lunedì 9 dicembre 2013

Smart beta, risk factors, risk parity, …: sempre il solito “blah blah blah” del marketing



Post un po’ lungo e con termini tecnici, ma che tratta di concetti in realtà semplici. Come premessa vorrei aggiungere che non sono – per principio – contro le strategie discusse in questo post: piuttosto, sono contro i prodotti venduti a caro prezzo senza spiegare bene cosa siano. La maggior parte delle cosiddette innovazioni nel campo dell’industria degli investimenti sono motivate dai dipartimenti marketing delle società di gestione, che periodicamente sembrano re-inventare la ruota.
 
Smart beta, risk parity ed altre strategie simili, quelle più di moda negli ultimi tempi, non fanno eccezione a questa regola. I loro nomi racchiudono l’idea di poter fare meglio del mercato in maniera consistente con un minimo sforzo e costi contenuti. Intellettualmente seducenti, cercano di far passare il concetto che sia possibile avere un’esposizione diversificata ai mercati evitando i costi, i rischi ed i fallimenti comportamentali delle strategie attive. Ed allo stesso tempo danno l’impressione di avere un qualcosa in più rispetto alle tradizionali strategie passive. La loro attuale popolarità ci dice molto sulla psicologia degli investitori.

C’è però un problema non trascurabile. La difficoltà sta nel fatto che una strategia deve risultare efficace out-of-sample, ovvero nei rendimenti successivi ai dati sui quali è stata ottimizzata. Non importa quanto lunghe siano le serie storiche sulle quali è stata sviluppata, il vero test è quello che succede dopo. Il rischio di queste strategie è che siano state create grazie al data mining e quindi ottimizzate rispetto ad una situazione economica che potrebbe non ripetersi.

Gli investitori sono sempre alla ricerca del Sacro Graal degli investimenti, una strategia che generi buoni rendimenti senza avere drawdowns né volatilità, come ad esempio riportato nel grafico seguente dal nostro fondo misterioso.
Per chi fosse interessato a perseguire questa strategia, purtroppo vi devo avvertire che i rendimenti sono quelli di Bernard Madoff (rappresentati dal fondo Fairfield Sentry)! 

Smart Beta = Beta “stupido” + Smart Marketing 
Uno dei ritornelli frequenti al momento è che gli investitori devo essere più “creativi” nelle loro esposizioni ai movimenti dei mercati finanziari, il famoso beta. Le innovazioni proposte sono appunto quelle che vanno sotto i nomi altisonanti di smart beta, risk factors, etc… Ad esempio, in campo azionario negli ultimi anni sono proliferate le strategie di minimum variance, bassa volatilità ed indici pesati secondo i fondamentali, per non menzionarne altre ancora più esotiche.

Una delle asserzioni più comuni è che le strategie di smart beta offrono rendimenti aggiustati per il rischio superiori rispetto a quelle basate sui comuni indici a capitalizzazione. Un recente paper (Arnott, Hsu, Kalesnik, Tindall: “The Surprising Alpha from Malkiel’s Monkey and Upside-Down Strategies”, disponibile qui) dimostra in maniera quantitativa questa asserzione con riferimento, ad esempio, alle strategie a minimum variance o equal-weighted. Sfortunatamente, nello stesso paper gli autori dimostrano che non solo l’inverso delle strategie di smart beta (letteralmente, rovesciando l’approccio) ha rendimenti superiori agli indici tradizionali, ma anche che portafogli creati in maniera causale (“[…] selezionando gli investimenti come se una scimmia tirasse delle freccette alle pagine economiche di un giornale”) hanno performance simili. Se la retorica dietro le strategie di smart beta fosse corretta, questi altri portafogli dovrebbero al contrario avere rendimenti pessimi. Come si spiegano allora questi risultati? 

