venerdì 5 dicembre 2014

Le regole del gioco (II): la parabola di American & Foreign Power Company

“The essence of investment management is the management of risks, not the management of returns (Benjamin Graham)”
Nel post precedente con lo stesso titolo avevo scritto:
“Più interessante è invece il fatto che investire è, tra queste tre attività, quella che si basa sul set più completo di assunzioni implicite […] Implicitamente un investitore assume anche di essere protetto dalla legge e dalle sue istituzioni […] Si tratta di un complesso di regole societarie, civili, legali, internazionali, etc, che devono essere fatte rispettare dalle istituzioni affinché il gioco sia equo per tutti i partecipanti.”

Le conclusioni del post erano che molti ritengono che alcuni titoli siano investimenti, mentre nella realtà sono piuttosto speculazioni. Questa considerazione vale a maggior ragione quando si legge, tra le dozzine di consigli di giornali, blog, forum e simili, di opportunità impedibili in obbligazioni turche, venezuelane e sudafricane, oppure in banche o aziende energetiche in paesi come Brasile, Russia o Indonesia.

In molti paesi emergenti e di frontiera la protezione accordata agli investitori è molto bassa. Non si tratta solamente dei casi nei quali il management scappa con la cassa o i creditori si appropriano di beni non di loro pertinenza, ma anche tutto quanto è legato alla corruzione, alla scarsa trasparenza informativa, alla corporate governance inesistente o all’intervento diretto del governo nelle decisioni aziendali (N.B: per essere precisi questo succede anche nelle nazioni sviluppate, ma è un tema particolarmente sentito in quelle emergenti).

In aggiunta ai normali rischi di un investimento, molti mercati emergenti soffrono infatti di alcuni problemi aggiuntivi, fattori che tuttavia sembrano interessare poco alla maggioranza degli investitori (almeno fino a quando non sorge un problema).
  • Fattori macroeconomici: è vero che molti paesi emergenti crescono più rapidamente di quelli occidentali, ma questa crescita è accompagnata da significativi rischi, tutti quei fattori di tipo macro che hanno a che fare con il funzionamento dell’economia (PIL/capita, deficit primari, bilancia dei pagamenti, inflazione, debito esterno ed interno, …). In particolare, un mix di crescita sostenuta e politiche monetarie espansive può portare ad un aumento dell’inflazione, cosa che è periodicamente avvenuta in questi paesi. L’inflazione galoppante può portare alla svalutazione della valuta domestica, ad una riduzione dei margini di profitto o ad una improvvisa interruzione del trend di crescita.
  • Fattori politici: anche se sono stati fatti molti passi in avanti, una delle migliori definizioni di mercato emergente è: “A state in which politics matters at least as much as economics to the market” (Ian Bremmer: “Managing risk in an unstable world”). Incertezza politica, conflitti geografici o interventi inattesi dei governi (inclusi cambiamenti nelle politiche fiscali) possono ridurre i rendimenti di un investimento e, in ultima istanza, risultare in una perdita permanente del capitale.
  • Fattori regolamentari: la stabilità e credibilità delle norme giuridiche sono un pre-requisito necessario per lo sviluppo dei mercati finanziari e per attrarre capitale dall’estero. Politiche monetarie e fiscali rigorose, una banca centrale indipendente e trasparenza nei bilanci sono vitali per la fiducia degli investitori. Molti mercati emergenti mancano tuttavia di strutture solide e gli investitori hanno una protezione limitata in caso di frodi o abusi.
  • Fattori valutari: il rischio di cambio è sempre presente in qualsiasi investimento non denominato nella valuta domestica, e lo è ancora di più nei paesi emergenti. Molti di questi hanno tassi di cambio fissi o collegati alle valute più forti, dando l’illusione che ci sia stabilità, ma in realtà ci sono forti “scossoni” ogni volta che il tasso di cambio viene svalutato o rivalutato. Un concetto correlato è quello di convertibilità, ovvero il rischio che un investitore non sia in grado di ri-convertire l’investimento nella propria valuta a causa di restrizioni imposte dai governi. Questo avviene in particolare nei momenti di crisi per limitare il deflusso di capitali esteri, anche per quei paesi nei quali la valuta locale è normalmente convertibile. Nel 1997, la Corea impose limiti giornalieri del 5% alla variazione del suo tasso di cambio, ed il mercato chiudeva una volta raggiunto quel limite. Nel 1998 la Russia congelò i prelievi di dollari dalle banche e la banca centrale sospese il fixing del rublo; in maniera simile nel 2001 l’Argentina impose limiti all’accesso ai dollari da parte degli investitori domestici. 
  • Fattori di liquidità: la capacità di entrare/uscire velocemente ed a bassi costi da un mercato è un fattore decisivo in qualsiasi decisione di investimento. I mercati emergenti sono in genere caratterizzati da livelli di liquidità inferiori, che a sua volta causano oscillazioni più marcate nei prezzi degli strumenti finanziari. In questi mercati spesso è facile entrare ma molto più difficile uscire.
  • Fattori informativi: la minore trasparenza di molti mercati emergenti, che si traduce nella difficoltà di trovare indicazioni tempestive ed accurate, porta ad asimmetrie informative tra gli investitori, di solito a scapito di quelli esteri. 
Come incorporare questi rischi nelle proprie decisioni
L’assunzione principale nell’analisi di un investimento è che il suo valore dipende dalla capacità dell’emittente di ripagare il prestito (nel caso delle obbligazioni) o di vendere i propri prodotti/servizi e generare così utili (nel caso delle azioni). In genere, l’impatto esplicito dell’intervento dei governi sulla valutazione è limitato a cambiamenti nella tassazione o delle norme per le aziende regolamentate (ad esempio le utilities). Ma i governi possono influenzare il valore di un investimento in molti altri modi. 

