giovedì 4 marzo 2021

Blackrock (ed altre considerazioni sugli asset managers)

È sempre interessante analizzare i risultati di Blackrock (BLK:US) per avere un’idea di cosa sta succedendo nel settore dell’asset management.

Lo scorso anno BLK ha raggiunto l’incredibile ammontare di US$ 8,677 miliardi in gestione (la seconda società, Vanguard, è comunque sopra $7.000 miliardi): l’incremento rispetto al periodo precedente è di ben US$ 1,247 miliardi. Di questi, US$ 391 miliardi sono stati influssi netti: per mettere i numeri in prospettiva, è come se lo scorso anno BLK avesse costruito da zero più di Eurizon Asset Management, che gestisce circa €300 miliardi. Il resto è venuto per $745 miliardi da performance dei mercati (tutti i fondi di BLK, su tutte le asset classes, hanno nel 2020 avuto un rendimento medio di 10%!) e US$ 110 miliardi da movimenti nei tassi di cambio.

10% degli AUM sono riconducibili direttamente a clienti retail, 59% sono istituzionali ed il restante 31% è invece iShares (non suddividibile).

66% sono in strategie passive (sia ETF che fondi), 26% sono strategie attive ed il restante 8% è cash management. Dal 2009, data dell’acquisizione di Barclays Global Investors e quindi di iShares, gli AUM sono cresciuti ad un tasso annuo composto di 9%, ed ancora più rapidamente negli ultimi 3 e 5 anni, con CAGR di 11% e 13%, rispettivamente.
Fonte: bilanci di Blackrock ed analisi proprie.

Più nello specifico, oltre 50% degli AUM sono in azioni, 31% in obbligazioni e 8% ciascuno in multi-asset (fondi target date e target risk, portafogli di asset allocation, …) e strategie alternative (infrastructure, private equity, private credit, currency, commodities).
Fonte: bilanci di Blackrock ed analisi proprie.

Quando si pensa a BLK vengono subito in mente gli ETF: in realtà, iShares rappresenta “solo” 31% del totale, mentre il 35% è in altri fondi passivi (non-ETF). Ancora più peculiare è la suddivisione per classi: mentre per le azioni la stragrande maggioranza è data da strategie passive (91% in totale, vs. solo 9% in strategie attive), in campo obbligazionario le percentuali sono distribuite più equamente, con 39% degli AUM in fondi attivi, 26% in ETF e 35% in fondi passivi. È vero che le strategie obbligazionarie sono più “variegate” e segmentate di quelle azionarie, ma almeno per BLK i clienti sembrano ritenere di avere maggiori possibilità di avere un qualche alpha – per quanto piccolo – in campo obbligazionario, mentre è quasi impossibile farlo in campo azionario. Questi risultati sono riflessi nelle performance riportate da BLK, dove 88% dei fondi attivi obbligazionari batte il proprio benchmark su 5 anni rispetto a 85% dei suoi fondi azionari attivi. Tra quest’ultimi, da rimarcare come le strategie fondamentali sembrino negli ultimi anni fare molto meglio di quelle sistematiche.
In termini di crescita, tuttavia, queste considerazioni si ribaltano: in campo azionario le strategie attive e passive hanno tassi di crescita simili (c.9,5% annuo negli ultimi tre anni, anche se su basi assolute di $ completamente differenti), mentre in campo obbligazionario quelle passive stanno crescendo a tassi doppi (16% vs 8% negli ultimi 3 anni).

In termini di management fees, 47% del totale viene dalle strategie azionarie, 28% da quelle obbligazionarie, 10% da alternatives e 9% da multi-asset.
Fonte: bilanci di Blackrock ed analisi proprie. I dati del 2009 riflettono le commissioni di iShares solo per metà anno: l’acquisizione di BGI è infatti avvenuta a giugno 2009.

