venerdì 17 luglio 2015

To hedge or not to hedge, questo è il problema

Complici le oscillazioni dell’euro in una direzione o nell’altra, molti risparmiatori preferiscono orientarsi verso investimenti dove l’esposizione valutaria è “coperta”. [D’ora in avanti queste strategie saranno indentificate come hedged, mentre quelle senza copertura sono unhedged.] A questo sono spinti anche e soprattutto dal marketing dell’industria del risparmio gestito che promuove continuamente l’idea che “le strategie hedged sono meno rischiose, hanno tutti i vantaggi e nessuna controindicazione”. Come al solito, non è esattamente così.

Per un portafoglio obbligazionario, a meno di avere una forte convinzione su una valuta specifica, coprire l’esposizione valutaria è generalmente una buona idea: questo perché le obbligazioni rappresentano flussi monetari nominali denominati nella valuta locale [1]. Al contrario, per i portafogli azionari globali è invece un costo spesso non necessario: nell’era della globalizzazione molte aziende hanno ricavi e costi denominati in una moltitudine di valute, e semplicemente coprirsi rispetto a quella nel quale un titolo è denominato non annulla l’esposizione, ma al contrario aggiunge un ulteriore rischio all’investimento.

Chi promuove le strategie hedged come meno rischiose utilizza la riduzione della volatilità come principale motivo a supporto della tesi. Quello che dovreste invece sapere è che:
  1. In termini di rendimento, la performance delle strategie azionarie hedged vs. unhedged nel lungo periodo è praticamente indistinguibile (discorso diverso per le strategie obbligazionarie): questo perché su periodi sufficientemente lunghi i movimenti nelle valute sono mean-reverting;
  2. L’attività di hedging può ridurre la volatilità di breve, ma i dati dimostrano che non riduce quella di lungo. Non solo: questo effetto è andato progressivamente diminuendo nel corso del tempo;
  3. Hedging introduce la leva nel portafoglio, che potrebbe portare a maggiori tail risk.

Partiamo dai fatti. È vero che le variazioni nei tassi di cambio influenzano il rendimento di un investimento in valuta non-domestica: se compriamo un’azione Apple ed il suo prezzo sale ma allo stesso tempo il dollaro si deprezza rispetto all’euro, il guadagno sull’azione si riduce e può addirittura trasformarsi in una perdita.

Quello che molti non considerano è che la strategia di hedging offerta da fondi e/o ETF (che è nella stragrande maggioranza dei casi prevedono l’uso di contratti forward ad un mese) non è gratuita. Tralasciando per un attimo i costi di transazione - che sono marginali per le principali valute mondiali ma tutt’altro che trascurabili nei mercati emergenti -, un investitore che entra in un contratto di copertura per vendere forward una valuta che ha tassi d’interesse inferiori a quelli della sua valuta domestica, bloccherà contrattualmente un guadagno già definito in partenza. Al contrario, chi vende forward una valuta i cui tassi d’interesse sono superiori a quelli del proprio paese, bloccherà una perdita. Ad esempio, se i tassi d’interesse sono di 1% in Giappone e di 3% negli US, un investitore americano che entra in un contratto forward per vendere JPY tra un anno bloccherebbe un guadagno di circa 2% su questa transazione.

Questo porta ad una prima conclusione: poiché i tassi d’interesse a breve nell’Eurozona, per lo meno per i paesi core, sono i più bassi al mondo (con l’eccezione della Svizzera), un investitore in euro che sceglie una strategia hedged al momento accetta contrattualmente di perdere qualcosa ogni mese.

Secondo fatto: su brevi periodi, la copertura aiuta ad evitare i drawdown dovuti alle (spesso violente) oscillazioni nelle valute, ma molti studi empirici dimostrano che su lunghi periodi il rendimento è molto simile. Dal 1994 ad oggi, l’indice MSCI World in valuta locale (hedged) ha avuto un rendimento annuo lordo di 7,6%, mentre nella versione unhedged in USD il rendimento è stato di 7,5%.

