lunedì 25 gennaio 2016

“The Prize”, ed alcune considerazioni sul prezzo del petrolio

Sono finalmente riuscito a finire The Prize” di Daniel Yergin, opera monumentale (800 pagine!) sulla storia del petrolio: dalle prime esplorazioni del “Colonnello” Edwin Drake a Titusville, Pennsylvania, nel 1859 fino ai giorni nostri, passando per lo Standard Oil Trust di John D. Rockefeller (dalla quale sono derivate tutte le majors americane), lo sviluppo di Messico e Venezuela e le loro nazionalizzazioni, le scoperte in Medio Oriente (Iraq, Iran, Kuwait, Arabia Saudita), la nascita dell’OPEC e le crisi energetiche degli anni 1970.

Lettura altamente consigliata per tutti coloro che sono interessati a capire il ruolo del petrolio nelle economie moderne e soprattutto la relazione tra domanda ed offerta dal punto di vista “politico-economico”, non geologico.



Mentre prima credevo di conoscere il 20% delle dinamiche del settore energetico, adesso mi accorgo che sono più vicino al 5%, e non sono assolutamente in grado di rispondere alla domanda: “Perché il prezzo del petrolio è crollato così tanto???” Le cause sono infatti svariate: alcuni dicono che sia dovuto all’offerta, a causa della “nuova” produzione dell’Iran post-sanzioni, delle diatribe con l’Arabia Saudita che impediscono ai due paesi di accordarsi su tagli, o del boom dello shale gas in US (come ben evidenziato dal grafico sottostante, nel quale si vede come la produzione americana sia ad oggi diminuita di molto poco nonostante il crollo del prezzo, in giallo, e come sia tornata ai livelli degli anni 1970, in quest’altro grafico). 
Altri incolpano la contrazione della domanda, con la Cina quale maggior indiziata: la diferenza a livello mondiale tra domanda ed offerta è oggi di circa 3 milioni di barili, uno dei maggiori gap degli ultimi decenni. La domanda rimane comunque elevata e si stima che continuerà a crescere nel 2016, anche se a tassi più contenuti.

Altri ancora, più sofisticati, puntano il dito sui problemi nel mercato del credito, sulla forza del dollaro o sulle scelte degli investitori finanziari “passivi” in materie prime. 

La realtà è che tutte queste spiegazioni sono plausibili ma nessuno sa veramente quale sia quella principale o da quale di esse arriverà la correzione.

Vediamo allora i fatti (non le opinioni):

  • Il crollo attuale (WTI Cushing spot price, altre “varietà” hanno subito cali simili ma con percentuali diverse), dal picco al minimo, è stato di circa 75%, più o meno in linea con quanto accaduto sia a metà degli anni 1980 (-70%) che nel 2008-2009 (-79%). Quindi non il peggior tracollo né tantomeno un “black swan”.
  • Il settore energetico pesa per circa il 6% sia in MSCI World che MSCI Europe; per essere conservativi aggiungiamo il settore Materials (che include anche tutte le industrie chimiche che utilizzano il petrolio) e le banche che hanno esposizione alle commodities (una minoranza). Ma tutte le altre industrie, chi più chi meno, beneficiano da bassi prezzi del petrolio, che quindi non può certo spiegare la volatilità nei mercati azionari di questo inizio anno.
I movimenti recenti nel prezzo del petrolio non sono quindi né insoliti né unici: questo può essere letto in maniera positiva, nel senso che prima o poi ci sarà una ripresa come è già successo in passato. Tuttavia, ci sono altre considerazioni che portano a dire che siamo in acque inesplorate e non sappiamo cosa potrà succedere. L’impatto degli investitori “finanziari” in commodities è oggi maggiore di diversi ordini di grandezza rispetto al passato: il boom del 2008 che ha portato fino a $145 è stato dovuto proprio alla speculazione finanziaria basata sull’idea del super-ciclo delle commodities, e quel livello non è più stato nemmeno avvicinato (il picco seguente è stato $110).

