venerdì 22 gennaio 2016

Variabili non-predittive (parte II): beta game

“È proprio così, per ogni trend, per ogni mercato al rialzo, c’è l’ETF giusto, anzi il più delle volte c’è l’imbarazzo della scelta. Tra replica fisica e replica sintetica, tra accumulazione e distribuzione dei dividendi, tra cambio coperto (su base giornaliera o mensile) e aperto, ed in taluni casi con o senza leva, e con strategia smart beta al posto del classico approccio market cap.”

Iniziava così l’editoriale di qualche mese fa di un magazine specializzato in ETF, un'industria che è cresciuta in maniera esponenziale: quelli disponibili su Borsa Italiana sono oggi oltre 700, tutti presentati per offrire una specifica, e spesso esotica, esposizione ad un determinato segmento del mercato.


Ma questo porta ad una domanda: gli ETF sono costruiti per essere comprati, o per essere venduti? Che vuol dire: la “selezione” dei titoli all’interno di un ETF è basata sul loro marketing appeal o sulla loro effettiva utilità come investimenti?

Nel mondo accademico beta è una misura statistica del rischio di prezzo, la sensitività ai movimenti del mercato in generale: è un fattore considerato così essenziale nelle scelte di investimento che è tipicamente fornito nella scheda informativa o sul sito del provider dell’ETF.

È assolutamente razionale, in un mondo dominato dal concetto di rischio come numero, di cercare di ridurlo utilizzando strumenti che hanno un basso beta. Cercando tra quelli disponibili in Italia, ho trovato i seguenti prodotti definiti come low volatility, con investimenti per almeno €2,4 miliardi. In altri mercati, la cifra è ancora più impressionante: negli US il totale è di circa $25 miliardi. E questa lista non include tutti gli ETF azionari hedged, molto popolari come metodo alternativo per ridurre la volatilità.

Si tratta di capire cosa succede quando un singolo fattore (volatilità) diventa la forza trainante nella strutturazione di un prodotto. È questo il beta game: da un lato, ci sono le teorie accademiche ed il rigore statistico; dall’altro, la realtà dei mercati. E rimane il problema di cosa misuri effettivamente il beta, ma soprattutto il fatto che non ha alcun potere predittivo.

Un investitore potrebbe infatti pensare che le azioni small-cap siano più volatili delle large-cap: i dati empirici recenti non sembrano tuttavia supportare questa affermazione. Consideriamo alcuni ETF, come ad esempio iShares MSCI EMU Small Cap, per il mercato europeo, o iShares Russell 2000, per il mercato US: il primo ha un beta di 0,98, mentre il secondo addirittura di 0,86. Non solo: iShares Russell 2000 Value ha un beta di 0,74 e iShares Russell 2000 Growth ha comunque un beta di 0,97.

Un altro esempio. È indubbio che le aziende biotech siano più “rischiose” di un business medio: sviluppo di nuovi prodotti, approvazione da parte delle autorità, finanziamento di attività immateriali, … Quindi, qual è il beta di iShares Nasdaq Biotechnology (non disponibile in Italia)? Ecco i risultati:

   3 anni: 1,04
   5 anni: 0,79
   10 anni: 0,68

(Il valore su tre anni è salito sopra l’unità solo per la volatilità degli ultimi mesi, fino alla scorsa estate era inferiore a 0,90.)

Andiamo ancora più lontano, in senso letterale: prendiamo iShares MSCI Frontier 100 (anche questo non disponibile in Italia, ma ce ne sono di molto simili). Nel 2015 ha perso il 15%, ed un altro 15% da inizio anno: è investito per il 24% in Kuwait, 14% in Argentina, 12% in Nigeria, 10% in Pakistan e così via. Date queste premesse, uno si aspetterebbe un beta di 2 o forse anche 3: invece è 0,63 (!!!) rispetto a S&P500. Se credete veramente alle misure statistiche che molti utilizzano nelle decisioni di asset allocation, e se siete preoccupati dall’impatto di tassi più alti/crescita bassa, mettete tutti i vostri soldi nei mercati di frontiera: per definizione matematica, sono più sicuri.

Come è possibile che questi prodotti abbiano beta così bassi? Una risposta è che quando si calcola il beta si dovrebbe aggiungere anche il coefficiente di determinazione (R^2) della regressione, cosa che invece non compare mai. La letteratura accademica è piena di studi su quanto inattendibile sia il beta, ma citarla non aiuta certo a vendere questi prodotti.

Tutti questi veicoli che mostrano bassa volatilità hanno ricevuto sostanziali influssi negli ultimi anni: è difficile che il prezzo di qualcosa scenda se la maggior parte delle persone stanno comprando. E se mostra bassa volatilità, naturalmente riceverà maggiori influssi. Ma come per la leva, il ragionamento vale anche in senso inverso: periodi di maggiore volatilità porteranno il beta, in maniera del tutto naturale, ad essere superiore ad 1, e nei programmi automatizzati di gestione del portafoglio l’asset allocation che ne verrà fuori dirà che ne vuole di meno...

2 commenti:

  1. Mi fa piacere che hai portato in Italia l'attenzione su quest'argomento.
    E' da tempo che leggo articoli molto interessanti su http://www.horizonkinetics.com/ riguardo ad alcune implicazioni derivanti dall'uso sempre più diffuso degli ETF (e magari anche dei Robo-Advisors)
    Come sempre, complimenti per le tue analisi
    Luca

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    1. é vero, l'ispirazione è Murray Stahl.
      Non sono "contrario" agli ETF, che sono invece spesso molto utili, ma al modo in cui sono utilizzati (anticipare i movimenti dei mercati?) o a quello che ci si aspetta da loro, sopratutto gli smart beta (protezione incondizionata nei momenti di discesa? liquidità sempre garantita?).

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