martedì 26 marzo 2019

Consumer dividends

Una delle notizie più discusse delle ultime settimane sono stati i risultati di Kraft Heinz (KHC): impairment del goodwill per $15 miliardi, prezzo crollato di 27% in un giorno (Buffett ci ha rimesso oltre $4 miliardi!) e dividendo ridotto di un terzo. Cosa è successo esattamente è ben descritto in questo post del prof. Damodaran.

Una decisione simile era stata presa dal gigante della birra AB InBev (ABI) lo scorso ottobre, con il taglio dei dividendi necessario per “liberare” circa $4 miliardi di flussi di cassa da destinare alla riduzione dell’enorme debito contratto per le acquisizioni degli ultimi anni: AB InBev generava infatti circa $9 miliardi di FCF normalizzati e pagava oltre $7 miliardi in dividendi, lasciando molto poco per ripianare il debito di oltre $115 miliardi. In parole povere: l’azienda non aveva alcuna flessibilità per fare altre acquisizioni, reagire ai cambiamenti nei gusti dei consumatori o anche ricomprare opportunisticamente azioni proprie.

Molte altre aziende nel settore dei consumer packaged goods (CPG) potrebbero decidere di seguire questa strada, e non necessariamente perché costrette. Consideriamo infatti la tabella sottostante (riferita la periodo 2012-2018 se non diversamente indicato): 

BB = buyback
[Volevo includere anche Kraft, ma non ha ancora pubblicato il suo 10-K ed è ufficialmente in violazione delle regole del Nasdaq]


Con alcune eccezioni, negli ultimi 7 anni queste aziende hanno restituito agli azionisti, sotto forma di dividendi e buyback, praticamente tutto quanto hanno generato in flussi di cassa operativi. Non solo: escludendo ABI per i motivi appena descritti, tutte hanno aumentato i dividendi più di quanto siano cresciuti i flussi di cassa operativi.

Mentre è vero che molte di loro non avranno problemi nel mantenere il dividendo corrente per ancora molti anni, come ABI nel passato si stanno auto-limitando, riducendo le possibilità di fare operazioni di M&A o di ricomprare azioni quando fosse più conveniente. Questo lascia molto poco spazio per gli errori, ed avviene in un momento nel quale queste aziende devono affrontare una nuova ondata di competizione spinta dal ridotto appeal dei brand storici.

Uno dei punti di forza di queste aziende è stata storicamente la loro relazione con i supermercati, attraverso la quale ottenevano più spazio sugli scaffali. Questo rapporto era simbiotico: i produttori avevano bisogno dei supermercati per portare i propri prodotti ai consumatori, ed i supermercati avevano bisogno dei migliori marchi per attirare più clienti e massimizzare i ricavi rispetto allo spazio occupato. Questa relazione si è progressivamente indebolita, con più e più retailers che preferiscono promuovere i prodotti a loro marchio, che non solo hanno margini superiori ma li aiutano anche a contrastare la competizione degli hard discounters come Aldi e Lidl.

Fonte: Euromonitor, Morgan Stanley. 

La reazione tipica dei CPG, spinti soprattutto dagli investitori, è stata quella di mantenere ed aumentare i margini riducendo il grasso inutile nell’organizzazione: anno dopo anno hanno implementato programmi di ristrutturazione volti a consolidare gli impianti di produzione, semplificare le catene di approvvigionamento, aumentare le sinergie con acquisizioni, … Non è un segreto, ad esempio, che Nestlè stia tentando di dismettere la sua divisione di creme per la cura della pelle per focalizzarsi sul cibo.

Tutto questo ha sicuramente aiutato, ma ha dei limiti che sono stati probabilmente raggiunti: negli ultimi anni quasi tutta la crescita nei fatturati è venuta da aumenti nei prezzi (positivo, perché mostra che hanno un qualche pricing power) ma praticamente niente da maggiori volumi (molto negativo, perché vuol dire che i loro prodotti non “tirano” più).

Non solo: se i tassi d’interesse dovessero continuare ad aumentare (anche solo in maniera graduale), per alcuni CPG diventerà più costoso rimpiazzare il debito a scadenza, e la prospettiva di “risparmiare” un po’ di FCF diventerà sempre più attraente. Questo è già visibile in alcuni casi: Coca-Cola ha aumento il dividendo negli ultimi anni, ma ha ridotto i buyback da $2-3 miliardi annui a $500 milioni nel 2018, ed allo stesso tempo sta riducendo il capex. Stessa situazione per Colgate: minori spese per buyback e minori spese per investimenti. [Un motivo per la riduzione dei buyback potrebbe essere l’aumento del prezzo di mercato che li rende meno attraenti: tuttavia, in genere le aziende non brillano per la qualità delle loro decisioni di capital allocation.]

