lunedì 21 novembre 2016

“Concentrated Investing”

“Our investment style has been given a name - focus investing - which implies ten holdings, not one hundred or four hundred. The idea that it is hard to find good investments, so concentrate in a few, seems to me to be an obvious idea. But 98% of the investment world does not think this way. It’s been good for us. (Charlie Munger)”
Non un capolavoro, “Concentrated Investing: Strategies of the World’s Greatest Concentrated Investors” merita comunque la sufficienza perché accanto ai soliti nomi (Buffett, Munger, Keynes, Lou Simpson) include anche il profilo di alcuni eccellenti investitori che sono meno noti al grande pubblico: Glenn Greenberg, il norvegese Kristian Siem, i trustee del Grinnell College, nonché Claude Shannon e Ed Thorp, i primi a quantificare in maniera precisa la cosiddetta Kelly formula.

Data la crescente popolarità delle strategie passive, i gestori attivi sono sempre più sotto pressione: il modo migliore per dimostrare che valgono il loro costo sarebbe di avere una sovraperformance costante al netto dei costi, ma dirlo è molto più facile che farlo e dozzine di studi dimostrano come la maggior parte dei fondi attivi non riescono a batter il loro benchmark.

Tuttavia alcuni ci riescono, ed il libro dimostra come ci sia una relazione inversa tra il numero di azioni in un portafoglio e la probabilità far meglio del mercato. Con una semplice simulazione di Monte-Carlo, gli autori hanno costruito migliaia di portafogli casuali partendo dall’indice S&P 500 (1.000 portafogli con 10 azioni, 1.000 con 15 azioni, e così via fino a 1.000 portafogli con 250 titoli, tutti equal-weighted) e hanno confrontato i loro rendimenti con quelli dell’indice stesso (anch’esso equal-weighted).

I risultati sono degni di nota. Nel periodo in esame (1999 – 2014) un portafoglio composto da 10 titoli ha avuto in media una probabilità del 35% di battere il mercato di 1% o più all’anno, mentre per un portafoglio di 250 titoli la probabilità è stata di un insignificante 0,2%: se si compra metà dell’indice è praticamente impossibile batterlo (per un portafoglio di 100 titoli la probabilità è un sempre misero 7%). Più importante, nella simulazione sia i portafogli di 100 che 250 azioni non hanno mai sovraperformato il benchmark di 2% o più l’anno; al contrario, i portafogli di 10 titoli hanno prodotto questo alpha nel 22% dei casi.

Anche se 35% e 22% possono non sembrare probabilità di successo elevate, dimostrano come sia possibile fare meglio del mercato nel lungo periodo con solo poche azioni.

Una sezione del libro è quindi dedicata alla discussione del cosiddetto Kelly criterion, una formula sviluppata dal fisico John Kelly e perfezionata da Claude Shannon ed Ed Thorpe per determinare la dimensione ottimale di un investimento date le probabilità di successo (la formula di Kelly è ampiamente descritta anche nell’eccellente “Fortune’s formula”, più volte citato). Originariamente applicata ai giochi di carte come blackjack per decidere quanto puntare in differenti scenari per massimizzare le vincite attese, è spesso utilizzata (consciamente o inconsciamente) anche da chi predilige portafogli concentrati per decidere quanto allocare ad uno specifico investimento. L’idea è infatti intuitiva: mettete più soldi nelle idee il cui payoff atteso è maggiore.

A prima vista, gli investitori descritti nel libro sembrerebbero molto diversi tra di loro. Greenberg, ad esempio, preferisce non investire nei business ciclici, perché i rendimenti sono troppo dipendenti dal prezzo di una singola commodity; al contrario, Kristian Siem investe solo nei settori di oil&gas e shipping, probabilmente i più ciclici al mondo. Keynes a sua volta è stato un grande investitore nelle miniere d’oro e nelle aziende tecnologiche degli anni 1930 (auto, costruttori di aerei, produzione di elettricità, chimici), mentre Buffett e Munger sono restii ad investire in qualsiasi cosa sia troppo soggetta a rapidi cambiamenti tecnologici.

