giovedì 6 settembre 2018

Prima SolarCity, poi Tesla: due tentativi di bail-out di Musk?

Premessa: le seguenti considerazioni sono mie ipotesi, non vi è alcuna riprova che siano corrette.

Nonostante le critiche al modo nel quale gestisce le sue aziende, bisogna ammettere che Elon Musk è da ammirare: ha senz’altro attirato la sua dose di scetticismo ed opinioni negative per alcuni suoi comportamenti, ma con il suo idealismo e le sue motivazioni no-profit (almeno a parole) sta affrontando problemi tutt’altro che facili, cercando di rendere il mondo un posto migliore. Fin dall'inizio ha ammesso candidamente che sia per SpaceX che per Tesla il successo era "uno dei tanti, potenziali risultati", ma è stato considerato sufficiente per dare il via. E ha raggiunto obiettivi che molti consideravano impossibili: SpaceX ha fatto quanto la NASA negli ultimi 40 anni, e tutto con un investimento iniziale di soli $200 milioni.


Tuttavia, essere un innovatore con un'etica del lavoro instancabile non garantisce il successo, e le forze di mercato possono essere spietate. Il tentativo, poi abortito, di de-listare Tesla ha molte analogie con l’operazione di SolarCity di due anni fa: i problemi della casa automobilistica potrebbero essere più seri di quanto non appaiano (in particolare ai rialzisti) ed il take-private potrebbe essere in realtà una specie di salvataggio (bail-out). È infatti importante ricordare che Musk non ha mai creato né gestito un'impresa redditizia, al contrario ad esempio di Steve Jobs, Bill Gates e molti altri. Anche lui è soggetto alle stesse leggi della gravità finanziaria come tutti noi. [Contrariamente a quello che molti sostengono, Musk ha sicuramente guadagnato da PayPal, ma non l’ha né fondata né guidata: il gigante dei pagamenti online è nato nel 1998 come Confinity, con Peter Thiel tra gli altri fondatori, e nel 2000 si è fusa con X.com, una banca Internet questa sì fondata da Musk. Quasi subito X.com decise di abbandonare le attività bancarie per concentrarsi sui pagamenti, e Musk cedette il ruolo di CEO a Thiel.]

Il precedente di SolarCity

Le prime crepe nel suo impero hanno cominciato ad apparire a SolarCity, la società produttrice di pannelli solari. Anche se continuava a riportare perdite considerevoli e bruciare FCF, gli investitori erano più interessati al "valore attuale netto delle installazioni esistenti" (un esempio in questo articolo di SeekingAlpha, ma ce ne sono molti altri). Su questa metrica, la capitalizzazione era in linea con il valore presente dei flussi attesi dagli impianti esistenti (al netto del debito), come mostrato nella seguente slide presa dalla presentazione agli analisti del giugno 2016:

Di conseguenza, su basi puramente contabili il titolo sembrava effettivamente a buon mercato: non si pagava alcun premio per la creazione di valore dai nuovi impianti, che a prima vista mostravano una crescita robusta. Non solo: i costi di installazione continuavano a diminuire, aiutati dalla molto pubblicizzata curva di riduzione dei prezzi dei wafer che seguono la legge di Moore.

Un’analisi più approfondita avrebbe però rivelato una falla nel modello di business. La proposta di SolarCity era apparentemente molto semplice: l’azienda installava (e possedeva) l’impianto solare sul tetto della casa, e vendeva al cliente l’elettricità generata con un accordo ventennale (“power purchase agreement, PPA”) ad un prezzo iniziale inferiore di 20% rispetto ai prezzi dell'elettricità al dettaglio, con incrementi annui di circa 2% (come indicato nel riquadro blu nella slide precedente). L’offerta, in soldoni, era: “Senza alcun esborso da parte vostra, siamo in grado di ridurvi la bolletta elettrica del 20%, ed allo stesso tempo potete contribuire a salvare il pianeta!”. Non sorprende che il volume di installazioni crescesse rapidamente: l’azienda registrava perdite immediate e FCF negativi, perché doveva sostenere subito i costi di installazione, ma il flusso di entrate annuali che avrebbe ricevuto dai clienti nei successivi 20 anni (oltre alle auspicate estensioni del contratto) avrebbe nel tempo generato solidi rendimenti sull'investimento.