Semplicemente, il tratto unificante di tutte queste strategie è che non basandosi sulla capitalizzazione di mercato costruiscono un portafoglio indifferente ai prezzi correnti, un processo che garantisce essenzialmente che ci sarà una propensione verso azioni di tipo value e small-cap. Quando queste strategie sono aggiustate per la loro esposizione a questi fattori non mostrano nessuna sovraperfomance statisticamente significante rispetto ai tradizionali benchmark. In altre parole, il fatto che le strategie smart beta abbiano sovraperformato non ha niente a che fare con le storie che le società di gestione ci raccontano (migliore matrice delle covarianze, sfruttano l’idea di non copiare gli indici tradizionali o trading contrario rispetto alla capitalizzazione), quanto piuttosto sul fatto che sono più esposte ai fattori “value” e “size”, ovvero quelli già identificati da Fama e French. 

Ovviamente, nessuna SGR riuscirebbe mai a piazzare a mani basse un prodotto se dicesse semplicemente: “Ho un’idea innovativa per battere gli indici tradizionali: un portafoglio che investe in azioni value e small-cap!” Ma non fatevi confondere: questo è esattamente quello che le strategie di smart beta fanno. 

Essendo un investitore di tipo value e con una marcata preferenza per le small cap, posso solo essere d’accordo su questo approccio. Questo tuttavia è valido se e solo se viene rispettata la regola aurea: nessun investimento è così “buono” che può essere comprato senza alcuna considerazione sul prezzo pagato. Anche le strategie value e small cap non sono assolutamente una garanzia di rendimenti (nemmeno nel lungo periodo) se sono considerate indipendentemente dal loro prezzo! 

Per quanto riguarda l’asset allocation, la moda attuale è di spingere verso maggiore attenzione sui fattori di rischio come carry, value, momentum, etc… Sotto molti aspetti questo è l’equivalente degli smart beta nel segmento azionario: invero, il termine smart beta spesso è usato per ricomprendere anche gli ETF che si focalizzano su questi fattori.

Chi propone questo approccio è invogliato dalla bassa correlazione che i singoli fattori di rischio hanno rispetto agli altri investimenti tradizionali, nonché dalle intuizioni che si possono avere dal guardare il mondo attraverso le lenti dei risk factors. In realtà non hanno scoperto niente di rivoluzionario: non è difficile scomporre (e ricomporre) i rendimenti del private equity come i rendimenti del mercato azionario più l’utilizzo della leva finanziaria (meno un bel po’ di costi pagati agli sponsor, però). Oppure che gli hedge funds, in aggregato, non fanno molto di più che vendere opzioni put ed un arbitraggio tra volatilità implicita ed effettiva.

Il trucco per capire i risk factors è di interpretarli come una trasformazione di altri assets. Ad esempio, cos’è l’equity risk? Poiché è l’extra-rendimento atteso da un investimento azionario può essere definito come long equity/short cash. Il fattore value è invece long azioni poco costose/short azioni costose. Quello momentum è long azioni che sono salite di prezzo/short azioni che sono scese di prezzo, mentre il fattore carry non è altro che long valute con alti interessi/short valute con bassi interessi. Come avrete capito, sono tutti una combinazione di una posizione lunga in qualcosa ed una corta in qualcos’altro. 

Pensate ad un asset (azioni, obbligazioni, valute, …) come strumenti sui quali potete andare solo long. I risk factors sono invece una combinazione di assets dove il vincolo di andare solo lunghi è stato rimosso, ma in ultima istanza sono sempre ottenuti da investimenti in qualche asset. Secondo i proponenti il maggior pregio dei risk factors è la loro bassa correlazione con gli assets tradizionali. Occorre tuttavia ricordare che qualsiasi portafoglio ottenuto come combinazione di investimenti long e short dovrebbe avere una correlazione più o meno pari a zero con gli assets sottostanti. 

Di conseguenza, quello che importa è l’intuizione economica dietro i risk factors. Forse sono maggiormente efficienti, anche se spesso l’efficienza è definita in un sistema di media-varianza, ovvero dove il rischio è rappresentato in maniera assolutamente inutile dalla volatilità. Ricordate comunque due cose. La prima è che, come gli assets sottostanti, nessun risk factor farà bene indipendentemente dal suo prezzo. Ci sono periodi nei quali le strategie di carry saranno prezzate per fare bene, e periodi nei quali non lo saranno; periodi nei quali value sarà prezzato per fare meglio di growth, e periodi in cui varrà l’opposto. E così via.