Ci sono tre componenti che determinano il valore intrinseco di un investimento, e questo vale, sia pure in forme diverse, sia per le azioni che per le obbligazioni: i cash flow che si possono ottenere, la loro crescita attesa ed il loro grado di rischio. Quando si deve valutare un investimento in un paese potenzialmente ostile, la soluzione più ovvia è quella di modificare la definizione e misura del rischio utilizzate, seguendo tre possibili opzioni:

  1. Utilizzare un tasso di sconto più alto. Se vi è il rischio che gli assets ci vengano in qualche modo sottratti, vogliamo essere pagati un premio più alto per questa eventualità, ovvero richiediamo un rendimento atteso superiore. Supponiamo ad esempio che dopo aver analizzato il settore bancario il nostro rendimento richiesto per investire in una banca europea (equivalente al cost of equity) sia 10%, e che questo salga a 15% per una banca russa per la maggior incertezza. Date queste ipotesi, il nostro P/E di equilibrio scende a 7x (=1/15%), ed al P/E corrente di 5,5x Sberbank non è poi così sottovalutata.
  2. Ridurre i flussi di cassa attesi. Questo può essere possibile per i primi anni di analisi esplicitati nel nostro modello, ma è più complicato includere gli anni seguenti.
  3. Fare una valutazione separata del rischio “politico”. Ad esempio, si può determinare qual è la probabilità di una nazionalizzazione degli assets e quanto si potrebbe ricevere in questo evento, e sottrarre questo costo dalla nostra valutazione iniziale. Problema: mentre è possibile coprirsi da molti altri rischi, quello politico non rientra tra questi.
La conclusione è molto semplice: se non si controlla per questi rischi aggiuntivi, aziende in paesi che sono esposti a questi rischi possono sembrare molto a buon mercato in termini di P/E o EV/EBIT. Ma sembrarlo ed esserlo veramente sono due concetti diversi!

La parabola di American & Foreign Power Company: lezioni imparate
American & Foreign Power Company (AFPC) era una utility che fu usata da Benjamin Graham in Security Analysis quale esempio degli eccessi dell’innovazione finanziaria che caratterizzarono gli anni 1920.

AFPC aveva infatti emesso una serie di titoli differenti: obbligazioni, azioni, preferred stocks e stock-option warrants venduti con le obbligazioni che permettevano la convertibilità in azioni ordinarie (che dimostra come opzioni, certificati, CDS, obbligazioni subordinate, CoCos, titoli ibridi, etc… non siano follie solo della nostra epoca). I warrant divennero presto lo strumento preferito per la speculazione finanziaria: AFPC aveva una capitalizzazione di $300 milioni (non pochi per quegli anni), mentre i warrant avevano un valore di mercato ancora maggiore.

“It is an amazing fact that the option warrants created by one company, American and Foreign Power, reached an indicated market value in 1929 of over a billion dollars, a figure that exceeded the market value of all the railroad common stocks of the United States listed on the New York Stock Exchange in July 1932, less than three years later.”
Quello che è più interessante annotare è l’evoluzione storica dell’azienda in questione. AFPC era inizialmente controllata da una holding, Electric Bond & Shares (EBS), a sua volta parte di Thomson-Houston Corporation, una delle aziende precursori dell’attuale General Electric.

