venerdì 22 gennaio 2021

Bubble series (IV): shale oil vs. tech

[Ultimo post, per il momento, di questa serie sulle “bolle”]

Pochi settori negli ultimi dieci anni hanno distrutto tanto capitale quanto Oil&Gas, in particolare nello shale: attratti dai miglioramenti tecnologici, dai costi all’apparenza bassi e dagli allettanti IRR (internal rate of return) pubblicizzati dal management, gli investitori si sono riversati nel settore, ma sono rimasti scottati perché le perdite sono aumentate, i livelli del debito sono saliti alle stelle ed i prezzi delle azioni sono crollati.

Gli investitori hanno correttamente identificato una storia di crescita secolare: si può discutere dei problemi ambientali del fracking, ma sicuramente le nuove tecnologie hanno permesso di sbloccare enormi riserve di idrocarburi che hanno riportato gli Stati Uniti ad essere il principale produttore mondiale. Tuttavia, identificare il potenziale di crescita non è sufficiente: quello sul quale gli investitori si sono sbagliati è la redditività, con le conseguenti notevoli perdite nonostante la straordinaria crescita strutturale.

Se i costi operativi di ogni singolo pozzo sono (presumibilmente) bassi e gli IRR molto alti (non di rado sono presentati come >50%), perché il settore non ha prodotto risultati migliori? La risposta è nell’aver confuso l’analisi statica con quella dinamica, esattamente quello che sta succedendo oggi nel settore tecnologico. 

Fonte: Platts e Range Resources

È vero che le unit economics di un singolo pozzo sono molto allettanti se si confrontano i costi di produzione con i flussi di cassa marginali che il pozzo genera, ma ci sono anche enormi costi aggiuntivi “di supporto” che devono essere inclusi nel calcolo.

Le società estrattive devono acquistare/affittare i terreni; perforare e dimostrare l’esistenza di sufficienti riserve; costruire l’infrastruttura di lavorazione e logistica (o pagare qualcuno perché la fornisca); ed è necessario finanziare tutte queste spese in anticipo, spesso ricorrendo al debito. Aggiungiamo infine tutti i vari costi di gestione della società, anche se non è obbligatorio che siano spropositati. Quindi, IRR a livello di singolo pozzo è elevato, ma il ROIC a livello aziendale dopo aver considerato tutti questi costi (che sono in genere fissi) è invece molto basso, ed inferiore al costo del capitale. È questo il motivo per il quale gli eccellenti IRR pubblicizzati dal management nelle presentazioni agli analisti non si sono poi trasformati in sufficienti flussi di cassa.

E cosa fa il management di un’azienda quando si accorge che gli elevati costi fissi stanno riducendo i rendimenti? Aumenta i volumi: via via che si incrementa la produzione, le economie di scala dovrebbero prevalere ed i margini operativi migliorare (i costi fissi si riducono in proporzione sul totale), con il ROIC aggregato che dovrebbe convergere verso IRR dei singoli pozzi.

In realtà questo funziona solo se si assume un’analisi statica, ossia che tutti gli altri fattori che influiscono sulla redditività dell’azienda (soprattutto il comportamento dei tuoi concorrenti) rimangono costanti. Ma il mondo reale è dinamico, non statico: le (re)azioni a livello micro degli altri attori economici possono modificare i fattori a livello macro in modi imprevisti. Nel caso specifico, l’effetto non era nemmeno imprevisto, perché è quello che succede regolarmente nel settore delle commodities: l’aumento della produzione da parte di tutte le aziende nel tentativo di migliorare la propria redditività ha portato al crollo del prezzo del petrolio (ed ancora di più del gas naturale). Quello che era razionale a livello individuale si è rivelato irrazionale a livello collettivo.

Ogni produttore pensava: abbiamo 50 pozzi, sulla base delle microeconomie attuali e dei costi fissi, se aumentiamo a 100 pozzi saremo in grado di avere rendimenti decenti. Ma quando la produzione è aumentata, i prezzi del petrolio sono scesi così che il contributo di ogni pozzo è diminuito (nei migliori casi si stima da IRR di 60% a 30%). Il management si accorge che “le condizioni economiche esterne” sono meno favorevoli del previsto e conclude che se pompano 200 pozzi invece di 100 potranno compensare i minori IRR a livello unitario. Ma come è facilmente comprensibile questo non fa altro che esacerbare il problema.

Questo spiega perfettamente perché i produttori dello shale siano stati così inflessibili nell’aumentare i volumi di produzione nell’ultimo decennio: l’aumento della produzione – oggi è chiaro - è stato dovuto proprio a causa del calo dei prezzi. Ci si potrebbe allora chiedere perché abbiano così tanta fretta di consumare le loro riserve (non rinnovabili) in un contesto di prezzi così bassi: perché non limitarsi ad aspettare condizioni migliori? La risposta è proprio perché hanno considerevoli costi fissi – anche e soprattutto gli interessi sul debito - e finirebbero per morire dissanguati se decidessero di aspettare. Qualsiasi margine positivo serve a sostenere questi costi fissi: contrariamente all’opinione popolare (“i petrolieri vogliono solo pompare sempre di più”), è una necessità economica, perché l’alternativa è il fallimento.