Ed è qui che le cose si complicano: mentre negli ultimi 10 anni gli AUM sono cresciuti di 9,3% l’anno, i ricavi da management fees sono invece cresciuti “solo” di 5,7%, con una proporzione sempre maggiore che viene da iShares, oggi al 37% del totale rispetto a 29% delle strategie attive. Questo riflette ovviamente le differenze nei costi delle varie strategie e veicoli, ma soprattutto un elemento al quale anche l’inarrestabile BLK non riesce a sfuggire: la progressiva compressione delle commissioni medie per tutti gli asset managers, causata dall’espansione degli ETF ma che colpisce anche (se non soprattutto) proprio i maggiori gestori di strategie passive. Il sito di Vanguard riporta che le commissioni medie su tutti i suoi fondi US sono di appena 10 bps.
Fonte: bilanci di Blackrock ed analisi proprie.

Questo elemento è comune a tutti i principali gestori (per lo meno per quelli quotati per i quali sono disponibili dati storici puntuali).
Fonte: bilanci delle varie società ed analisi proprie.

Valutazioni
Oggi BLK tratta ad un P/E di 22x, un P/BV di 3x e 1,2% degli AUM, tutte metriche superiori alle medie degli ultimi 10 anni (ad esempio, in genere ha trattato sotto 1% di AUM), che riflette le ottime performance del titolo negli ultimi anni.

Nonostante mercati azionari in continuo rialzo ed obbligazionari tutto sommato positivi, le previsioni sono tutt’altro che rosee per la maggior parte degli asset manager: le commissioni medie continuano a diminuire e le valutazioni per molti di loro stanno crollando.

La scorsa settimana Wells Fargo ha venduto ad un fondo di private equity il ramo di gestioni patrimoniali con oltre $600 miliardi in AUM per “soli” $2,1 miliardi, che equivale a 0,35% degli assets in gestione. Pochi anni fa i gestori tradizionali venivano venduti per 2% -3% degli AUM (e quelli alternativi per 7% -10%); nel 2020 Morgan Stanley ha pagato 1,4% per Eton Vance e Jupiter 1,8% per Merian, ma Templeton ha acquistato Legg Mason per solo 0,8%. [Lo so, i prezzi di acquisto in operazioni di M&A non dipendono solo dagli AUM, ma dal livello complessivo di redditività, composizione dei fondi, performance, rapporto costi / ricavi ...]

Bain ha pubblicato recentemente il suo rapporto su M&A, ed una sezione è dedicata proprio all’asset management, evidenziando 5 trend:
  1. Le società più grandi continueranno con acquisizioni mirate per aumentare ulteriormente le economie di scala
  2. Continuerà il consolidamento tra i gestori tradizionali di medie dimensioni
  3. Vendita di software come “servizio” che offre funzionalità per i manager più piccoli che vogliono rimanere indipendenti: BLK già lo fa con la sua piattaforma Aladdin 
  4. Spostamento sempre più massiccio verso strategie alternative, anche da parte di portafogli assicurativi (in genere molto conservativi, ma che oggi necessitano di yield che non trovano tra le obbligazioni)
  5. Dismissione di attività marginali che danneggiano le performance e distolgono l'attenzione dalla creazione di alpha
Per quello che valgono, le mie previsioni:

