giovedì 28 novembre 2019

Retail apocalypse?

Visto che siamo nel periodo di Black Friday e pre-natalizio, mi sembrava interessante cominciare una discussione su eventuali opportunità nel settore retail.

Il punto di partenza è questo tweet di qualche giorno fa (BBBY è Bed, Bath and Beyond):


Tralasciando l’ossessione degli americani per EBITDA (capex NON è secondario nemmeno per un retailer che sta rallentando la crescita), ho creato la tabella sottostante per mettere in prospettiva alcune valutazioni. L’analisi è necessariamente solo parziale, non potendo includerli tutti ho fatto una scelta altamente aleatoria: ho escluso i supermercati, compresi quelli con attività mista come Walmart, Target o Marks&Spencer; ho escluso i marchi della moda (Prada, Ferragamo, Michael Kors, ...); e tra “Altri retailers” ho selezionatoun gruppo eterogeneo di aziende europee con attività molto diverse tra di loro. È inoltre limitata per altri due motivi: non c’è ROIC (che per queste aziende è ancora più importante che in altri settori) e sarebbe meglio usare i flussi di cassa anziché utili o EBIT (perché è necessario includere l’impatto del capitale circolante).
Alcune mie personali considerazioni, spero corrette.

L’andamento delle vendite non è disastroso, anzi in molti casi è stato positivo anche se non certo entusiasmante: pesano ovviamente la bassa inflazione e la concorrenza dell’ecommerce. [Nota: più che il fatturato assoluto sarebbe più utile confrontare le vendite per negozio o per metro quadrato di esposizione perché molte di queste aziende negli ultimi anni hanno ceduto attività secondarie e chiuso negozi in perdita.]

Tuttavia, il trend dei margini operativi è preoccupante, spesso negativo anche con fatturati in crescita: questo vuol dire che i costi sono aumentati più delle vendite, ovvero c’è più inflazione negli input produttivi (materie prime e lavoro, quest’ultimo soprattutto negli US che sono in piena occupazione) che negli output venduti. [Altra nota: rimane il problema di come considerare le spese per i leasing, se come operative o finanziarie, quindi se includerle o meno in EBIT. Nonostante i nuovi principi contabili per i leasing, per me sono operative: queste spese sono non solo tra i principali costi per un retailer, ma soprattutto relativamente “fisse” e difficili da ridurre anche quando l’attività si contrae.]

Con alcune eccezioni, i margini di profitto sono molto risicati, anche tra i department stores più famosi e gli apparel retailer più globali: è il classico argomento già discusso di come molti brand subiscano molta più concorrenza perché è molto più facile (= meno costoso) per marchi nuovi affermarsi. Ammetto di non essere mai stato in un negozio di BBBY, ma da quello che si legge ha sofferto più di tutti l’impatto dell'online: se vendi prodotti indifferenziati (quindi con costi di switching nulli: tutti i loro prodotti sono disponibili da altre parti e non hanno un’identità abbastanza forte) a prezzi che sono 20%-30% superiori ad Amazon, è ovvio che la maggiore leva operativa (costi fissi) annienti i tuoi margini alla minima flessione nei fatturati.

I primi due settori (department stores e soprattutto US apparel retailers) sono quelli più a buon mercato, ma solo se si crede ad un qualche turnaround: se si usano gli ultimi 12 mesi anziché 3 anni, i multipli sono molto meno convenienti. La classica strategia di comprare questi nomi a basse valutazioni e scommettere su nuovi prodotti, migliore esecuzione o ripresa nel ciclo economico difficilmente funzionerà.

Non per tutti le performance dei titoli sono state terribili, in alcuni casi sono al contrario molto buone. Quello che separa in maniera netta i vincitori dai vinti ad esempio tra i department stores è la politica dei prezzi: Ross Stores, TJX, Dollar General e B&M European Value Retail sono tutte catene di discounters off-price, l’equivalente di Aldi e Lidl per i supermercati.

Il debito rimane molto spesso elevato, anche quando normalizzato su 3 anni, ed oggi che i leasing operativi sono on balance non ci sono più scuse per non considerarli. In molti casi si tratta di errori autoinflitti dal management: negli ultimi 5 anni L-Brands ha speso $1,7 mld in buyback mentre i fondamentali peggioravano ed il debito saliva da $3 mld a $5 mld. Anche nel caso di Pandora parte della performance negativa è dovuta a scelte di allocazione del capitale, in questo caso la decisione di acquisire molti negozi che prima erano in franchising per avere maggior controllo (Pandora meriterebbe un post a parte).