La seconda considerazione è forse ancora più importante: quando si tratta di risk factors, si sta implicitamente introducendo la leva finanziaria nell’investimento (in particolare, quella di tipo long/short). Questo è uno dei peggiori rischi della Modern Portfolio Theory (MPT): nella classica ottimizzazione di tipo media-varianza la leva è vista come senza costi, sia in termini di implementazione che come impatto sugli investitori. L’approccio basato sui risk factors sfrutta proprio questo errata concezione.

Ma come dovremmo aver ormai imparato, la leva è tutt’altro che priva di costi dal punto di vista degli investitori. La leva NON può mai rendere buono un cattivo investimento, mentre può portare un buon investimento ad un disastro, trasformando una perdita temporanea dovuta alla volatilità dei prezzi in una perdita permanente, ad esempio forzando a vendere esattamente nel momento peggiore. 

La caratteristica più pericolosa della leva è che introduce una sorta di dipendenza dal movimento dei prezzi. Come ben proposto da Benjamin Graham, ci sono due differenti approcci agli investimenti: pricing e timing. Nel primo (pricing) si compra qualcosa quando il prezzo di mercato è inferiore al valore intrinseco e si vende quando il prezzo sale oltre questo valore intrinseco. Nel secondo (timing) si cerca invece di anticipare l’andamento del mercato, comprando prima che questo salga e vendendo prima che scenda. Quando si utilizza un approccio long-only su un orizzonte temporale di lungo periodo, l’unica cosa di cui ci si deve preoccupare è il prezzo di quello che si compra. Questo vuol dire che se si compra un asset a poco prezzo e questo diventa più economico (i.e., il prezzo scende), se si ha liquidità disponibile se ne può comprare ancora, mentre se non se ne ha si può semplicemente mantenere la posizione. Ma quando si comincia ad introdurre la leva nel nostro portafoglio (come in un approccio basato sui risk factors), ci si deve preoccupare sia del pricing che del timing. Si è infatti obbligati ad avere un’opinione non solo sul prezzo ma anche sul percorso che seguirà in futuro, ovvero: il mio portafoglio long/short sarà in grado di sopravvivere ad un movimento dei prezzi che va contro di me? 

Risk parity = “Misura sbagliata del rischio” + Leva + Indifferenza ai prezzi = Pessima idea 
Dal punto di vista di un investitore focalizzato sui fondamentali, i rischi impliciti nella risk parity possono essere riassunti in: 

  • Considera una misura sbagliata di rischio. Molti proponenti usano la volatilità come misura del rischio di un portafoglio. Come non mi stancherò mai di sottolineare, il rischio non è un numero: mettere la volatilità al centro del processo di investimento avrebbe, ad esempio, spinto ad aumentare l’esposizione nel 2007 (quando la volatilità di tutti i mercati era bassa) ed a diminuirla nel 2009 (quando la volatilità era esplosa), ovvero l’esatto opposto di quello che un investitore accorto avrebbe dovuto fare. 
  • Utilizza la leva. Vedere la discussione precedente sui risk factors. 
  • Manca di “solidità”. Non ci sono risultati generali ed univoci per la risk parity. Non perché non ci sia abbastanza profondità dei dati, piuttosto perché i risultati dei backtest sono molto sensibili agli assets sottostanti utilizzati (ad es. S&P500 vs. MSCI World, indici di obbligazioni governative vs. corporate). Inoltre, vi è molta arbitrarietà riguardo quali classi includere: ad esempio, perché mettere anche le commodities, che potrebbero non avere un loro specifico premio al rischio? In generale, la mancanza di questa robustezza solleva il dubbio che i risultati dei backtest siano dovuti a data mining, e quindi fragili. 
  • È indifferente alle valutazioni. Uno dei vantaggi spesso proposti da questo approccio è l’indifferenza ai rendimenti attesi, come se fosse qualcosa di cui andare fieri. Qualcuno si è anche spinto a dire che la risk parity è “l’approccio da seguire se non hai la minima idea di quali siano i rendimenti attesi dalle varie classi”. Dal mio punto di vista, non c’è niente di più irresponsabile per un investitore di dire che non si ha idea di quali rendimenti aspettarsi, che significa che non si ha idea delle valutazioni correnti: qualcuno andrebbe da un cardiochirurgo che afferma di non sapere come funziona il cuore? A dire il vero, mi correggo: non c’è niente di più irresponsabile di non avere idea dei rendimenti attesi ed usare la leva! 
Come con le due strategie discusse precedentemente, anche la risk parity è implementata attraverso assets, e quindi può essere prezzata. James Montier ha fatto alcune simulazioni storiche, costruendo un portafoglio di risk parity fatto da liquidità, obbligazioni governative ed azioni in modo da avere storicamente la stessa volatilità del classico portafoglio statico 60% azioni/40% obbligazioni, ed ha poi paragonato la performance di queste due strategie, identificando 4 distinti periodi di performance, come mostrato nel grafico sottostante.