Vincitori
  • Aziende MOLTO grandi senza l'ossessione delle performance (Blackrock, Vanguard, …): come da punto 1) qui sopra, le economie di scale permettono di tagliare i costi e rimanere competitivi anche con commissioni medie in diminuzione
  • Alcune tra le aziende più grandi (Fidelity, …) se saranno in grado di offrire altri servizi a valore aggiunto (ad esempio, pianificazione per la pensione, trading, …) e non solo semplici soluzioni di investimento
  • Specialisti di nicchia (Ashmore nei mercati emergenti, Ark Invest nell’innovazione, …), almeno finché le performance rimangono buone (in caso contrario questi specialisti rischiano di “sparire” velocemente)
  • Boutique quantitative: sembra facile, ma replicare gli algoritmi di successo non è così immediato come molti ritengono
Perdenti
  • Gestori di medie-piccole dimensioni indifferenziati, soprattutto quelli all’interno di banche: è vero come dice Bain che continuerà il loro consolidamento, ma questo è fatto per tagliare i costi ed avere migliori economie di scala: a chi interessa comprare un gestore con prodotti poco efficienti che sopravvive solo con clienti retail in un mondo di ETF, robo-advisor ed open-architecture? Ritengo che Unicredit abbia preso la decisione giusta vendendo nel 2016 Pioneer ad Amundi per €3,5 miliardi.
Ancora indeciso
  • Banche private/wealth manager indipendenti di tipo “svizzero”: posso capire Goldman Sachs / JP Morgan / Morgan Stanley che usano le loro divisioni di asset management per offrire una gamma completa di prodotti ai loro clienti (soprattutto investimenti alternativi a HNWI); ma le altre banche hanno ancora bisogno di un gestore di fondi interno quando la distribuzione è radicalmente cambiata?

4 commenti:

  1. bellissimo post, che in definitiva riporta al fenomeno globale del low-cost. Mi sorge la seguente domanda: con la progressiva esternalizzazione dell'AM a causa degli ETF, le banche ad oggi dove possono trarre profitti operativi stand-alone, con simili tassi di interesse? O sono costrette a fare come tutti, cioè a comprarsi tra loro per maggiori economie di scala ? Pur comprendendo la logica indistriale, per me è come posporre il problema dei ricavi, perchè agisci sui costi e hai altri problemi dopo: filiali, personale ecc. Non riesco a immaginare un mondo senza credito, ma nemmeno riesco a immaginare una banca che guadagni nel vecchio sistema.

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    1. Tutto corretto.

      È difficile per le banche fare profitti con i tassi bassi: appena si sono alzati un po’ (o meglio: quando la curva diventa più pendente) sono tornate “sexy”. Il consolidamento è necessario (soprattutto in Europa) ma può solo tagliare i costi.

      Il problema delle banche commerciali (per quelle d’affari è diverso) è che vendono una “commodity” indifferenziata senza avere il minimo controllo sul suo prezzo…

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  2. Ciao Matteo, come sai ti seguo anche su Linkedin. In Italia ho sempre visto le due big (lavoro in una delle due) IntesaSanPaolo e UniCredit con due strategie diametralmente opposte, almeno finché era CEO Mustier. UniCredit punta a razionalizzare la rete, ha venduto Pioneer, non ha fabbriche prodotto interne lato investimenti e lato assicurativo, punta molto sull'innovazione (buddybank) e sui servizi digitali. Intesa invece continua a comperare altri istituti per acquisire nuove masse da gestire a cui vendere i propri fondi Eurizon e le proprie polizze IntesaSanPaolo Life. Per altro UniCredit ha venduto anche la rete di Fineco, mentre Intesa non si sognerebbe mai di cedere Fideuram. In sostanza sono due strade assolutamente divergenti, mi chiedo quale delle due sarà vincente a medio lungo termine.

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    1. Guardando i bilanci degli ultimi anni, per Intesa la divisione di Private Banking (raccolta e gestione del risparmio attraverso reti di consulenti finanziari e private bankers dipendenti, essenzialmente Fideuram) ha generato 13% dei profitti operativi, mentre Asset Management (cioè Eurizon) ha contribuito 7%. Un quinto degli utili operativi (ed ancora di più, 25%, a livello di profitti netti) viene da queste attività.

      Per il momento la scelta di Intesa sembra vincente, perché queste attività non richiedono nemmeno troppo capitale proprio per gestirle. Vediamo se un mercato ribassista (potenzialmente più pericoloso nelle obbligazioni) spingerà i loro clienti a cambiare il fornitore di prodotti.

      PS: scusa ma non so chi sia GG

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