Il difetto fondamentale era questo: la capacità di generare e vendere proficuamente elettricità ai clienti con uno sconto del 20% dipendeva in modo critico non solo dai forti sussidi statali (che erano e sono a rischio costante di rimozione), ma anche - in modo cruciale - sul tradizionale modello in bundle dei prezzi dell'elettricità al dettaglio.

Nel passato, il costo dell'energia al dettaglio per kWh era raggruppato in un unico prezzo che includeva: (1) il costo all'ingrosso dell'energia acquistata dai produttori; e (2) il costo del trasporto fornito dalle società di trasmissione e distribuzione. Come in molti altri mercati, anche in quello elettrico il prezzo all'ingrosso è ben inferiore a quello al dettaglio, proprio a causa dei significativi costi di distribuzione.

Il problema della proposta di SolarCity era che il costo scontato della sua elettricità era un prezzo all'ingrosso, non al dettaglio. I prezzi all'ingrosso dell'elettricità erano all’epoca di 5c-8c per kWh, mentre SolarCity faceva firmare ai clienti contratti che prevedevano un costo iniziale di 12c (riquadro rosso nella slide precedente) che salivano fino a 18c nell’anno 20. I prezzi al dettaglio praticati dalle società elettriche erano più alti, vicini a 15c-17c (da qui lo sconto di 20% pubblicizzato da SolarCity), ma solo perché questi includevano anche il costo di trasmissione e distribuzione, nonché le funzioni di fatturazione ed assistenza clienti.

L’idea era che l'energia solare prodotta sul tetto di casa non è “trasmessa”, bensì consumata nello stesso luogo. Ma uno dei problemi fondamentali dell’energia solare è la sua intermittenza: il sole non splende di notte ed il livello di insolazione varia sia con le stagioni che con il meteo. Ne segue che un sistema solare sul tetto utilizza la rete più pesantemente di un cliente medio, perché sposta l’eccesso di produzione sulla griglia (grid) quando il sole splende, e lo richiama di notte ed in altri periodi di bassa efficienza (quello che si chiama net metering: la possibilità di usare l’energia prodotta in qualsiasi momento, non solo quando è generata). La rete fornisce anche servizi di back-up essenziali in ogni momento.

Il risparmio del 20% promesso sul consumo di energia elettrica era quindi basato sull’assunto che i clienti con impianti solari sul tetto non pagassero i servizi della rete nonostante un utilizzo dell’infrastruttura molto più attivo dei clienti tradizionali. Questo è particolarmente vero considerando che l'aumento della volatilità della domanda e dell'offerta nel sistema causato dagli impianti solari è molto costoso dal punto di vista del mantenimento della stabilità della rete. In altre parole, i clienti con impianti solari sul tetto hanno aumentato il costo della gestione del sistema di distribuzione dell'energia, ma non hanno pagato per il privilegio. I costi non sono però scomparsi, piuttosto sono stati trasferiti agli altri utenti, sotto forma di maggiori tariffe per il trasporto dell'energia. Questo, a sua volta, ha reso il solare ancora più competitivo, poiché i prezzi bundle erano aumentati, accelerando ulteriormente la sua adozione, e così via.

Questo circolo virtuoso era chiaramente insostenibile. Qualcuno deve pagare per il costo di manutenzione della rete e SolarCity stava semplicemente scaricando questi costi sugli altri utenti e facendo un arbitraggio rispetto all’obsoleta fatturazione delle compagnie elettriche. La direzione era chiaramente che le tariffe al dettaglio sarebbero dovuto essere disaggregate (unbundled), con la fatturazione separata tra i costi di accesso alla rete ed i prezzi all'ingrosso dell'elettricità.

