giovedì 25 settembre 2014

Investimenti alternativi: assets non correlati?

La natura umana ci porta ad essere più a nostro agio quando ci conformiamo con quello che fanno gli altri. Dal punto di vista degli investimenti, cercare di stare “in mezzo al gruppo” può essere poco soddisfacente, nonché alle volte molto costoso. Con i mercati azionari che continuano il loro andamento rialzista, la bassa volatilità di molte asset classes e l’elevata correlazione (“risk-on/risk-off”), gli investitori non hanno molta protezione in caso di un’inversione del trend. Ci sono perciò dei momenti in cui paga essere non convenzionali.

Alcuni investitori sono molto bravi nel selezionare i titoli, costruire il portafoglio e gestire il rischio. E ciò nonostante, spesso vi è poca differenza nella performance rispetto al mercato. Questo perché, alla fine, siamo tutti correlati con gli stessi mercati e le stesse condizioni macroeconomiche, e quindi facciamo tutti l’identico tipo di “scommesse”. Si possono fare tutte le analisi che vogliamo, ma quando il mercato crolla del 30% si tira dietro tutte le azioni (chi più, chi meno), così come un mercato rialzista aiuta tutti i titoli, anche quelli costosi o con fondamentali deboli (“A rising tide lifts all boats”). Per chi fa stock-picking è quasi impossibile evitare la correlazione di breve con il mercato, a meno di non voler tentare con market timing, trading su analisi tecnica o l’eccentrico mondo degli ETF short

Quello che può parzialmente mitigare questa situazione è allocare una parte del portafoglio (volendo: una parte significativa) a quegli investimenti che vengono raggruppati sotto l’etichetta di alternativi, che include una pletora di strategie diverse (private equity, special situations, distressed, activist, arbitrage, etc…).

La logica di questi investimenti non è necessariamente di ricercare qualcosa che abbia un rendimento superiore, quanto piuttosto che sia slegato dall’andamento dell’economia. Se si è in grado di ignorare la correlazione di breve con il mercato, il focus su questi investimenti dovrebbe portare ad una riduzione del rischio di portafoglio [se questo è quello che volete ottenere], con l’aggiunta del potenziale di buoni rendimenti anche in condizioni macroeconomiche negative.

Mentre molti cercano di costruire il proprio portafoglio combinando assets negativamente correlati (un po’ di azioni assieme ai titoli di stato: quando un mercato scende l’altro dovrebbe salire, o almeno così dice la teoria), l’ideale sarebbe di avere assets non correlati. Il motivo è che gli assets non correlati offrono la possibilità di prolungati rendimenti positivi, mentre quelli negativamente correlati offrono invece rendimenti inversi, come teorizzato nell’esempio di azioni + titoli di stato. Gli investitori dimenticano spesso questo elemento non certo secondario: aggiungono al portafoglio attività che si ritiene si muovano in maniera opposta rispetto a quanto già posseduto (il mantra ripetuto continuamente è: “Diversificazione!”) e poi diventano sempre più frustati dalle perdite su questi assets. Pensate al ruolo spesso assegnato all’oro rispetto alle azioni ed al suo andamento dal 2011 ad oggi: se il suo compito è di funzionare come un’assicurazione (bene rifugio) contro il crollo dei mercati azionari – non è così, anche se molti ancora ci credono –, è ovvio che il suo prezzo tenderà a scendere in un mercato azionario rialzista. Come si fa a lamentarsi se l’oro fa effettivamente quello che volevate facesse, solo che adesso non vi piace più il suo comportamento???

Per quello che riguarda i mercati azionari, ci sono tre categorie di investimenti da ricercare, in ordine crescente di importanza:

