Il punto di partenza è un argomento ampiamente discusso: praticamente tutti gli investimenti sono costosi, ed i rendimenti attesi sono molto bassi.
Stimare quali potrebbero essere i rendimenti dei mercati finanziari nei prossimi 5-10 anni potrebbe sembrare un esercizio futile (troppe variabili coinvolte), ma è comunque importante farsi un’idea di quali potrebbero essere partendo dai fondamentali (yields) attuali:
Guardando i grafici sottostanti (che si riferiscono al mercato americano per le serie storiche più lunghe, ma sono assolutamente simili per l’Europa) si nota come la compressione dei rendimenti reali non sia affatto un fenomeno recente, anche se oggi siamo ai minimi storici. Il fatto che tutto sia costoso significa che abbiamo preso a prestito dal futuro, e prima o poi arriverà il momento di ripagare questo prestito sotto forma di rendimenti futuri ex-post più contenuti. Mentre molti si interrogano su quando i tassi d’interesse torneranno su livelli “normali” (la Fed agirà in dicembre? e Draghi finirà il suo QE?), è molto più pratico ammettere che un’asset allocation basata su ipotesi di mean-reversion storica non è al momento l’approccio ideale.
Quindi la domanda più opportuna da farsi è: quale di tre spiacevoli scenari è il male minore?
- Slow pain: i bassi yields continuano per alcuni anni: tutto quello che possiamo fare è incassare le magre cedole e dividendi, che vuol dire però che molti investitori devono ridurre drasticamente le loro aspettative di spesa futura. Tra i settori che soffrono di più vi sono le assicurazioni, soprattutto quelle ramo vita.
- Fast pain: il momento di ripagare il “prestito” arriva prima di quanto ci aspettiamo: tutti gli yield reali aumentano, e tutti i portafogli long-only subiscono delle perdite. Nel caso di assicurazioni e fondi pensione, diminuisce anche il valore dal lato delle passività, quindi sono più o meno bilanciati.
- 2008 redux: i rendimenti richiesti dalle azioni aumentano (➜ le valutazioni crollano), mentre i rendimenti delle obbligazioni scendono (➜ i prezzi salgono). Un doppio colpo per i fondi pensione underfunded con un liability mismatch.
Cosa possono quindi fare gli investitori in questa situazione?
- Più azioni: non solo in molti casi il rischio azionario è già predominante nei portafogli di lungo periodo, ma storicamente le azioni non sono a buon mercato e molte di esse sono negativamente impattate da un rialzo dei tassi d’interesse reali.
- Scendere di rating (= rischio di credito) per le obbligazioni: ma questi titoli si comportano più come azioni che come titoli di stato, anch’essi non sono storicamente cheap e sono sensibili ad un aumento dei tassi reali.
- Absolute return: anche in questo caso il rischio è spesso collegato ai mercati azionari, e troppo spesso si pagano costi troppo elevati per alpha che in realtà è beta. La selezione dei gestori è basilare per ottenere un vero alpha.
- Asset alternativi illiquidi: valgono le stesse considerazioni delle obbligazioni high yield, ma possono essere una possibile soluzione per chi ha la pazienza (e possibilità) di mantenere le posizioni nei periodi di ribasso
- Market timing: ovvero vendere tutto e stare liquidi visto che tutto è costoso. Possibile, ma la maggior parte delle trading rules sono troppo semplicistiche e soprattutto non danno i risultati sperati (ad esempio quelle basate sul P/E di Shiller, che per chi non lo avesse ancora capito non è e non è mai stata una metrica per fare market timing). La storia insegna che in queste situazioni è richiesta molta umiltà: è molto difficile se non impossibile identificare i punti esatti di inflessione dei mercati.
- Smart beta (style premia): ovviamente la soluzione preferita da AQR, anche se ammettono che è solo parte della risposta al problema di bassi rendimenti attesi.
