“Inflation today is undoubtedly the greatest threat to one’s capital and we recommend the April 1 issue of Forbes which has an excellent article on this subject. It essentially states that many of the much-touted approaches to protect against inflation are traps, particularly for the uninitiated, in such areas as real estate, antiques, art and so on.” (aprile 1974)
“Inflation and the psychology which derives from it are largely responsible for the changes in demands made by owners (common stockholders) and by creditors (bondholders). Logic would seem to dictate that common stocks will find the going increasingly difficult at current or higher inflation and/or interest rates. We are mindful, however, that logic only works in the financial marketplace over long periods of time; in the short term, fear and hop tend to dominate the scene. (marzo 1981)”I due paragrafi precedenti sono presi dalle lettere agli investitori del fondo Sequoia, con un denominatore comune: per qualsiasi risparmiatore di medio-lungo periodo le aspettative di inflazione sono un fattore fondamentale da considerare in ogni decisione di investimento. Si può infatti dire che la sola ragione per risparmiare e rinunciare a consumare oggi è di avere la possibilità di consumare (si spera di più) in futuro. In altre parole, i risparmiatori sono interessati a mantenere il potere di acquisto dei loro investimenti ed il rischio di inflazione è probabilmente il più importante da considerare.
Le obbligazioni sono senz’altro impattate negativamente da un aumento dell’inflazione (data la “fissità” dei pagamenti); ma contrariamente a quello che molti ritengono, le azioni non sono (in aggregato) il miglior investimento in periodi di alta inflazione.
Sempre da Sequoia:
“While we have a low opinion of stock market predictions and the correlation of foreign policy and the price of Capital Cities Communication, we do place the expectation of future serious inflation as the paramount factor in investment planning and stock selection. We try to analyze the effect of 8%-10% inflation one ach company we study. There is a remarkable difference, for example, between the prospects of a steel company and those of a major advertising agency. One is plagued by huge costs to replace outmoded, fixed assets simply to meet competition in an industry with chronic overcapacity worldwide. For the most part, all reported earnings (and more) are devoted to this battle which has been made dramatically worse by inflation, and little is truly left for the stockholders. An advertising agency, on the other hand, has almost a 15% automatic over-ride on the growth, both real and inflationary, of the dollars spent on advertising. Such a company has little in the way of fixed assets and no inventory, and almost all of its reportable earnings are available to the stockholders if they can’t be used internally for interesting acquisitions to further growth.” (aprile 1974)La discriminante è sempre la stessa: l’azienda ha la possibilità di passare le pressioni inflazionistiche ai propri clienti?
“The single-most important decision in evaluating a business is pricing power. If you’ve got the power to raise prices without losing business to a competitor, you’ve got a very good business. And if you have to have a prayer session before raising the price by a tenth of a cent, then you’ve got a terrible business. I’ve been in both, and I know the difference." (Warren Buffett)Per avere un’idea di quali azioni fanno meglio bene in periodi inflazionistici si possono utilizzare i rendimenti del mercato americano negli anni 1970 (purtroppo non è possibile avere dati così puntuali e dettagliati per l’Europa). Le due tabelle seguenti riportano la performance nel periodo 1973-1981 di alcune delle principali aziende US.
[Nota: ho trovato questi numeri ma non posso scommettere sulla loro correttezza al 100%; i prezzi sembrano molto bassi perché riflettono tutte le operazioni (split, etc…) fatte da allora ad oggi]
Come si può vedere, con alcune eccezioni ci sono vincitori e perdenti in praticamente tutti i settori: il rendimento cumulato su circa un decennio è quindi dipeso in gran parte dalle caratteristiche specifiche delle varie aziende, non necessariamente dal settore nel quale operavano.
- In molti casi il rendimento negativo è stato dovuto soprattutto al prezzo iniziale: Coca-Cola, Colgate e Disney sono entrate in questo periodo con valutazioni molto elevate (“Nifty Fifty”)
- Non tutte le aziende capital-intensive soffrono in periodi di elevata inflazione: tra i vincitori ci sono vari nomi nei settori petroliferi, aerospace & difesa e industriali. Questo è stato dovuto anche ad altre considerazioni macroeconomiche: negli anni 1970 tutte le commodities (comprese quelle agricole) hanno fatto particolarmente bene
- Molto male, invece, le utilities: è vero che il mercato americano è più de-regolato di quello europeo, ma il loro business (i.e. capex continuo) non risponde bene all’inflazione
- Sono andati abbastanza male anche i consumer staples, per l’eccessiva euforia sulle loro prospettive nel periodo precedente
Altri passaggi:
“The much-heralded two-tier market situation has obviously become blurred. A significant number of the nifty fifty have registered sharp declines from their 1973 highs. […] The essence of that approach was that Avon Products, Polaroid or Disney had such assured long term growth prospects that one could virtually ignore price when making a long term commitment. In remarkably short order, however, the “assured” growth prospects of each of these companies came into serious question, and all three are currently selling at prices at least 55% below their high prices of last year.” (aprile 1974)
“Forbes is also basically wary of the current craze of buying gold and silver coins. It concludes that there is no place to hide, but that well-selected common stocks today probably represent excellent values, and that the true investor in many cases is buying at a discount assets which can only be worth more as inflation proceeds.” (aprile 1974)Molto interessante è vedere come è cambiata l’allocazione del fondo nel corso di quel periodo: ad esempio, nel 1974 era investito per 20% in banche, ridotto a 4%-6% nel 1978 ed a zero nel 1981.