Per questo motivo sono abbastanza scettico sulla possibilità di molteplici buyout (ce ne saranno, ma pochi e selettivi: chi vuole andare all-in su una value trap?): è vero che il debito è ancora molto conveniente, ma la mia impressione è che in questo settore - come forse solo in quello energetico - ci siano molti emittenti con rating BBB che in realtà sono già BB se non B o peggio.

Il modello tradizionale di vendita è sotto attacco da alcuni anni, soprattutto per i cambiamenti nelle preferenze dei consumatori:

  • I brand, in particolare nell’abbigliamento, sono sempre meno importanti (con l’eccezione dell’alta gamma), soprattutto quelli che sono ancorati al concetto di shopping mall
  • A differenza del passato, quando era cool indossare un certo capo o accessorio, oggi gli acquirenti vogliono non solo sempre più convenienza ma anche personalizzazione
  • E vogliono condividere le loro esperienze con altri attraverso la tecnologia, ma non vogliono “parlare con una persona
Questi trend sono secolari, sono in genere essere determinati da fattori non quantitativi e non hanno una durata predefinita. Categorie che stanno beneficiando da trend secolari favorevoli: fai-da-te (home improvement); cosmetici e bellezza; off-price. Senza capirne il loro impatto sulle strategie dell’azienda, anche l’analisi finanziaria più dettagliata non aiuterà molto.

Detto questo, per me rimangono almeno due importanti domande:

  1. Quali saranno i vincitori nei prossimi anni, quelli che riescono ad avere una maggiore presenza online? Tutti si stanno orientando verso soluzioni omni-canale, ma non è né così semplice né una soluzione universale: non solo cannibalizza le vendite fisiche, ma richiede investimenti in tecnologia ed infrastruttura che devono essere spesati immediatamente, quindi occorre convincere il mercato della loro bontà nel lungo periodo a scapito dei risultati nel breve. Walmart sembra esserci riuscita, e adesso la sua offerta online rivaleggia con Amazon, ma quante altre aziende possono farlo?
  2. Il problema è semplicemente nei negozi fisici o nel prodotto(i)? Perchè alcuni hanno fatto molto bene (ad esempio i due marchi italiani Moncler e Brunelli Cucinelli, pur avendo entrambi aumentato la presenza fisica), mentre altri hanno fatto molto male (Tod’s)? È solo il management a fare la differenza?
Chiunque voglia aiutarmi a chiarire questi punti o contribuire alla discussione è benvenuto: ma per favore non scrivete “che ne pensi di XYZ?”, perché tranne alcune delle aziende nella tabella le altre le conosco poco e non ho un’opinione ben definita. Piuttosto: dettagliate pure la vostra tesi (long o short), se preferite potete scrivermi (l’indirizzo email lo trovate sotto Informazioni Personali nella colonna a destra) e se mi autorizzate pubblicherò qui le vostre opinioni per continuare la discussione.

3 commenti:

  1. Complimenti come sempre per l'analisi.

    Ti propongo qualche commento/spunto.

    1) Ma non stai mettendo assieme aziende un po' tanto diverse? In particolare non so se Tod's, Cucinelli, Moncler si possano davvero definire retailer, perche' loro producono (e vendono principalmente in proprio, ma anche online), mentre i classici retailers vendono cose prodotte da altri, es Walmart. A me pare una differenza molto importante questa, e mi sembra un po' rischioso paragonare questi due tipi di societa'.

    2) Sul perche' Tod sia andata malissimo negli ultimi anni e Moncler/Cucinelli piuttosto bene, sicuramente il management e' un fattore molto importante, ma aggiungerei anche il tipo di prodotto, in particolare Cucinelli punta sull'altissima fascia, mentre tods ha solo il marchio roger vivier che e' lusso altissimo (nel quale oserei dire non c'e' mai crisi).