Al contrario, questi investitori condividono molte caratteristiche.

1. Investono per il lungo periodo. Cercare di prevedere i movimenti nel breve è impossibile, mentre le probabilità di ottenere risultati superiori al mercato aumentano se si investe in aziende di qualità per il lungo termine.

“Industry, by nature, is long term, and the fund management business, by nature, is short term. Financial investors come in and out: they can push a button any day and get out. The principal industrial investors don’t have that luxury. They have to think for the long term. I believe indeed the success of industry is that you always think long term, so even if incidents like mergers or takeovers cause you to be out in the shorter term, you take the long-term decision as if you were to be the owner forever. That is healthy for the industry, and therefore also for its shareholders. I think that has been the success of our operation. (Kristian Siem)”
La prima conseguenza è che i loro portafogli tendono ad avere un basso turnover: la performance non è data da quello che non si compra, quanto piuttosto da quello che si compra
“We are sort of the polar opposites of a lot of investors. We do a lot of thinking and not a lot of acting. A lot of investors do a lot of acting, and not a lot of thinking. (Lou Simpson)”
2. Non diversificano eccessivamente. Come detto, è praticamente impossibile ottenere risultati superiori comprando un’ampia sezione del mercato; maggiore è la diversificazione, e più la performance sarà simile alla media, nel migliore dei casi.

Le situazioni nelle quali il profilo rischio/rendimento è molto favorevole all’investitore non sono comuni, ma sia la matematica che la storia dimostrano che i risultati premiano chi punta pesantemente in queste situazioni. Ma è fondamentale ricordare che il rischio non è la definizione accademica di volatilità: la maggior parte delle persone cercano di evitare la volatilità perché percepiscono un aumento dell’incertezza come maggiore rischio. Gli investitori inclusi nel libro, al contrario, tendono a ricercare l’incertezza, ed allo stesso tempo sono stati in grado di produrre rendimenti superiori con bassa volatilità di downside rispetto al mercato in generale.

3. Sono capaci di pensare in maniera indipendente. I portafogli concentrati non sono per tutti, che non vuol dire che chi segue questo approccio è un guru e gli altri degli sfigati. Peter Lynch è stato probabilmente il miglior gestore di sempre di un grosso fondo comune e possedere dozzine di titoli non gli ha impedito di generare rendimenti superiori al mercato.

Per gestire portafogli concentrati bisogna essere preparati a fare ricerca ed analisi intensive su ogni singolo investimento, ed essere in grado di continuare ad aver fiducia nella propria tesi quando il mercato si muove in maniera opposta. Gli umani sono programmati per seguire la folla, ma una strategia di questo tipo richiede un approccio veramente contrarian.

Un aneddoto riportato nel libro è quello di un incontro tra Glenn Greenberg e Buffett nel 1997: all’epoca Greenberg aveva appena iniziato tre posizioni significative in aziende TV via cavo, e chiese a Buffett cosa ne pensasse. Un po’ a sorpresa, Buffett fu in disaccordo completo esprimendo dubbi sulla capacità di queste aziende di generare stabili flussi di cassa. Quanti investitori sarebbero stati ancora fiduciosi nelle proprie scelte dopo che l’Oracolo di Omaha le ha bocciate? Greenberg lo fu ed ebbe pienamente ragione.

