lunedì 29 giugno 2015

È l’ora di dire addio alle strategie attive? (parte II)

Una delle conclusioni del post precedente era: “[…] In questa situazione, le buone strategie attive dovrebbero ribaltare la classifica degli ultimi anni (ma occorre saper distinguere i gestori veramente attivi dai closet indexers).” Come si riconosce quindi una buona strategia attiva?

Come già detto, il dibattito va avanti da anni: nonostante migliaia di dati e l’utilizzo di sofisticate tecniche statistiche, le conclusioni sono spesso discordanti. Questo è prevedibile, poiché questi studi usano differenti fonti per i dati, differenti periodi per l’analisi e differenti metodologie, senza ovviamente dimenticare che sono soggette ai normali bias della mente umana.  

Piuttosto che criticare questa o quella conclusione, ho preferito focalizzarmi sui pochi risultati comuni che sembrano essere indiscussi. In particolare, tre punti sembrano essere riconosciuti come fatti (e non opinioni):
  1. Al netto di costi e commissioni, i fondi attivi in media sottoperformano il loro benchmark di riferimento
  2. Alcuni gestori hanno dimostrato la capacità di battere il benchmark in maniera regolare, sempre al netto dei costi
  3. Una caratteristica comune tra i gestori al punto 2 è quella di investire con “high conviction” (mi dispiace, ma non sono riuscito a pensare a nessuna traduzione in italiano che rendesse bene l’idea)
Fatto #1
Nel suo articolo del 1991 “The Arithmetic of Active Management”, William Sharpe afferma:

“…it follows that the return on the average actively managed dollar must equal the market return. Why? Because the market return must equal a weighted average of the returns on the passive and active segments of the market. If the first two returns are the same, the third must be also”.
Se il rendimento medio dei fondi attivi è uguale al rendimento del mercato, ne consegue che il fondo attivo medio deve necessariamente sottoperformare una strategia passiva in termini di rendimenti netti per i suoi maggiori costi. L’evidenza empirica di dozzine di ricerche conferma questa affermazione.

Fatto #2
Ma in un altro passaggio dello stesso articolo Sharpe dice:

“It is perfectly possible for some active managers to beat their passive brethren, even after costs.”…”It is also possible for an investor (such as a pension fund) to choose a set of active managers that, collectively, provides a total return better than that of a passive alternative, even after costs.”
Di nuovo, l’evidenza empirica supporta anche quest’altra affermazione, anche se la dimensione di questo alpha e la sua significatività statistica non sono ancora fattori accertati in maniera conclusiva. Quello che è importante sottolineare, tuttavia, è che mentre è vero che il fondo attivo medio fa peggio del mercato al netto dei costi, non tutti i gestori/fondi sono “medi”.

Fatto #3
Questa attestazione è supportata dai risultati dei seguenti studi (i riferimenti sono alla fine del post):


La definizione di “investing with high conviction” può variare, ma le conclusioni sono sempre le stesse, e sono intuitive: per far meglio di un benchmark, bisogna avere un portafoglio che sia differente da questo; per fare molto meglio, il portafoglio deve essere molto differente.

In particolare, la ricerca di Cremers e Petajisto (2009) sul concetto di active share [una misura della percentuale delle posizioni nel portafoglio che differiscono dalla loro percentuale nel benchmark] ha ricevuto molta attenzione. Il grafico sottostante illustra alcuni dei loro risultati ed aiuta a quantificare la miglior performance dei fondi con “high conviction”: mostra infatti come i fondi con la active share maggiore hanno una miglior performance al netto di tutti i costi, mentre quelli con la active share più bassa sottoperformano.

Alpha (al netto di tutti i costi) secondo active share


Le discussioni sulla superiorità tra strategie attive e passive andranno avanti probabilmente per sempre. È indubbio, come dimostrano i dati, che oltre 80% dei fondi attivi ogni singolo anno non riesce a battere il benchmark di riferimento. Ma questi sono tutti quei fondi comuni, soprattutto di emanazione bancaria o assicurativa, che si definiscono “attivi” ma non lo sono affatto.

Essere veramente attivi non è di per sé una garanzia che si farà meglio del mercato: ma è l’unico modo per provare a riuscirci. Se il portafoglio è simile al benchmark, e ci si fa pagare profumatamente (2%-3% solo in commissioni di gestione), è assolutamente matematico che si avrà una performance netta decisamente inferiore.


Bibliografia

  • Amihud, Y. and Goyenko, R. (2012), Mutual Fund's R2 as Predictor of Performance, NYU Stern School of Business and McGill University.
  • Baks, K., Busse, J., Green, T. (2006), Fund Managers Who Take Big Bets: Skilled or Overconfident?, Emory University.
  • Brands, S., Brown, S., Gallagher, D., (2004), Portfolio Concentration and Investment Manager Performance, UNSW Australia Business School, NYU Stern School of Business, UNSW Business School.
  • Cremers, M., and Petajisto, A., (2009), How Active is Your Fund Manager? A New Measure that Predicts Performance, Yale School of Management.
  • Jian, H., Verbeek, M., Wang, Y., (2011), Information Content When Mutual Funds Deviate from Benchmarks, Michigan State, Erasmus University Rotterdam School of Management.
  • Kacperczyk, M., Sialm, C., Zheng, L., (2004), On the Industry Concentration of Actively Managed Equity Mutual Funds, The Journal of Finance Vol LV, No 4, August 2005.
  • Petajisto, A., (2010), Active Share and Mutual Fund Performance, NYU Department of Finance, Yale School of Management.
  • Sharpe, William F., (1991), The Arithmetic of Active Management, Financial Analysts Journal. Jan-Feb 1991, pg: 7-9.

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