    3) In ogni caso, mi pare che la maggior parte dei retailers si stia attrezzando anche all'online. O almeno la maggior parte di quelli che sopravviveranno.
    Se devo dare un parere, in generale, anche se a multipli ragionevoli non mi lancerei troppo su un settore che e' in crisi e non si vede bene come possa risollevarsi (il retailer puro, chi produce direi che ha piu' chances), perche' fare concorrenza ad Amazon/Alibaba/Walmart e' praticamente una lotta persa per retailers medio/piccoli, a meno di specificita' del loro focus di prodotti/ posizione geografica in zone mal servite nelle spedizioni...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Si, la terza categoria è volutamente un miscuglio di aziende: non sono department stores come Macy (che vende cose di terzi), ma sono simili a Gap ed Abercrombie, cosa che vale anche per H&M, Inditex e Pandora.

      La mia curiosità principale è: se tutti dicono che il problema sono i negozi fisici (costi elevati rispetto ad online), come mai queste aziende che si fondano sulle vendite in negozio (e ne hanno aperti molti negli ultimi anni, non chiusi) stanno invece andando molto bene? La stessa Inditex non è certo stata un disastro.

      “anche se a multipli ragionevoli non mi lancerei troppo su un settore che e' in crisi e non si vede bene come possa risollevarsi (il retailer puro, chi produce direi che ha piu' chances)”: Gap e L-Brands rientrano tuttavia in questo gruppo.

      Ed i department stores off-price (i più diretti concorrenti di Amazon) hanno fatto molto bene.

      Elimina
  2. Nella tua analisi sul mondo retail, magari può esserti utile analizzare anche l'evoluzione e l'approccio scelto da RH (e Gary Friedman)
    giusto per farti una prima idea ...dai risultati 3° trimestre usciti ieri:
    "We have spent decades building a business model that generates industry leading profitability and return on invested capital, and believe real models will become wildly popular in the post WeWork era.

    We also believe this recent period has been reminiscent of previous times when growth without profitability has been unjustly rewarded, and valuations were based on the misplaced belief that an online retail business is more profitable than a physical store. This view has driven new concepts to launch as “digitally native brands” chasing internet valuations and cheap capital from private and public markets who have somehow confused an online retail startup, or in the case of WeWork, an office subleasing business, with a technology company. It’s becoming clear that retail brands birthed online desperately need a store lifeline to survive, as many are finding the variable cost of marketing an invisible store an unprofitable path to the future.

    Traditional retailers hoping for the same favorable valuations, and in some cases driven by the fear of not being viewed as fashionable by millennials, have allocated the vast majority of their capital to unnaturally grow their digital business. This has resulted in shifting, not lifting, sales online at greater costs, driving down margins while physical stores have been left to rot.

    We on the other hand have chosen to take the road less traveled, and believe, like Robert Frost, that it will make all the difference. Our focus on elevating the RH brand by building architecturally inspiring spaces that blur the lines between residential and retail, indoors and outdoors, home and hospitality with seamlessly integrated restaurants and services, have rendered our brand more valuable while creating a customer experience that cannot be replicated online.

    Our dominant physical presence combined with our integrated multi-channel platform that generates over a billion dollars online will continue to enable the RH brand to disrupt the highly fragmented luxury home furnishings market and take share for years to come.

    Add to the above the most efficient operating platform in our industry, a vertically integrated real estate development model that is dramatically lowering capital requirements and occupancy costs, and our discipline of driving high quality profitable growth and you begin to understand why RH is one of the only brands that is expanding operating margins while generating industry leading returns on invested capital and significant free cash flow."
    ....
    "We do understand the strategies we are pursuing – opening the largest specialty retail experiences in our industry while most are shrinking the size of their retail footprint or closing stores; moving from a promotional to a membership model, while others are increasing promotions, positioning their brands around price versus product; continuing to mail inspiring Source Books, while many are eliminating catalogs; and refusing to follow the herd in self-promotion on social media, instead allowing our brand to be defined by the taste, design, and quality of the products and experiences we are creating – are all in direct conflict with conventional wisdom and the plans being pursued by many in our industry.

    We believe when you step back and consider: one, we are building a brand with no peer; two, we are creating a customer experience that cannot be replicated online; and three, we have total control of our brand from concept to customer, you realize what we are building is extremely rare in today’s retail landscape and, we would argue, will also prove to be equally valuable."
    http://ir.restorationhardware.com/news-releases/news-release-details/rh-reports-record-third-quarter-fiscal-2019-results?field_nir_news_date_value[min]=

    RispondiElimina