“The ones that have the edge are the ones who really have the temperament to look at a business, look at an industry and not care what the person next to them thinks about it, not care what they read about it in the newspaper, not care what they hear about it on the television, not listen to people who say, “This is going to happen,” or, “That’s going to happen.” You have to come to your own conclusions, and you have to do it based on facts that are available. If you don’t have enough facts to reach a conclusion, you forget it. You go on to the next one. You have to also have the willingness to walk away from things that other people think are very simple. A lot of people don’t have that. I don’t know why it is. I’ve been asked a lot of times whether that was something that you’re born with or something you learn. I’m not sure I know the answer. Temperament’s important. (Warren Buffett)”
4. Accesso a capitale permanente. I portafogli concentrati sono spesso controversi, e si muovono tra essere di moda o dei paria a seconda dell’andamento dei mercati. Quando sono rialzisti, la concentrazione diventa popolare perché amplifica i guadagni (qualcuno ricorda il fondo Janus Twenty?); quando i mercati girano è spesso abbandonata – dopo che è successo il fatto! – perché aumenta la volatilità.

Una delle caratteristiche che lega gli investitori in questo libro è proprio avere accesso a capitale permanente: il float delle assicurazioni (Buffett e Simpson), l’endowment delle università (Keynes e Grinnell College), i propri soldi (Siem). Questo li rende meno suscettibili dell’investitore medio ai comportamenti dannosi tipici dei periodi di maggiore volatilità. Al contrario degli investitori nei fondi comuni, questi investitori sono disposti a soffrire periodi, anche lunghi, di sottoperformance e perdite significative ma temporanee per ricercare opportunità dove la probabilità di una perdita permanente è bassa.

La lezione del libro può essere riassunta in una singola frase: Bet seldom, and only when the odds are strongly in your favour; but when you do, bet big, hold for the long term, and control your downside risk.

Ma qui bisogna aggiungere una considerazione che vale sempre: essere concentrati non è di per sé una garanzia di successo, e non bisogna mai dimenticare il ruolo giocato dal caso. Il senno di poi rende molto facile dire che il track record di questi investitori è degno di essere ricordato. Ma per 10 di loro che hanno avuto successo ce sono stati centinaia che hanno scelto una stessa strategia simile ma hanno fallito: includere i profili di uno o due investitori che non hanno avuto lo stesso successo avrebbe offerto una visione più completa delle opportunità e delle insidie di questo approccio.

5 commenti:

  1. buongiorno, tutto molto interessante ma anche sacrosanto il suo commento finale: per un portafoglio concentrato di successo quanti invece falliscono o massacrano di costi?. Il rischio specifico è una brutta bestia.
    Non per niente anche Buffett consiglia ai "paria" del mercato un etf a basso costo su un indice, almeno si spende poco; in parte è un consiglio "onesto", ma così ha anche meno concorrenza su quello su cui gli interessa come investitore.

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    1. Tutto corretto: negli investimenti niente è sicuro (o quasi ma rende 0,0%).

      Si tratta di trovare qualcosa che va bene con i nostri obiettivi e la nostra psicologia: per chi non vuole sopportare il rischio specifico vanno benissimo i fondi passivi (NB: Buffett ha sempre parlato di fondi passivi, non ETF, c'è una qualche differenza), per chi invece vuole ricercare il massimo rendimento i portafogli concentrati sono la soluzione (a costi più alti ma non necessariamente esosi).

      Quello che non ha senso sono le strategie intermedie, i closet-indexers: alti costi per performance uguale al benchmark (ovvero inferiori al netto dei costi)

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    2. Cioè praticamente la totalità dei fondi comuni in investimento in Italia per i comuni risparmiatori. Gestione "attiva" solo nel caricare 1,5% di gestione (più le retrocessioni sui costi di negoziazione, chissà se fatta sempre a ragione...). Bravo come sempre.

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    3. purtroppo è così, è il segreto di pulcinella ma banche e "promotori" continuano ad approfittarne, in gran parte per la minima cultura finanziaria dei comuni risparmiatori: basterebbe informarsi per evitare queste trappole

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  2. il libro a me è piaciuto tantissimo in particolare i paragrafi sui grandi investitori che attraverso i portafogli concentrati hanno battuto per anni il mercato confutando ancora una volta l'ipotesi EMT.

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