Le mie “impressioni” (per quello che valgono…)
Se il prezzo del petrolio è dato dalla relazione tra domanda ed offerta, abbiamo ormai capito che le banche centrali non possono agire in maniera significativa sul lato della domanda (=stimolare la crescita economica). Rimane quindi l’offerta a bilanciare l’equazione: ma questa è determinata soprattutto da considerazioni “geopolitiche”, non puramente economiche e di mercato. All'inizio degli anni 1980, l'Arabia Saudita tagliò la propria produzione per mantenere i prezzi stabili, ma questo le si ritorse contro in quanto incoraggiò maggior produzione in US ed altri paesi non-OPEC; nel 1985 i sauditi cambiarono la loro politica da stabilizzare il prezzo a stabilizzare la propria quota di mercato, ed il prezzo del petrolio rispose crollando di due terzi in meno di un anno.

L’offerta aggregata non è diminuita, anzi, ma gli investimenti (capex) si: poiché c’è un ritardo tra investimenti fisici e cambiamenti nella produzione, questi effetti si faranno sentire solo tra qualche tempo. Il prezzo del petrolio potrebbe (dovrebbe?) pertanto rimanere ancora depresso, per poi risalire: ma per quanto tempo e su quali valori si attesterà, nessuno lo sa. Come paragone, il WTI toccò un massimo di $41 ad ottobre 1990 in seguito all’invasione del Kuwait: in seguito si stabilizzò su prezzi più bassi e nonostante la crescita globale non tornò sopra $40 se non dopo oltre 13 anni nel maggio 2004.

L’unico momento buono per comprare una commodity (e le azioni di aziende ad essa collegate) è quando i prezzi sono inferiori al costo marginale di produzione. Come negli anni 1980, questo potrebbe portare ad un’ondata di M&A e consolidamento nell’industria, perché oggi è più economico comprare un barile a Wall Street (ad esempio sotto forma di capitalizzazione rispetto alle riserve provate) che andare ad estrarlo in giro per il mondo. Quali saranno le aziende target è difficile prevedere: per le majors americane sono più interessanti le “medium” (Pioneer Natural Resources, Devon, Apache, Anadarko, Noble Energy, Hess, Cenovus, …: un po’ come successe nel 2009 con l’acquisizione di XTO Energy da parte di Exxon) rispetto alle più piccole E&P focalizzate su shale gas o a quelle che stanno esplorando zone impervie o politicamente instabili. Queste sono però quelle il cui prezzo è sceso maggiormente, perché hanno maggiore leva finanziaria ed operativa: allo stesso modo, saranno quelle a beneficiare di più da un rialzo dei prezzi.

4 commenti:

  1. Sullo shale-oil sarebbe da indagare sia a quanto ammontano i derivati a protezione della produzione, sia quanto convenga ad alcune aziende produrre anche con i prezzi cosi bassi. Le nuove trivellazioni sono crollate: per logica la produzione dallo shale dovrebbe seguire con qualche trimestre di differenza, eventuali pozzi tradizionali diventati potrebbero mascherare questo calo?
    Lo shale-oil per ora non si è ancora sviluppato bene fuori dagli USA, cosa succederà se i prezzi risaliranno?

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    1. Certo, la struttura dei contratti (lungo termine, “take-or-pay”, quanto è hedged, …) incide significativamente sulla redditività.

      Un tipico pozzo di shale ha una “resa” che diminuisce anche del 50% dopo il primo anno, quindi le aziende sono “costrette” a trivellare anche solo per mantenere la produzione attuale, ma gli investimenti si sono ridotti di molto e quindi prima o poi anche la produzione dovrà calare. Non sono sicuro di cosa voglia dire: “eventuali pozzi tradizionali diventati potrebbero mascherare questo calo”.

      Per l’ultima domanda ci vorrebbe un geologo: ho letto che la Cina potrebbe avere formazioni simili allo shale americano. In US, il possesso privato della terra include anche tutti gli idrocarburi che si trovano al di sotto di essa; in Europa, invece, per le leggi esistenti gli idrocarburi sono comunque di proprietà statale/pubblica, il proprietario privato non riceve nessun beneficio finanziario e quindi non ha incentivi all’estrazione.

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  3. Fra le ragioni che amplificano il calo dell'oil mi permetterei di aggiungere anche lo shift verso la produzione elettrica da fonti rinnovabili "pulite", trend consolidato che politicamente ha molto appeal sul parco voti globale occidentale. Poi è chiaro che se le acciaierie cinesi sono ferme e un fondo sovrano deve comunque fare cassa, il prezzo dell'oil è in saldo e le riserve valgono meno. In proposito mi pare che la capitalizzazione di qualche azienda energy a noi vicina sia ancora ottimistica. Saluti.

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