  1. Azioni negativamente correlate a livello settoriale: queste azioni non si muovono realmente in maniera opposta rispetto all’andamento dell’economia, anche se sono spesso magnificate nelle presentazioni da piazzisti dei brokers, il classico investimento in “gelati & ombrelli”. È vero che offrono una sorta di hedge a livello settoriale, ma i benefici si fermano qui e non si estendono in termini assoluti sulla performance del portafoglio.
  2. Azioni negativamente correlate: queste sono azioni i cui fondamentali si muovono genuinamente in maniera contraria rispetto al ciclo economico (ma controllate sempre la veridicità di questa affermazione!). Un declino economico fa effettivamente aumentare i loro fatturati, margini ed utili, ed offre la possibilità di acquistarle a prezzi più interessanti. Se questo sembra controintuitivo, pensate all’attività di Intrum Justitia (IJ:SS), azienda svedese specializzata nella gestione e riscossione dei crediti dubbi, oppure a Burford Capital (BUR:LN), che si occupa di aiutare e finanziare in caso di dispute e cause commerciali, che tipicamente aumentano proprio in periodi di recessione.
  3. Azioni non correlate: il loro business ed i rendimenti offerti non sono influenzati dall’andamento macroeconomico.
A dire la verità, ci sarebbe anche una quarta categoria, anche se sembra troppo bella per essere vera: azioni non correlate con rendimento garantito. Aggiungere al portafoglio azioni non correlate è bene, ma di per sé non garantisce rendimenti positivi e nemmeno sufficienti: forse abbiamo ridotto il rischio in aggregato, ma ci siamo condannati a rendimenti contenuti. Questi investimenti esistono: sono rari, ma ogni tanto Mr. Market è così generoso da presentarne qualcuno. I casi più frequenti sono quelli di liquidazioni/wind-down aziendali: spesso annunciati dopo aver venduto la maggioranza delle attività, offrono una sufficiente certezza di ricevere un valore finale pre-determinato in tempi ragionevoli (da 6 mesi a 2 anni).

[Nota: quella che segue è una panoramica - certamente non esaustiva - dei titoli che ho trovato, ma non è assolutamente una raccomandazione né di acquisto né di vendita. Nelle prossime settimane cercherò di analizzare nel dettaglio alcuni di essi, ma ogni lettore è pregato di fare le proprie considerazioni e valutazioni, anche e soprattutto sull’idoneità degli investimenti alle proprie caratteristiche psicologiche e finanziarie. Come sempre, la sigla tra parentesi dopo il nome è il ticker Bloomberg.]

ETF alternativi
Ci sono oggi, soprattutto negli US, molti ETF alternativi (alle volte classificati come azionari tematici), non solo short e a leva, ma che investono ad esempio in strategie equity-hedged in maniera sintetica. La mia personale opinione è che questi ETF sono poco trasparenti (non sempre si sa esattamente come è composto l’indice che il fondo dovrebbe replicare), hanno strutture e/o strategie non molto allettanti, ma soprattutto non sembrano essersi coperti di gloria in termini di performance.

Un esempio tra tanti è quello di IQ Merger Arbitrage ETF (MNA:US): questo ETF investe in operazioni di M&A già annunciate con un focus globale, anche se oltre il 90% del NAV è in operazioni americane. Ma non è questa la cosa peggiore: quando compra l’azienda target dell’acquisizione, l’ETF si copre dal rischio che l’operazione non venga poi completata (si chiama infatti risk arbitrage), solo che non va short l’azienda acquirente, cosa che avrebbe senso, bensì usa un indice di mercato (tipicamente S&P500)! Per una strategia event-driven questo tipo di copertura è assolutamente inutile, è un costo non necessario ed addirittura potrebbe essere deleteria portando ad una perdita senza alcun reale beneficio. Non esattamente la definizione di hedge

Private equity & hedge funds: gli asset manager
I classici investimenti alternativi citati da tutti sono ovviamente i fondi di private equity e gli hedge funds, che sembrano offrire la combinazione magica di bassa volatilità, bassa correlazione e rendimenti di lungo termine superiori. È vero, spesso sottoperformano in un mercato azionario rialzista, ma che importa se ci permettono di evitare i ribassi? Purtroppo la crisi del 2008 ha fatto realizzare a molti l’illusione di questa affermazione: tranne che per i migliori, la tanto decantata protezione dal downside si è rivelata, appunto, un’illusione. Molti di questi fondi hanno preferito, negli anni del boom, essere leveraged piuttosto che hedged.

Nonostante la compressione dei rendimenti (attesi ed effettivi), l’industria degli investimenti alternativi continua ad esercitare un certo fascino. Sfortunatamente, il vero problema per gli investitori privati è sempre stato quello dei costi, perché la maggior parte di loro vi accede attraverso funds of hedge funds, pagando due o anche tre livelli di commissioni. Molti ritenevano che questi costi fossero necessari per accedere ai migliori fondi, e pochi si lamentavano finché i rendimenti netti rimanevano soddisfacenti. Non sorprende che oggi, dopo anche molteplici scandali, molti investitori privati siano sempre meno entusiasti (questo vale anche per gli istituzionali, come dimostra la recente decisione di CalPERS di eliminare la propria allocazione agli hedge funds, anche se continua a mantenere quella a private equity): le strategie sono viste con più cautela, la loro liquidità è incerta ed i bassi rendimenti netti ci ricordano purtroppo di quanto le fees incidano sulla performance.