Anche se non riportati nelle due tabellie, nel corso degli anni 1970 i titoli finanziari furono molto deludenti in un mercato azionario di per sé moribondo. I profitti delle banche erano in crescita ed il loro ROE era ai massimi livelli dalla seconda guerra mondiale; nonostante questo, le grandi banche americane trattavano a P/E di appena 4x-6x e ben al di sotto del book value. All’apparenza, l’inflazione dovrebbe essere benigna per le banche: gli assets crescono più velocemente che in situazioni normali; l’essenza dell’inflazione è un aumento del credito e della moneta; e le banche non sono condizionate dal dover rimpiazzare le attività fisse e le rimanenze che affliggono invece le aziende industriali. Tuttavia, le banche sono creditori netti, ed i creditori perdono in periodi di inflazione. Ad eccezione di quello che è investito in immobili, gli assets bancari consistono per la maggior parte di titoli cartacei, che si deprezzano velocemente con l’inflazione; ed il capitale delle banche si deprezza con questi.
dopo post così luminosi non so perchè io vada ancora al leggere non solo gli araldi di Confindustria, ma anche Cnbc e soci. Vabbè.
RispondiEliminaPer esperienza concordo sul fatto che le utilities soffrono in periodi di maggior inflazione (e tassi più alti), perchè i loro dividendi diventano meno concorrenziali ai bond (a meno che non siano business regolati, tipo Snam)
Quanto al pricing power, dopo che hai raggiunto la massa critica il problema diventa tenerla, e qui disintermediazione di internet e crescita delle private label sono difficili da fronteggiare caricando tutto al cliente finale se aumentano i prezzi dei fattori di produzione. Il fatto che molte imprese lavorano come terziste "occulte" per i marchi della grande distribuzione dice molto. Un altro aspetto per me interessante è la autocreazione di concorrenti interni con altro marchio, nel segmento low cost: penso a Ho, di fatto marchio che gira su rete Vodafone. MI sembra in generale che si guardi verso i segmenti inferiori del mercato. Altrimenti ci riduciamo ai soliti 10 nomi, o Apple, Amazon ecc. (le famose Faang), che sono il grosso del rialzo azionario. Gli altri son tutti follower.
Non sono sicuro se la prima frase sia sarcastica o no…
EliminaIn maniera molto schematica, le aziende possono essere divise in due categorie:
- Commodity-based (non nel senso di materie prime, ma di prodotti indifferenziati): il prezzo è il singolo fattore più importante nelle decisioni di acquisto, c’è molta concorrenza e vince il produttore con il costo marginale più basso.
- Consumer monopolies/oligopolies: c’è qualcosa che rende il prodotto unico.
Le prime non hanno pricing power, le seconde lo hanno più o meno forte (ed è vero che la disintermediazione di internet e le private labels lo stanno riducendo). Ma non per tutti.
Non credo che rimangano solo le solite 10 aziende o le FAANG (che comunque non scarterei a priori): LVMH, L’Oreal, Ferrari, Technogym, Autodesk, Rational, Novo Nordisk, Diageo, Verisk, … La lista è lunga e spazia molti settori.
ma no! era un complimento sincero!
RispondiEliminaUna cosa che non sono mai riuscito a capire del tutto e' come le banche registrano in bilancio i bond che acquistano: cioe' se comprano un titolo a 110 che andra' a 100 in scadenza, e' iscritto a bilancio a 110? Non credo perche' se fosse cosi' l'attivo sarebbe troppo aleatorio e giacche' le banche sono estremamente a leva l'equity diventa ancora piu' aleatoria.
RispondiEliminaI criteri sono cambiati nel corso degli anni ed a seconda di come erano classificati (“hold to maturity” vs “available for sale”). Oggi sono essenzialmente:
Elimina- Titoli (obbligazioni, azioni, …): fair value alla data di bilancio. Per i titoli quotati, il fair value è il prezzo di mercato (“mark-to-market”); per i titoli non quotati, si usano metodi di stima e modelli valutativi (“mark-to-model”)
- Prestiti: costo ammortizzato secondo il tasso di interesse effettivo, ovvero valore iniziale meno rimborsi di capitale rettificato per gli accantonamenti per perdite attese.
La differenza tra prezzo di acquisto e valutazione corrente finisce nel conto economico (se il titolo è venduto nel corso dell’anno) o nel “Prospetto della redditività consolidata complessiva” (se ancora detenuto) nella voce “Attività finanziarie valutate al fair value con impatto sulla redditività)
Quache altro dettaglio lo trovi qui: http://mrmarketmiscalculates.blogspot.com/2015/04/quello-che-le-banche-non-dicono.html
Ok, quindi se un bond e' dichiarato: "detenuto fino alla scadenza", viene semplicemente registrato a costo e poi ammortizzato fino a scadenza giusto? Quindi il valore a bilancio non e' influenzato dal cambiamento dei tassi di interesse. Bisogna capire quanti bond la banca ha "held for sale" e quanti per "investments".
EliminaQuindi nel comprehnsive income entrano solo le variazioni di fair value dei bond "held for sale" giusto? Non tutti i bond.
Fino a qualche anno fa era così (il mio post è del 2015), oggi ci sono:
Elimina- Attività finanziarie valutate al fair value con impatto a conto economico (titoli da negoziazione, attività a fair value)
- Attività finanziarie valutate al fair value con impatto sulla redditività complessiva (come sopra, con qualche differenza a seconda della struttura)
- Attività finanziarie valutate al costo ammortizzato (prestiti)
Dei vari factor Quality, Value, Size quale fa meglio con l'inflazione, secondo lei?
RispondiEliminaSecondo MSCI (https://www.msci.com/www/blog-posts/factors-in-focus-impact-of/02114302295) dovrebbero fare bene Low Vol, Small Caps, Quality e Value (ma la definizione di Value in factor investing è quantomeno opinabile)
EliminaMale invece Growth, ma presumo come consequenza di un aumento dei tassi nominali
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