Nel primo periodo, dal 1928 al 1945, la risk parity è stata di gran lunga la vincitrice, data la pessima performance dei mercati azionari dopo la Grande Depressione del 1929. Ma con il boom seguente alla fine della Seconda Guerra mondiale, dal 1946 al 1980 un semplice portafoglio 60/40 avrebbe fatto molto meglio. A partire dai primi anni 1980, il maggiore mercato rialzista di sempre sia per azioni che obbligazioni, le due strategie hanno avuto risultati più o meno simili. Infine, negli ultimi anni la risk parity ha di nuovo fatto meglio, grazie alla decisa sovraperformance delle obbligazioni sulle azioni. Risultati simili sono stati riscontrati in un altro importante articolo su queste strategie [Anderson, Bianchi, Goldberg: “Will My Risk Parity Strategy Outperform?” Financial Analyst Journal, Nov/Dec 2012: per chi fosse interessato e non trovasse questo articolo, chiedete pure]. 

Più interessante è analizzare i pesi nelle tre classi della strategia di risk parity simulata: in media, questa era investita per il 44% in azioni, per il 155% in obbligazioni (con punte di quasi il 400%) più una posizione short del 99% in liquidità (con punte di -300%). Da queste esposizioni, Montier ha potuto calcolare quali rendimenti reali la strategia di risk parity era prezzata per offrire. I risultati sono ben visibili nel seguente grafico: nel lungo periodo, la risk parity dinamica non sembra molto differente da un portafoglio 60/40 statico.

Al momento entrambe le strategie sono prezzate per avere rendimenti reali prossimi allo zero, in linea con l’attuale limbo di bassi rendimenti. Questo è un anatema per chi afferma che il portafoglio 60/40 è prezzato per avere bassi rendimenti e che sarebbe quindi molto meglio seguire una strategia di risk parity. [Nota: i risultati sono quelli di una risk parity simulata creata con la stessa volatilità del portafoglio 60/40: strategie che usano differenti obiettivi – ad esempio volatilità costante del 10% - avranno risultati differenti.]

La conclusione più importante è però quella più semplice ed intuitiva: quando la risk parity è prezzata per fare meglio del portafoglio 60/40, fa effettivamente meglio. Se si usa la leva sulle obbligazioni quando queste sono poco costose (i.e., hanno rendimenti elevati), si hanno ottimi risultati – a patto, ovviamente, di avere una qualche idea sul percorso che questi rendimenti prenderanno. Al contrario, quando si usa la leva su obbligazioni costose (i.e., bassi rendimenti), i risultati non sono così positivi come ci si aspetterebbe. Non c’è niente di magico nella risk parity! 

Conclusioni 
La lezione da trarre, come è sempre stato, è che in finanza “there are no free lunches”. Se qualcosa sembra troppo bello per essere vero, probabilmente non lo è. E nessun investimento è così pregiato da potersi permettere di pagare qualsiasi prezzo! 

Dubitate sempre di chi vi propone la classica pallottola d’argento: se vi dicono che hanno identificato una strategia che offre elevati rendimenti e basso rischio/volatilità, vi devono anche spiegare esattamente come funziona e sotto quale insieme di assunzioni riguardo le situazioni di mercato.

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