Nevada Energy, controllata da Warren Buffett, è stata tra le prime a comprendere ed affrontare il problema, annunciando il cambiamento nel 2016 (qui una discussione del problema dello stesso Buffett: “we do not want the non-solar customers, of whom there are over a million, to be subsidizing the 17,000 solar customers”). SolarCity e le altre aziende di energie rinnovabili hanno provato a sostenere che questa mossa rappresentava unicamente il tentativo delle società elettriche di resistere all’innovazione e alla disruption dei loro business model, ma si trattava in realtà di applicare quello che era logico, sostenibile ed equo dal punto di vista economico. Qualcuno deve pagare per la rete e non esiste alcun razionale economico perché gli utenti particolarmente attivi, come i proprietari di impianti solari, debbano esserne esentati.

L’unbundling della fatturazione avrebbe devastato la “promessa” di SolarCity: invece di risparmiare, i clienti avrebbero finito per pagare molto di più, e per un lungo periodo di tempo. Avrebbero infatti dovuto pagare tariffe di accesso alla rete pari in media a 8c per kWh, ai quali aggiungere 12c-18c per kWh per l’elettricità venduta loro da SolarCity, invece di pagarla 5c-8c all’ingrosso sulla rete. Le loro bollette elettriche sarebbero probabilmente aumentate di 50%, anziché diminuire di 20%.

Inoltre, l’eventuale rimozione del net metering sarebbe stata ancora più disastrosa, perché i clienti con pannelli solari avrebbero dovuto pagare 12c-18c per kWh a SolarCity, ma avrebbero ricevuto solo i prezzi all'ingrosso di 5c-8c per kWh per l’energia in eccesso che rimandano sulla griglia. Questo avrebbe inasprito ulteriormente le bollette ed avrebbe richiesto un ulteriore investimento, non preventivato, per l'installazione di costose batterie domestiche per lo storage. E questo esborso sarebbe stato sostenuto solo per limitare i costi aggiuntivi delle bollette al 50% per 20 anni.

Una rivolta dei clienti sarebbe stata probabile, se non una massiccia azione legale da parte di chi riteneva di essere stato invogliato a firmare contratti a lungo termine con pubblicità falsa e fuorviante e con una scarsa comprensione dei rischi (l’America è il regno delle class actions…). Per evitare questa pubblicità negativa che avrebbe danneggiato la santificazione di Musk, SolarCity avrebbe dovuto fornire enormi sussidi ai propri clienti, come la rinegoziazione dei tassi di leasing e/o il pagamento per l'installazione dei pacchi batteria. Questo onere sarebbe stato di gran lunga maggiore di quello che SolarCity poteva permettersi e avrebbe trasformato la base installata di impianti da un asset di valore in una enorme liability. Il fallimento sarebbe stato inevitabile.

Come se questi problemi non fossero abbastanza, il costo di installazione degli impianti solari aveva anche iniziato a livellarsi, anzi addirittura ad aumentare leggermente. Che cosa era successo alla continua riduzione nei costi che i sostenitori dell’energia solare avevano previsto con entusiasmo? La questione è l’equilibrio dei costi di sistema: i prezzi dei wafer erano in effetti diminuiti, ma il costo del vetro, del calcestruzzo e della manodopera a quanto pare no, e questi sono diventati i costi maggiori di installazione. I costi aggregati sembrano aver toccato un minimo, ma a livelli non sufficientemente bassi da consentire al solare di essere competitivo con i prezzi all'ingrosso della rete. Peggio ancora, era emersa la chiara evidenza che il solare su vasta scala è molto più efficiente dei singoli impianti: ci sono maggiori economie di scala; maggiore flessibilità nell’identificare le aree più soleggiate; e la possibilità di installare pannelli che regolano dinamicamente l’angolatura rispetto al sole durante il giorno, aumentando l'insolazione. Tutti questi elementi suggerivano che il business dell’energia solare sui tetti delle case fosse più che azzoppato: nel periodo 2016-2017 SolarCity ha licenziato un quinto dei dipendenti.