Infine, nessuna di queste aziende sembra particolarmente a buon mercato, nonostante solo pochi giorni prima di annunciare i risultati il CEO di KHC avesse detto al Financial Times che le valutazioni attuali rendevano molte aziende degli interessanti obiettivi per M&A

Una delle principali lezioni è ben spiegata dal prof. Damodaran nel post linkato (anche le altre 3 lezioni sono importanti!). Le azioni non sono obbligazioni: le strategie costruite attorno ai dividendi (Dividend Aristocrats e simili) sono attraenti per alcuni investitori perché offrono rendimenti superiori a quanto disponibile nei mercati obbligazionari, spesso con un dividendo in crescita costante. Mentre è vero che i dividendi sono più stabili dei buyback (anche e soprattutto per la riluttanza del management a ridurli), non sono contrattualmente obbligatori come le cedole di un’obbligazione. Quando un’azione ha un dividend yield che sembra troppo bello per essere vero, è più probabile che sia insostenibile piuttosto che un affare.

Got goodwill?
Queste considerazioni si innestano su un altro elemento, caratteristica non solo dei CPG ma comune anche ad altri settori: in maniera molto simile a KHC, lo scorso ottobre General Electric ha licenziato il suo CEO e rivelato una svalutazione del goodwill di $23 miliardi, e dopo pochi giorni il nuovo CEO ha annunciato il taglio del dividendo a solo $0,01 per trimestre.

Un dilemma per molti investitori: molte aziende hanno ammontari record di goodwill nei loro bilanci (per oltre la metà delle aziende US è superiore ad equity, in Europa la percentuale è inferiore ma sempre ai record storici) ed i write-off possono arrivare senza alcun avvertimento.

Fonte: Deutsche Bank. 

Come visto negli esempi citati, per quanto considerati non-monetari, questi write-off devono preoccupare molto gli investitori focalizzati sui dividendi: alla fine goodwill è semplicemente il riflesso degli utili futuri attesi dalle aziende/divisioni acquistate e delle assunzioni dietro la loro determinazione. Un impairment è l’ammissione che gli utili futuri non giustificano quanto pagato, ed un buon indicatore della necessità di ridurre i dividendi.
Fonte: Deutsche Bank.

3 commenti:

  1. Molto interessante l'analisi, soprattutto se legata ad un articolo che avevi linkato qualche tempo fa sulla penetrazione di aldi e lidl in UK. E' interessante notare che ora stanno entrando pesantemente anche in Italia (aldi, mentre lidl c'era gia').
    Alcune riflessioni:
    1) E' sempre meglio ripetere e ripetersi che i dividendi (e un dividend yield alto) non sono sempre una buona cosa per l'investitore. E ho l'impressione che un po' troppe aziende negli ultimi anni di denaro facile abbiano fatto debito per alzare i dividendi e buybacks, alle volte un po' troppo allegramente: io saro' ultra conservativo ma preferisco aziende che tengono una ferrea disciplina finanziaria, anche a costo di dividendi minori
    2) Buffett ha ammesso l'errore Kraft Heinz, ma resta convinto della bonta' di questi brand, ed e' anche uno storico investitore in KO: avra' ragione lui o i private labels toglieranno i moat di questi colossi, che hanno forse i piedi piu' di argilla del previsto, come tu hai messo in luce?
    3) In italia sento parlare a piu' riprese di una quotazione di Esselunga: per quanto detto sopra sull'ingresso nel mercato italiano dei discount lidl e aldi che fanno una competizione ultra aggressiva, io starei lontano mille miglia in caso di quotazione!

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    1. (2) certi brand come Cocacola, Nutella, Skippy, Kellogs, Plasmon, Kettles, per me sono inattacabili, cioè per intenderci tu comprersti la Cocacola o la Nutella a marchio Coop?!

      Altri tipi di prodotti invece stanno venendo massacrati perché oggettivamente la differenza di qualità è praticamente inesistente (penso al latte Granarolo, alla pasta Barilla, ecc.) Prodotti evidentemente a bassissima richiesta di knowhow produttivo da rendere quelli senza marchio praticamente qualitativamente identici a quelli di marca, con un costo che però è la metà o a volte anche 1/3.


      (3) attialmente io starei più lontano da una quotazione di COOP Adriatica (se un giorno mai la trasformassero in SpA) e dal loro prestito soci, piuttosto che da Esselunga.

      Comunque vediamo cosa dice il Dott. Lombardi che è uno che ne sa e ne capisce molto più di me.

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    2. Vorrei saperne di più del mercato, ma la realtà è che non è così.

      Come hai detto tu, molti marchi (Coca-Cola, Nutella, Toblerone) non verranno rimpiazzati, mentre altri hanno una concorrenza agguerrita sul prezzo dalle private labels: tu probabilmente non comprerai mai la “Coop-utella”, ma qualcuno lo fa, mettendo una sorta di cap ai prezzi che la Nutella può applicare.

      [per Coca-Cola il problema potrebbe essere lo spostamento dalle bibite gassate a quelle meno caloriche e più healthy]

      Per Esselunga sembra che la soluzione preferita, se le varie parti della famiglia si metteranno mai d’accordo, è la vendita ad un fondo di private equity piuttosto che la quotazione diretta (che sarebbe comunque prevista in seguito). Il vantaggio di Esselunga su Aldi e Lidl è che ha già una enorme base di supermercati e di clienti fedeli: il punto è vedere quanto è brava a fare concorrenza sui prezzi (penso di sì perché è già abituata).

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