Coprire la valuta di denominazione non è vero “hedging
La maggior parte dei flussi di cassa delle aziende large cap globali sono oggi denominate in una miriade di valute, e spesso non hanno alcuna relazione con quella nella quale l’azione è trattata: per Nestlé i ricavi in CHF sono solo 1,7% del totale.

Metà delle aziende incluse nell’indice FTSE 100 ha un’esposizione minima all’economia – e quindi alla valuta – del Regno Unito: semplicemente, hanno deciso di quotarsi sulla borsa di Londra per motivi storici o per convenienza. Dei primi 10 titoli (Royal Dutch Shell, HSBC, BP, GlaxoSmithKline, British American Tobacco, Vodafone, AstraZeneca, Diageo, Prudential, Lloyds Banking Group), che rappresentano il 41% dell’indice, solo Lloyds deriva la maggior parte dei propri ricavi e profitti in UK. Andare short la sterlina non coprirebbe assolutamente l’esposizione valutaria: al contrario, aggiungerebbe al portafoglio una ulteriore posizione direzionale. 

Dal punto di vista della loro esposizione valutaria, le aziende posso essere classificate in 4 categorie:

Per le aziende che trattano risorse naturali, l’esposizione principale è ai prezzi delle commodities, che sono determinati sui mercati globali e non collegati a nessuna valuta in particolare anche se la maggioranza di questi sono espressi in USD. Le multinazionali hanno sia costi che ricavi in differenti valute, e quindi non sono necessariamente esposte a nessuna in particolare. Gli esportatori hanno la maggioranza dei ricavi all’estero e quindi beneficiano di una deprezzamento della valuta domestica perché i loro prodotti diventano più competitivi (e viceversa, soffrono quando la valuta domestica si apprezza): per questo motivo un investitore potrebbe voler coprire la loro esposizione con una posizione long sulla valuta domestica. Infine, ci sono le aziende orientate al mercato domestico, che sono le uniche ad avere una reale esposizione alla valuta locale: per queste aziende può essere razionale coprire l’esposizione valutaria, ma rappresentano solo circa 15%-25% della capitalizzazione globale dell’indice MSCI World All-Country.

In aggregato, per portafogli diversificati come quelli rappresentati dagli ETF è molto difficile identificare un’esatta esposizione valutaria che non sia quella semplicistica data dalla valuta di denominazione. [Per un portafoglio concentrato questo è invece possibile.] Ci sono infatti aziende più orientate al mercato domestico che sono però bilanciate da quelle esportatrici e dalle multinazionali: non è quindi facile decidere quale e quanta esposizione coprire, senza contare che molte di aziende hanno in essere sofisticati programmi interni di hedging.

Hedging della valuta può aumentare il rischio
Chi sostiene che la copertura dell’esposizione valutaria in un portafoglio globale riduca il rischio lo fa guardando alla volatilità. Nel breve periodo (meno di tre anni), hedging può effettivamente ridurla. Ma per chi ha orizzonti temporali più lunghi, e soprattutto non considera la volatilità come una misura del rischio, questa non è una tesi convincente.

Un’analisi di GMO identifica due periodi ben distinti. Per gli anni 1970-1989, un portafoglio globale hedged ha avuto una volatilità inferiore rispetto ad un portafoglio in USD (l’analisi è stata fatta dal punto di vista di un investitore americano), anche se questo beneficio è praticamente annullato su periodi superiori a 5 anni. Per gli anni seguenti (1990-2015), le differenze in termini di volatilità sono marginali se non completamente assenti, ed addirittura la volatilità è superiore per i portafogli hedged nel lungo periodo, anche se di poco. È stata proprio la globalizzazione a ridurre fino ad annullare i benefici dell’hedging sulla volatilità.
Fonte: GMO.

Hedging può aumentare il “tail risk
L’idea che la copertura valutaria possa aumentare la volatilità nel lungo periodo come nel grafico precedente può sembrare contro-intuitiva. In realtà, seppur considerata una forma gestibile di leva, la copertura aumenta comunque l’esposizione nominale, e quindi l’impatto sia sui guadagni che sulle perdite: il currency hedging aumenta il tail risk aggiungendo una posizione short sulla valuta estera all’investimento azionario.