Tuttavia, don't throw the baby out with the water: alcuni fondi e strategie possono avere un importante ruolo all’interno del portafoglio, ed oggi ancor più che nel passato ci sono molteplici opzioni a disposizione anche degli investitori retail.

Con la sola eccezione di TPG (di cui si parla di frequente di una prossima IPO), oggi è possibile investire direttamente nelle società di gestione di fondi di private equity, in quanto quelle più grandi a livello mondiale sono quotate pubblicamente (e spesso hanno anche una importante divisione di hedge funds): KKR (KKR:US), Blackstone (BX:US), Apollo Global Management (APO:US), Carlyle Group (CG:US) e Fortress Investment Group (FIG:US).

Al di fuori degli US, altre società di private equity quotate includono: Partners Group Holdings (PGHN:SW), Private Equity Holding (PEHN:SW), GP Investments (GPIIF:US), SVG Capital (SVI:LN), 3i Group (III:LN), ONEX (OCX:CN), Wendel (MF:FP), Eurazeo (RF:FP), GIMV (GIMB:BB) e Ratos (RATOB:SS).

Per questi investimenti occorre però capire bene cosa si sta comprando esattamente: molte di queste sono normali corporation, mentre altre (soprattutto quelle americane) sono invece strutturate come private partnership per avere i benefici della quotazione ma allo stesso conservare il controllo nelle mani dei soci fondatori (ed avere anche una corporate governance meno stringente): in questi casi gli azionisti esterni posseggono infatti units, non shares. Nel caso di Blackstone, il prospetto della quotazione spiega: “Unlike the holders of common stock in a corporation, our common unitholders will have only limited voting rights and will have no right to elect our general partner or its directors. […] Our general partner, Blackstone Group Management L.L.C., which is owned by our senior managing directors, will manage all of our operations and activities.”

Le società quotate che gestiscono hedge funds sono in numero inferiore, anche se esistono altri veicoli per accedere alle loro strategie (discussi in seguito). Tra le maggiori vi sono: Oaktree Capital Group (OAK:US), Och-Ziff Capital Management (OZM:US), Ashmore Group (ASHM:LN, già trattata qui), MAN Group (EMG:LN), Charlemagne Capital (CCAP:LN), Polar Capital (POLR:LN), Miton Group (MGR:LN) e Gottex Fund Management (GFMN:SW).

Altri veicoli per investire in private equity
Una seconda opzione per investire in strategie di private equity sono i fondi chiusi (investment trust) quotati soprattutto sulla borsa di Londra dalle stesse società sponsor. Esistono fondi con focus geografici e/o di capitalizzazione svariati, e che perseguono strategie diverse (buy-out, leveraged recapitalisation, …), disponibili sia sotto forma di singoli fondi che fondi-di-fondi. Tra i più grandi vi sono: Princess Private Equity (PEY:LN, sponsorizzato da Partners Group Holdings e Swiss Re), Electra Private Equity (ELTA:LN), NB Private Equity Partners Fund (quotato sia a Londra NBPE:LN che ad Amsterdam NPBE:NA), HarbourVest Global Private Equity (anch’esso quotato sia a Londra HVPE:LN che Amsterdam HVPE:NA), Graphite Enterprise Trust (GPE:LN), HgCapital Trust (HGT:LN), Pantheon International Participations (PIN:LN), Oakley Capital Investment (OCL:LN), LMS Capital (LMS:LN) e Candover Investments (CDI:LN).

Infine, vi sono quelle che si chiamano Business Development Companies (BDC), il cui scopo è finanziare aziende medio-piccole attraverso una combinazione di debito e mezzi propri, inclusi finanziamenti tipo mezzanine e development capital. Tra le aziende quotate in questa categoria: Ares Capital (ARCC:US), Prospect Capital (PSEC:US), Intermediate Capital Group (ICP:LN) e JZ Capital Partners (JZCP:LN).

Funds of hedge funds
Così come per il private equity, anche gli investimenti in hedge funds possono essere fatti oltre che direttamente nelle (poche) società di gestione anche in veicoli creati e sponsorizzati dai gestori stessi.

Per i motivi indicati precedentemente e lo scarso appeal presso gli investitori, molti fondi di fondi quotati sono stati messi in liquidazione negli ultimi mesi, come ad esempio Dexion Trading (DTL:LN), Thames River Multi Hedge (TRMA:LN), Absolute Return Trust (ABR:LN) e Castle Alternative Invest (CAI:LN). Tra i sopravvissuti sulla piazza londinese sono disponibili Dexion Absolute (DAB:LN), Bluecrest AllBlue Fund (BABS:LN), BH Global (BHGG:LN), Boussard & Gavaudan Holding (BGHS:LN) e Altin (AIA:LN).