Considerazioni simili si possono fare per un altro settore che soffre degli errori associati all’analisi statica rispetto a quella dinamica: tutte le aziende di software/piattaforme/somethingtech che operano in perdita. [*] Potrebbe sembrare che queste società abbiamo molto poco in comune con il settore petrolifero, ma i parallelismi economici sono in realtà piuttosto sorprendenti. L’unica differenza è che il mercato è al momento hot per qualsiasi società tech in rapida crescita, indipendentemente dallo stato attuale di profitti e flussi di cassa, perché gli investitori stanno ancora utilizzando analisi statiche piuttosto che dinamiche per valutare le loro prospettive, proprio come facevano molti anni fa per valutare i produttori di shale prima della recente implosione del settore.

Spinti dalle iperboli del management, gli investitori sono concentrati quasi unicamente sulla crescita dei ricavi e sul margine di contribuzione associato a volumi aggiuntivi. Il livello dei costi di supporto è generalmente ignorato, così come le perdite che questi costi generano: sono ritenuti in gran parte irrilevanti poiché si ritiene che percentualmente si ridurranno nel corso del tempo con la crescita esponenziale dei ricavi. È per questo che queste aziende sono valutate quasi esclusivamente su metriche come P/sales o P/gross margin.

Uber, ad esempio, pubblicizza costantemente il suo eccellente “contribution margin” su ogni singola corsa. Tuttavia, dopo oltre dieci anni di attività perde ancora circa $1 miliardo a trimestre, perché R&D, marketing, customer service e gli altri costi necessari per sostenere l’attività sono piuttosto elevati. Per inciso, con l’eccezione degli intermediari puri come i supermercati, la stragrande maggioranza delle aziende al mondo hanno margini lordi molto positivi e pur tuttavia trattano a bassi multipli dei profitti: gli investitori al di fuori di tech non guardano ai multipli del profitto lordo perché sono consapevoli che senza i costi di supporto ad essi associati, quei profitti lordi e il margine di contribuzione non potrebbero essere generati.

Il problema però è che - come nel caso dello shale – la realtà è dinamica, e non si può assumere che tutto il resto rimanga costante: è ingenuo pensare che le aziende con business consolidati che le start-up cercano di disrupt si adageranno pigramente e consentiranno a quest’ultime di conquistare incontrastate l’intero mercato.

In realtà, con sempre più aziende che spingono sulla crescita dei volumi per recuperare i costi fissi, quello che è probabile accada (ed in effetti sta già accadendo) è che la competizione aumenterà in modo significativo e porterà ad un calo dei margini lordi che compenserà – in negativo - la crescita dei volumi (che ci sarà, questo è indubbio). Questo si manifesta non solo sotto forma di sconti sul prezzo al consumatore finale, ma soprattutto nell’aumento dei costi di acquisizione dei clienti attraverso offerte promozionali, che quasi sempre sono posizionate al di sotto della linea del margine lordo. Nonostante le aziende presentino queste operazioni in termini di “enhanced customer value” e “driving engagement”, l’espressione “to buy market share” attraverso sconti (Amazon!) esiste da tempo e questa iterazione non è diversa. Quello qui sotto è solo un esempio recente, e parliamo di un’azienda che è già redditizia (Just Eat Takeaway.com).
Non c’è indicazione più lampante che stia accadendo proprio questo del fatto che molte aziende – nonostante siano Covid-winners - continuano a rinviare la previsione di quando raggiungeranno il pareggio; o – peggio ancora - vedere i margini diminuire anche con volumi in aumento. Fino al 2017, MercadoLibre (l’Amazon sudamericana) aveva margini lordi di 60% e margini operativi di 17%: oggi sono scesi a 45% e 2%, rispettivamente (in miglioramento negli ultimi mesi grazie a Covid, nel 2018-2019 il margine operativo era diventato negativo). Perché? Perché ci sono molti concorrenti che tentano di aumentare i volumi in maniera aggressiva per recuperare i costi fissi e, proprio come in qualsiasi settore, è difficile essere più intelligenti del tuo concorrente più stupido.

Un altro esempio è Blue Prism (PRSM LN), un’azienda che si occupa di Robotic Process Automation (RPA):
“Automating back-office tasks has become a gold rush for software makers. Privately owned specialists UiPath and Automation Anywhere have been outspending Blue Prism to land customers while Microsoft and SAP threaten to commoditise the simpler end of market by adding me-too functions. Blue Prism responded last year by more than doubling its research and development spend yet the R&D budget of £17.7m is still less than a fifth of its sales and marketing costs. It’s hard to know for sure whether 2020’s flat order intake and slowing customer additions are Covid-related or the long-term price of under-investment.
Le tanto pubblicizzate metriche di LTV / CAC (long-term value / customer acquisition cost) forniscono un conforto ingannevole sulla bontà di spendere per crescere, perché presumono che LTV sia “garantito”: invece è semplicemente un calcolo ipotetico basato su un’analisi statica di come le cose sono oggi, piuttosto che un’analisi dinamica di come potrebbe essere in futuro in una situazione di mercati sempre più saturi e competitivi. Anche nello shale LTV dei pozzi era molto alto rispetto al loro WAC (well acquisition cost), ma abbiamo visto che le cose sono andate diversamente. Invece di vedere una guerra dei prezzi come un sintomo di un eccesso di offerta / concorrenza, gli investitori si accontentano di credere alla finzione che questo è un “investimento nella crescita futura” e di essere “long term greedy’”.