Gli analisti ne hanno identificati dozzine se non centinaia, ma quelli che meritano attenzione in termini di asset allocation strategica sono 4 fattori market neutral (value, momentum, carry, defensive/quality), più uno direzionale (trend, in parte incluso in momentum).
L’approccio di smart beta tipico di molti ETF in voga in questi mesi è un buon punto di partenza, ma di per sé non dovrebbe essere il punto di arrivo: i classici portafogli basati su indici tradizionali (market-cap) possono effettivamente essere migliorati introducendo uno style tilt, ma le soluzioni che applicano solo uno “stile” e soprattutto nella forma long-only non sono ottimali.
Al contrario, questi portafogli funzionano meglio come multi-strategy sui vari premi e sulle varie classi: offrono infatti una migliore diversificazione rispetto ad un solo fattore o una sola classe; riducono i costi di transazione; permettono una strategia più “paziente” (meno timing e minor turnover).
Anche il quinto fattore, trend following, ancorché direzionale, mostra rendimenti storici positivi: investire in futures e forwards su differenti assets è stato dal 1800 più redditizio di una strategia contrarian.
Se usati in un portafoglio market-neutral, questi fattori hanno una bassa correlazione con le tradizionali classi e tra di loro, favorendo la diversificazione. Da notare però la correlazione tra value e momentum (-0,66): una correlazione molto negativa è tutt’altro che ideale, perché significa che non si guadagna mai niente. Quindi un approccio di solo value + momentum non ha molto senso.
Una delle domande che molti si pongono è se l’utilizzo sempre più diffuso di queste strategie (dozzine di ETF, centinaia di pubblicazioni e conferenze) non possa portare alla riduzione o addirittura alla scomparsa di questi premi. Questo non dovrebbe succedere finché sono causati principalmente dal comportamento degli investitori (= ci sono limiti al loro arbitraggio):
- La maggioranza degli investitori hanno ad oggi fatto solo allocazioni marginali a questi fattori, e soprattutto attraverso strategie smart beta long-only
- La maggior parte dei flussi verso queste strategie sono venuti dalla ri-allocazione da gestori pseudo-attivi, che per decenni hanno utilizzato in maniera esplicita e/o implicita questi fattori
- L’eterogeneità degli approcci vuol dire che non tutti i quant implementano i portafogli allo stesso modo, anche all’interno di un singolo style premium e men che meno all’interno di una singola classe.
- Un portafoglio che includa tutti i fattori è meno dipendente dall’efficacia di uno solo o su una sola classe.
In secondo luogo, la bontà di queste strategie è in genere misurata appunto dal loro Sharpe ratio: come sanno quelli che mi conoscono, una delle mie critiche preferite è che nessun investitore campa con un elevato Sharpe ratio! Per trasformarlo in rendimenti sufficienti (dato, come detto, i bassi yield attuali su molte classi) non solo serve un approccio long/short ma è anche necessario utilizzare una significativa leva, cosa che molti investitori potrebbero non essere propensi a fare (per l’avversione al rischio che comporta, o per l’impossibilità di andare short o usare derivati).
Conclusioni
Gli style factors potrebbero essere una delle risposte migliori alla sfida di bassi rendimenti futuri: una semplice ottimizzazione mean-variance dimostra che meritano un ampio peso in un portafoglio ben diversificato.
Purtroppo, per beneficiare appieno dei loro vantaggi devono essere implementati in una forma long/short, non sempre facilmente accessibile per gli investitori retail: i portafogli long-only sono molto meno efficaci soprattutto in termini di rendimenti assoluti, ed ancor di più se limitati ad un solo fattore.
Infine, questi fattori sono intuitivi e ben noti (non sono una novità degli ultimi anni), ma la loro implementazione è tutt’altro che semplice: occorre una costruzione sofisticata del portafoglio che massimizzi la diversificazione ed abbia una visione integrata su stili ed asset classes, e che sappia controllare il livello di rischio introdotto dalla leva. Di nuovo, una soluzione non immediata per i clienti retail, ad esempio nella forma di liquid alt.
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