Singoli hedge funds
Questi veicoli sono simili ai precedenti, ma sono più focalizzati su una singola strategia ed includono alcune delle star del mondo degli hedge funds: Bluecrest Blue Trend (BBTS:LN, systematic trend), BH Macro (BHMG:LN, dove BH sta per Brevan Howard), Third Point Offshore Investors (TPOG:LN, event-driven e special situations, gestito da Daniel Loeb), Greenlight Capital Re (GLRE:US, strutturato come riassicuratore domiciliato a Bermuda ma in realtà un veicolo per gli investimenti di David Einhorn), Blackrock Hedge Selector (BHUE:LN, long/short equity sul mercato UK), DCG IRIS (IRIS:LN, protezione di event-risk in contratti assicurativi).

Prima di chiudere questa categoria, ci sono altri (spesso eccellenti) fondi che non sono propriamente hedge funds, ma che rientrano in questo gruppo per il loro approccio eclettico di go-anywhere solitamente focalizzato sull’ottenere rendimenti assoluti: First Opportunity Fund (FOFI:US), RIT Capital Partners (RCP:LN), Lindsell Train Investment Trust (LTI:LN), Independent Investment Trust (IIT:LN), Establishment Investment Trust (ET/:LN), Ruffer Investment Company (RICA:LN), Hansa Trust (HAN:LN), Personal Assets Trust (PNL:LN) e Livermore Investments Group (LIV:LN).

Infine, anche se non si tratta di un fondo, vorrei segnalare ABC Arbitrage (ABCA:FP), una società francese il cui core business è semplicemente l’arbitraggio tra differenti mercati finanziari (principalmente azioni e derivati azionari), inteso come combinazione di più operazioni che mirano ad ottenere profitti senza rischi sfruttando le imperfezioni nei prezzi dei titoli.

Strategie: activist
Le strategie activist sono diventate di moda negli ultimi anni: un investitore acquista una quota significativa in un’azienda (spesso con performance operative mediocri o sub-standard, in genere a causa del management) e poi spinge per “realizzare il valore nascosto” attraverso operazioni straordinarie (M&A, spin-off, buybacks, ristrutturazione delle operazioni e/o del management,…). In realtà questo tipo di operazioni erano già molto comuni negli anni 1980, quando tuttavia gli investitori erano chiamati in maniera dispregiativa corporate raiders. Esempi recenti di queste attività anche in aziende blue chip sono l’intervento di ValueAct in Microsoft e di Trian Partners in Pepsico.

Questi interventi non hanno una timeline ben definita a priori, ma considerando l’approccio e le attese sul potenziale rendimento, le operazioni avvengono in genere in un periodo compreso tra 6 mesi e 2 anni: gli investitori che mirano a realizzare valore comprando assets a sconto (per poi forzare la vendita di parte o tutta l’attività) hanno in genere un orizzonte temporale più breve, mentre quelli che mirano a cambiamenti operativi nell’azienda sono spesso costretti ad avere una visione più lunga.

L’approccio di questi investitori è molto simile a quello value (oltre che ovviamente event-driven) e spesso capita di vederli attivi in aziende verso le quali anche gli investitori retail potrebbero avere un interesse. La differenza è che questi fondi non solo hanno a disposizione più soldi, ma soprattutto sono più aggressivi: gli investitori retail non sono quasi mai in grado di avere una visione completa della situazione, non sanno a quale prezzo gli activist sono entrati o se hanno delle coperture sotto forma di derivati (e quindi come potrebbero realmente guadagnare dall’intervento). Semplicemente acquistare un titolo dopo l’intervento di uno di questi fondi nella speranza di un rapido turnaround potrebbe non essere la scelta migliore.

L’alternativa – come suggerito per tutte le altre strategie – è di operare attraverso veicoli sponsorizzati da questi investitori, dove possibile. Alpine Select (ALPN:SW) e Special Opportunities Fund (SPE:US) sono appunto due esempi. Altre possibilità includono: Sherborne Investors (SIGB:LN), Terra Catalyst (TCF:LN, promosso da Laxey Partners e dedicato al settore immobiliare), Crystal Amber Fund (CRS:LN) e Oryx International (OIG:LN).

Oppure, la strada più semplice potrebbe essere quella di lasciare che sia Carl Icahn, probabilmente il più famoso e temuto raider di sempre, a gestire i vostri soldi attraverso Icahn Enterprises (IEP:US).

Strategie: distressed
Infine, un’ultima strategia tipica degli hedge funds, quella probabilmente più anti-ciclica e personalmente una delle mie favorite.