Dopo i fallimenti del 2000-03 ci siamo interrogati su come fosse possibile che così tante persone intelligenti siano riuscite a convincersi che le normali leggi dell’economia non si applicassero alle società Internet. Ebbene, oggi sta accadendo qualcosa di molto simile: gli investitori tecnologici non hanno remore a pagare prezzi elevati perché ritengono che le normali forze di domanda ed offerta, la concorrenza (sia attuale che futura) e un rapido afflusso di capitali nel settore non spingeranno i rendimenti al ribasso nel modo in cui è sempre avvenuto in passato in ogni settore.

Quando si parla di bolle e correzioni dei mercati azionari, i giornali ed i social si concentrano sulla crescita esponenziale dei prezzi delle azioni, sui multipli elevati e sulla prossima reversion-to-the-mean, sia sostenendo con assoluta certezza che sia vicina, sia che invece il mondo è cambiato e questa volta non ci sarà. Queste previsioni attirano l’attenzione e scatenano le discussioni, ma servono a poco. Un buon investitore si concentra invece sui fondamentali economici e come potrebbero essere nei prossimi anni in un’analisi dinamica.
"Fundamentals are not about forecasting the weather for the next day, but rather noticing that it is raining currently."
Comprate un’azienda (anche e soprattutto il management), non un prodotto – o peggio ancora un tema.

[*]
Questo non include le società di tecnologia / software con modelli di business che si sono dimostrati redditizi, sebbene tali società possano ancora essere danneggiate dalle azioni di altri attori del settore, più o meno come è capitato in O&G.

7 commenti:

  1. bravo, non avevo mai pensato alle analogie tra oil e tech.
    Praticamente l'araba fenice è raggiungere la massa critica per innescare la reazione a catena (=la redditività). Solo che intanto lo fanno anche gli altri...

    Semplifico molto, ma per una Amazon che ci riesce quante non ce la faranno?.
    Comunque anche questo è l'ennesimo fenomeno figlio illegittimo dell' helicopter money, il denaro a pioggia.

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    1. Le analogie tra i due settori sono minime, ma le leggi dell'economia valgono per tutti.

      In alcuni mercati "winner takes all" e raggiungere la massa critica è essenziale: ma molti altri rimangono competitivi per molti players, e quindi o hai un prodotto/servizio che hai solo tu, o i margini sono destinati a comprimersi.

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    2. Scusa, ho riletto bene il tuo post e ho dimenticato una cosa: la pressione sui margini di un mercato globale come la net economy ha effetto deflattivo globale. Per cui il rischio inflazione è mitigato.

      Permettimi una annotazione "fuori tema", infine, a cui cerco di non pensare. Noi gongoliamo da casa a vedere su Amazon/Aliexpress ecc. prezzi ancor più concorrenziali, ma intanto - come sempre in questi casi - saranno ancor più fregati i poveracci, i bambini, gli schiavi - in qualche baracca a lavorare per sopravvivere.

      2/3 miliardi di morti di fame servono per far star bene noi.
      Lo so, succede da sempre, "E' il capitalismo, bellezza", ciao.

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  2. Visione molto interessante, credo che il discorso sia un po' diverso per quelle aziende che cercano di creare in fretta un effetto rete per poi rendere il "lock-in" molto forte. Esempio Facebook, difficile che un competitor possa ormai impensierire una rete con oltre 1 miliardo di persone.
    A tal proposito segnalo un libro molto interessante scritto da Stefano Quintarelli: Capitalismo Immateriale.

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  3. Molto interessante questa "Bubble Series". Grazie per averla realizzata e condivisa

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  4. A parte l'ultima frase (penso che un investore privato debba sempre partire e magari anche limitarsi ai prodotti che conosce e alle azienda che li vendono) sono d'accordo su tutto. Credo che la differenza oggi sia soprattutto che l'attuale fase di esuberanza sui mercati, e' meno irrazionale delle precedenti, perche' nelle precedenti avevamo una situazione di tassi medio/alti. Se oggi scegli di uscire dall'equity, devi aspettarti rendimento zero per anni, con il rischio di beccarti in faccia una inflazione significativa prima o dopo.

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    1. Partire d un prodotto che si conosce bene è corretto, ma non bisogna "innamorarsi" di un prodotto/servizio che si conosce bene (per quanto buono sia) e non considerare l'importanza del mercato e dell'azienda: basta ricordare Nokia, GoPro, BackBerry e tanti altri

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