Pur distratto da molteplici imprese, alla fine anche Musk si è probabilmente reso conto di questi problemi: la sua soluzione è stata di fare in modo che Tesla acquistasse SolarCity. Questo è coinciso - ma forse non è una coincidenza - con l'elezione di Trump, ovvero il politico che più di tutti aveva promesso di ritirare gli US dagli accordi di Parigi e che quindi era improbabile che perpetuasse i sussidi al solare e le politiche di net metering.

Le motivazioni di Musk non sono mai stata pubblicamente ammesse, nascoste dietro le solite prospettive di enormi sinergie tra le due aziende (che sono ancora lontane da essere evidenti). È però ragionevole (ma ben lontano da essere certo) pensare che la vera motivazione fosse di evitare ulteriori problemi: l’implosione di una delle società di Musk sarebbe stata molto dannosa per la sua credibilità, con un potenziale impatto sulla capacità della stessa Tesla di ottenere i necessari finanziamenti. Era pertanto preferibile assorbire i problemi di SolarCity nella più grande Tesla, dove le perdite e le grane di public relations potevano essere seppellite più tranquillamente.

Poco etico? Le decisioni di Musk sono comprensibili: aveva iniziato con le migliori intenzioni, ma si è reso conto che c'erano seri problemi inaspettati. La posta in gioco era alta, sia per lui personalmente che per altre parti coinvolte come clienti e dipendenti: come piccolo azionista si può vendere ed andare avanti, ma non è così semplice quando sei già "all-in". Ma comprensibile non significa scusabile.

Tesla

È forse in questo contesto che si deve leggere l’annuncio, poi ritrattato, di volere fare il buy-out di Tesla e renderla privata? È possibile che la motivazione sia simile al caso di SolarCity, ovvero un tardivo riconoscimento di aver trascurato un difetto strutturale nel modello di business che ha portato l'azienda ad un inevitabile scontro con la realtà, e quindi il desiderio di ritirarsi dal controllo dei mercati pubblici?

Rendendosi conto della posta in gioco, potrebbe essere stato alla ricerca di una soluzione che riducesse al minimo il rischio di implosione. L’ampiezza dei problemi produttivi di Tesla non è ancora chiara e difficilmente sarà così grave come quella di SolarCity (anche se, va ricordato, i problemi di SolarCity adesso sono i problemi di Tesla!), ma è possibile che Musk abbia avuto un momento 'a-ha!' per Tesla come ha fatto per SolarCity.

Una delle questioni potrebbe essere che non sarà possibile produrre il Modello 3 per il mercato di massa in modo redditizio in termini di volumi al prezzo promesso di $35.000 - almeno non nel prossimo futuro. La società ha trascurato la necessità di avere un costante accesso alle materie prime necessarie nelle batterie, e il prezzo di input chiave come cobalto e litio è salito alle stelle: lo stock di offerta è limitato, e Tesla non ha firmato alcun contratto di fornitura a lungo termine. Anche l'accelerazione della produzione si è rivelata molto più complicata di quanto previsto.

Forse ancora più preoccupante, un problema potenzialmente maggiore è che l’innovazione dei veicoli elettrici (EV) è stata troppo efficace, tanto che i governi di tutto il mondo stanno rendendo obbligatori obiettivi di penetrazione delle vendite di EV, in particolare in Europa e Cina. Questo è un problema enorme per Tesla: se le regole sono troppo aggressive rispetto alla naturale domanda dei clienti (a prezzi economici), le altre case automobilistiche - quasi tutte hanno investito massicciamente nella produzione di EV - dovranno venderli in perdita per rispettare i mandati normativi, e sovvenzionare queste perdite con i veicoli a combustione, più redditizi. Modelli che però Tesla non ha, quindi dovrà competere con aziende abituate a combattere sui mercati globali, con notevoli risorse finanziarie, che sono costrette a vendere veicoli elettrici in perdita. Questa sarebbe una posizione poco invidiabile nella quale trovarsi, soprattutto se Tesla continuerà ad avere problemi operativi interni o se i mercati finanziari fossero meno tolleranti. Tesla ha infatti anche assunto un certo numero di impegni finanziari, tra i quali la ricarica gratuita a vita sulla sua rete di stazioni Supercharger  e le garanzie di riacquisto su determinati modelli, oltre a rimanere responsabile delle obbligazioni di SolarCity.

