mercato potrebbe minare questa asserita diversificazione. 

In fondo, gli ETF comprano quello che è disponibile, non quello che avrebbe senso. 

PS: Il paper si focalizza sui mercati azionari, ma l’evidenza vale anche per quelli obbligazionari: basta infatti ricordare il caso dell’Argentina quando fece default nel 2000. All’epoca non vi erano ancora ETF obbligazionari, ma i fondi indicizzati erano già uno dei veicoli preferiti per investire nel debito dei paesi emergenti: il debito argentino rappresentava la maggiore esposizione per paese - circa 20% - dell’indice JP Morgan EMBI, il barometro più famoso in quel settore del mercato. E più l’Argentina si indebitava (più debito emetteva), più gli investitori indicizzati dovevano comprare le obbligazioni, pena il rischio di divergere dal benchmark. Sappiamo tutti come è poi finita.

1 commento:

  1. di recente sono nati ETF che investono passivamente nei cosìdetti "aristocrats" (aziende con dividendo crescente negli ultimi X anni). La diminuzione del dividendo ne comporterà l'espulsione immediata con il conseguente riversamento di titoli sul mercato. Sarà interessante vederne l'effetto quando questi popolari fondi/etf saranno ancora.... più popolari e "pesanti"!

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