Thomson-Houston era un fornitore di attrezzatura ed impianti per le utility elettriche. Alla fine del 1800 queste erano appena nate e quindi poco capitalizzate: Thomson-Houston offriva quello che oggi si chiama vendor financing, ricevendo azioni ed obbligazioni delle utility a parziale pagamento delle forniture. Nel 1905 fu fondata EBS al solo scopo di detenere questi titoli: più che una holding, EBS agiva come un intermediario finanziario che raggruppava dozzine di titoli delle utility e le usava come garanzia per finanziarsi sul mercato a tassi migliori.

EBS divenne presto l’azienda americana maggiormente coinvolta in investimenti internazionali, cominciando nel 1917 con l’acquisto di una utility a Panama e proseguendo con investimenti in Brasile, Guatemala e Cuba negli anni seguenti. Nel 1924 EBS creò AFPC per detenere le sole partecipazioni al di fuori degli US. L’anno seguente, quella che era diventata General Electric fece uno spin-off di EBS che divenne quindi un’azienda quotata a se stante. Poco dopo anche AFPC fu oggetto di uno spin-off, e continuò a perseguire la stessa strategia di “intermediario finanziario” di EBS pur operando ufficialmente come una utility. All’epoca gli US avevano un ingente surplus commerciale, e AFPC aiutò in parte a riciclare questi surplus acquistando utility in Argentina, Brasile, Cile, Cina, Costa Rica, Ecuador ed India, oltre a partecipazioni di minoranza in Canada, Italia e Giappone.

Nel 1929 arrivò però la Grande Depressione che causò la svalutazione di molte valute, specialmente in America Latina: i profitti in dollari cominciarono ad andare a picco e AFPC finì quasi in fallimento, e fu costretta a sospendere i dividendi anche sulle preferred stocks fino al 1939. Nel bilancio del 1938 AFPC affermava che se i tassi di cambio prevalenti al momento delle acquisizioni estere fosse rimasti invariati i suoi profitti sarebbero stati almeno il doppio. Ma questo è proprio uno dei maggiori rischi di un investimento all’estero, in particolare in paesi “volatili”.

Passata la Grande Depressione, i problemi di AFPC furono non solo di tipo finanziario ma anche e soprattutto di carattere politico. Messico e Cuba la costrinsero ad abbassare i prezzi dell’elettricità venduta, e molti altri paesi le impedirono di rimpatriare i profitti ottenuti all’interno dei loro confini. L’investimento in Cina fu svalutato a zero all’inizio della seconda guerra mondiale, mentre nel 1943 l’Argentina nazionalizzò alcune delle sue utility.

Le fortune di AFPC sembrarono migliorare negli anni 1950, ma non per molto. Fidel Castro confiscò le proprietà cubane (all’epoca il suo maggior asset) nel 1960; anche il Brasile espropriò una delle sue utility, mentre il Messico la obbligò a vendere alcune proprietà al governo ad un prezzo stracciato, e contemporaneamente le impedì di far rientrare quanto ottenuto obbligandola a reinvestire l’intero ammontare in Messico.

L’unica cosa che rimase ad AFPC fu di gradualmente liquidare gli asset rimanenti negli anni 1960, per finire poi a fondersi nel 1968 con Boise Cascade: l’ultima utility posseduta, in Ecuador, fu venduta nel 1976.

La parabola di AFPC mostra chiaramente il rischio, spesso sottovalutato, di investire nei mercati emergenti: in particolare, l’atteggiamento opportunistico e spesso predatorio che questi paesi hanno nei confronti degli investitori esteri. Nei periodi di euforia e globalizzazione, quando gli investimenti dall’estero aumentano, rispettano i diritti di proprietà perché sanno che sono necessari per beneficiare di ulteriori investimenti esteri. Ma in situazioni di crisi finanziaria, o semplicemente quando è più conveniente, questi paesi non si fanno scrupoli a non rispettare gli accordi precedentemente firmati. Se anche gli assets non sono confiscati, sono comunque soggetti ad una qualche azione che ne limita il valore per i proprietari.

Se qualcuno pensasse che questi fatti riguardano il passato, l’elenco di eventi recenti che dovrebbero far riflettere è lungo:

Si tratta di situazioni non certo nuove e che si sono verificate più volte nel passato: in questi casi, le regole che assumiamo essere implicitamente valide non lo sono più.

Per molti partecipanti nei mercati dei capitali la differenziazione tra investimento e speculazione sembra essere una questione puramente accademica e semantica, ma non è così.

“[F]oreign adventures don't always work out as anticipated. In addition to the normal risks of business, including fluctuating exchange rates, there are unforeseen political risks that can seriously affect rates of return on investment. Regulatory regimes can change dramatically with a change in government. […] Once an investment has been made, it may be difficult or impossible to withdraw if events don’t turn out as anticipated. (William Hausman: “The rise and fall of The American & Foreign Power Company: A lesson from the past?”)”

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