Alcune delle azioni di Musk quest'anno (come le risposte nelle conference call con gli analisti e lo stesso tweet sul buy-out senza che il board di Tesla sapesse niente) tradiscono nervi sempre più logori. Quindi quali benefici avrebbe (o avrebbe avuto) una Tesla privata? Di sicuro più tempo e maggiore privacy per tentare di risolvere i problemi, consentendo allo stesso tempo ai principali azionisti di continuare a controllarne la valutazione. Uno dei motivi per i quali ci sono state così poche IPO di unicorni tecnologici in perdita (al contrario di quello che accadde nella bolla alla fine degli anni 1990, quando qualsiasi azienda si quotava appena possibile) è che la quotazione democratizza il processo di scoperta dei prezzi, e molte delle valutazioni degli unicorni potrebbero non resistere allo scrutinio dei mercati (esattamente quello che è successo prima a Groupon e poi a Twitter e Snap), ed i loro sponsor lo sanno. Il buy-out avrebbe invece consentito di seppellire le perdite in modo molto simile a quanto fatto con SolarCity, ed evitare il continuo controllo del mercato dei capitali e dei media.

Se Tesla rimane quotata (come è previsto al momento) ed i suoi problemi finanziari si aggravano al punto che gli investitori iniziano a perdere fiducia, il prezzo delle azioni potrebbe crollare e l’azienda trovarsi incapace di raccogliere sufficienti capitali per sopravvivere e/o soddisfare le sue aspirazioni. Questo scenario è meno probabile se invece la società è privata: gli azionisti esistenti (Fidelity, i sauditi, Softbank, ed altri nomi simili che sono circolati) sarebbero in grado di continuare a finanziarla - a condizione che abbiano i soldi - sostenendo i loro profitti su carta e l'illusione che non ci sia stata una riduzione del valore. Da questo punto vista Musk ha assolutamente ragione: una Tesla privata ridurrebbe l‘attenzione di media ed analisti sui risultati trimestrali e le permetterebbe di focalizzarsi sulla strategia di lungo periodo. Il problema è che questo puoi permetterlo se sei redditizia (basta vedere la continua espansione di aziende come Ikea, Barilla o Ferrero, per fare qualche nome), mentre Tesla (e SolarCity…) continuano a perdere soldi: è molto più difficile farsi finanziare, soprattutto debito, se sei un’azienda privata con limitata disclosure dei tuoi conti. Di qui il ripensamento del tentativo di buy-out e la decisione di rimanere quotata.

Conclusione
Nonostante il mio scetticismo su Tesla e SolarCity come investimenti (considerazioni che potrebbero rivelarsi assolutamente sbagliate), qualcuno che lavora sodo, con la capacità di ispirare sia i clienti che i dipendenti e che ha una lunga storia di sfidare le probabilità come Musk non dovrebbe mai essere sottovalutato.

Spero di sbagliarmi, ed è anche possibile che si sia semplicemente stancato di essere "tenuto al guinzaglio" dai mercati finanziari: il suo tentativo potrebbe essere stato puramente opportunistico. Ma il tempo ci dirà se quell’improvviso annuncio è stato un atto impetuoso di crescente disperazione.

1 commento:

  1. branduardi canzonerebbe: e venne space x, che si mangiò tesla, che si mangiò solar city......... ma alla fine arrivò l'angelo della morte!

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