Quanto accaduto quest’anno al franco svizzero illustra perfettamente questa situazione. Il 15 gennaio scorso la banca centrale svizzera decise di abbandonare il peg con l’euro, facendo apprezzare bruscamente CHF rispetto a tutte le principali valute mondiali. Il mercato azionario crollò istantaneamente con l’indice MSCI Switzerland che in valuta locale (hedged) scese del 14% tra il 15 ed il 16 gennaio, mentre un investimento unhedged dal punto di vista di un investitore europeo ebbe un risultato completamente diverso: lo stesso indice in EUR aumentò infatti del 5%. È certamente vero che alcune aziende esportatrici (come ad esempio Swatch, che ha circa 80% dei propri ricavi fuori dalla Svizzera) persero in termini di competitività ed il loro prezzo diminuì anche in euro; ma questo fu compensato da aziende focalizzate sul mercato domestico (ad esempio Swisscom, che genera quasi tutti i suoi profitti in Svizzera) che diventarono all’improvviso più preziose per gli investitori non svizzeri.
Affinché la strategia di hedging riduca la volatilità nel breve periodo occorre che la posizione short sulle valute estere abbia una correlazione negativa con i mercati azionari (si tratta in effetti di un correlation hedge). E qui la storia si complica ulteriormente, perché dipende da quale punto di vista si utilizza. Le valute considerate beni rifugio (USD e CHF) tendono ad andare bene quando le azioni soffrono: essere short le valute estere e long USD/CHF tende ad avere una correlazione negativa con i rendimenti azionari locali, e quindi a ridurre la volatilità. Ma per altre valute, come ad esempio EUR, AUD e CAD che sono high beta (cioè tendono ad andare male quando le azioni vanno male), una posizione short nelle valute estere e long in una di queste valute ha invece una correlazione positiva con i rendimenti azionari locali, e quindi aumenta la volatilità.

Conclusioni
La mia posizione di base per i portafogli azionari è di non coprire l’esposizione valutaria, riassunta bene nell’espressione: “Own the stock, own the currency”.

Le strategie che coprono sistematicamente l’esposizione valutaria come quelle offerte dagli ETF lo fanno sulla base della valuta nel quale un’azione è trattata: ma come abbiamo visto questa non rappresenta necessariamente la sua reale esposizione sottostante. Il termine currency hedged da agli investitori un falso senso di sicurezza, in quanto aggiungere una posizione short in una valuta può aumentare (e non diminuire) il rischio.

Non solo: non bisogna dimenticare che gli investitori posseggono anche altri investimenti, e le obbligazioni – spesso la componente principale del portafoglio – sono in maniera preponderante denominate nella valuta domestica. Avere un portafoglio azionario globale unhedged può fornire una valida diversificazione per il portafoglio nel suo complesso.

[1] C’è un’eccezione specifica a questa regola, e riguarda le obbligazioni dei paesi emergenti denominate in valuta locale. Può sembrare paradossale, perché molti sostengono che questi investimenti sono quelli che necessitano maggiormente di protezione perché le valute emergenti sono più rischiose (in realtà sarebbe più corretto dire che si tratta di un tipo differente di rischio, che è proprio quello che molti investitori cercano). Come spiegato nel post, i paesi emergenti hanno tipicamente tassi d’interesse superiori a quelli dei paesi sviluppati, e quindi i forward sulle loro valute trattano a premio: l’investitore che vende queste valute a termine blocca immediatamente una perdita.

Per un’allocazione strutturale e di lungo periodo, considerando che i tassi di cambio sono ciclici anche nei paesi emergenti, si finisce per pagare per anni una copertura che serve a poco o nulla. In altre parole, nel tentativo di ridurre la volatilità di breve si finisce per neutralizzare l'effetto positivo dei tassi più alte, e ci si ritrova con il rischio di credito di Russia, Indonesia, Turchia, … ma con i rendimenti della Germania.

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