Questa categoria di investimenti rimane poco utilizzata ed approfondita. Probabilmente questo è dovuto alla scarsa conoscenza, alla presunta complessità o – più facilmente – è il naturale ottimismo che pervade i mercati finanziari a tenere lontani gli investitori: dopotutto, chi vuole comprare qualcosa che si è già rivelato un disastro, sopratutto quando si pensa che l’economia possa continuare ad andare sempre peggio?

L’altra faccia della medaglia, tuttavia, è che gli investitori in distressed assets sono assolutamente focalizzati sul valore (sconto) di quello che comprano, e non includere queste strategie nel proprio portafoglio vuol dire rinunciare ad un significativo hedge (ed una vera diversificazione!), nonché probabilmente ad una fonte di potenziali elevati rendimenti. Quando i tempi sono buoni, le strategie distressed rimangono quiete ed agiscono più come event-driven, riportando rendimenti più o meno stabili anche se non spettacolari (ovviamente occorre scegliere i gestori giusti ed i veicoli appropriati). Ma quando le cose cominciano a peggiorare, le opportunità si moltiplicano, i prezzi crollano e IRR (Internal Rate of Return) esplodono, anche se ovviamente ci possono volere alcuni anni (ed un miglioramento delle condizioni economiche) per vedere realizzati i rendimenti attesi.

Distressed investing è, nella sua forma più semplice, investire in titoli ed aziende che hanno dei problemi. Questa è un’attività specialistica, e la cosa migliore che la maggior degli investitori possono fare è riconoscere le proprie limitazioni e lasciare la sua attuazione ai professionisti. Per molti investitori, seguire questa strategia ha più senso che un investimento diretto, a causa della mancanza di tempo, conoscenza ed esperienza nel settore. Comprare azioni di aziende il cui prezzo è sceso precipitosamente può sembrare incredibilmente invitante, un investimento a basso rischio (“Quanto posso perdere, tratta solo a pochi centesimi?!?”) ed alto rendimento (“Basta che salga di pochi centesimi e, voilà!, ho raddoppiato il capitale!”). Ma anche gli investitori più accorti ed esperti si dimenticano di quanto in basso i prezzi possono scendere, finché non se accorgono una mattina davanti all’annuncio del fallimento o dell’aumento di capitale 100:1 (“I bought stuff at 3.5 cents once and I thought it can’t go down to zero. It can.”, Peter Cundill). A meno di avere una preparazione specifica, è meglio evitare queste situazioni (in genere, gli investitori retail non possono nemmeno accedere ai bond di queste aziende, che attenuerebbe il possibile downside): riconoscendo queste limitazioni, è meglio di nuovo procedere attraverso asset manager e/o veicoli dedicati.

Tre possibilità sono le già citate Fortress Investment Group, Oaktree Capital Group e Apollo Global Management; un’altra è Colony Financial (CLNY:US), un veicolo utilizzato da Colony Capital per investire in distressed real estate, mentre Better Capital (BCAP:LN) è più focalizzata sull’Europa.

Sotto forma di fondi quotati sono disponibili BH Credit Catalysts (BHCU:LN), del già citato Brevan Howard, che offre esposizione a distressed debt oltre a relative value e long/short credit, e NB Distressed Debt Investment Fund (NBDD:LN).

Le opportunità migliori negli ultimi anni (ma anche nei prossimi) verranno dall'Europa, soprattutto dagli assets ancora in pancia alle banche sotto forma di non-performing loans e simili. Il problema è che molte banche (e molti governi) non sembrano pronti ad ingoiare l’amaro boccone e cristallizzare le perdite nei loro bilanci: nonostante l’elevato interesse dei gestori soprattutto americani, ad oggi c’è stato solo un numero limitato di operazioni (Intesa ed Unicredit hanno firmato ad aprile un memorandum of understanding con KKR ed Alvarez & Marsal, ma ad oggi ancora niente è stato concretizzato).

Un’azienda europea che cerca di sfruttare questo tema è NBNK Investments (NBNK:LN), oggi controllata da Wilbur Ross, che ha recentemente lanciato anche una SPAC (Special Purpose Acquisition Company) chiamata WL Ross Holding Corp (WLRH:US). NBNK è un veicolo creato nel 2012 per acquisire alcuni assets che erano in via di dismissione da parte di Lloyds Banking Group. Avendo fallito nel tentativo, Ross è entrato attraverso un aumento di capitale ed ha riposizionato l’azienda verso acquisizioni nel settore bancario e finanziario in Europa continentale. Tuttavia, se non dovesse riuscire ad effettuare un’acquisizione significativa entro gennaio 2016, il veicolo sarà probabilmente messo in liquidazione.

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