lunedì 18 gennaio 2016

Variabili non-predittive, e perché anche la divinazione perfetta non aiuta

Tesi: la maggior parte delle variabili macroeconomiche considerate un elemento essenziale nei modelli di valutazione (crescita del PIL, livello di occupazione, tassi d’interesse, prezzo del petrolio) portano spesso a scelte sbagliate e detraggono, anziché aggiungere, dalla performance del portafoglio.

Svolgimento: consideriamo un esempio reale, e partiamo dall’assunzione – molto diffusa - che i mercati azionari dei paesi emergenti, ancorché più “rischiosi” (maggior volatilità, minore regolamentazione, …), hanno nel lungo periodo rendimenti superiori perché le loro economie stanno crescendo più velocemente. La tabella sottostante elenca, in ordine decrescente, il tasso di crescita nominale del reddito nazionale pro-capite (gross national income, misurata in USD) per cinque paesi emergenti (Brasile, Cina, Corea del Sud, Malesia e Sudafrica) e due sviluppati (Germania e US). Domanda: quale paese ha visto crescere la propria economia a quale tasso?


Fonte: World Bank, dati effettivi al 2014.

Le risposte più semplici sono probabilmente la Cina, in cima alla classifica con oltre 17% annuo, e Germania ed US, in fondo, rispettivamente con 4,1% e 2,4%. Gli altri paesi sono, nell’ordine, Brasile (13,4%), Malesia (9,0%), Sudafrica (6,1%) e Corea (5,6%). Per quest’ultima, su 10 anni significa una crescita dell’economia domestica del 73% rispetto al 26% degli US. 

Adesso facciamo un passo avanti e supponiamo di poter sfruttare la miglior strategia possibile, quella che sembra essere il sogno segreto della maggior parte degli investitori: la conoscenza perfetta degli eventi futuri. Ipotizziamo infatti di aver avuto a disposizione, al 31 dicembre 2005 (10 anni fa), la precedente tabella, che arriva direttamente dalle pubblicazioni della World Bank. È infatti più o meno a quell’epoca che furono creati i primi ETF su singoli paesi emergenti, così che anche gli investitori retail potessero avere accesso in una forma semplice e liquida alle azioni brasiliane o cinesi. [Nota: i paesi utilizzati nella tabella sono stati scelti proprio perché gli ETF iShares per questi mercati esistevano già nel 2005; altri mercati, come India o Indonesia, non sono stati disponibili se non dopo qualche anno. Ho utilizzato gli ETF disponibili sul mercato americano per la maggior lunghezza delle loro serie storiche: le performance riportate sono quindi in USD. Questi stessi ETF sono poi stati resi disponibili anche in Europa come fondi UCITS, ma in molti casi la loro valuta sottostante rimane comunque USD.]

Armati di questa esatta conoscenza ex-ante del futuro non disponibile per nessun altro, quali mercati avremmo dovuto scegliere? I rendimenti effettivi ex-post sono mostrati nella tabella seguente, che include anche un generico ETF sui mercati emergenti (così da investire senza un eccessivo rischio in un singolo paese) ed altre tre nazioni (India, Indonesia, Turchia) per i quali sono oggi disponibili almeno 5 anni di performance.


Fonte: World Bank, iShares.

Tre dei cinque paesi emergenti hanno fatto peggio, su 10 anni, di US e Germania, così come l’intero fondo Emerging Markets. E nonostante tassi di crescita spesso a doppia cifra, su cinque anni le loro performance sono state tutte negative e lontane anni luce dai paesi sviluppati.

La spiegazione più immediata è che la crescita del PIL, anche su periodi di 5 e 10 anni, non ha alcun potere predittivo per i mercati azionari. Gli economisti spendono gran parte del loro tempo analizzando le prospettive di crescita dei vari paesi, e gli investitori spesso usano queste previsioni nei loro modelli di asset allocation. Ma il “mito del PIL” è stato confutato più e più volte: come mostrano i due grafici sottostanti, la crescita del PIL ed i rendimenti reali dei mercati azionari non sono affatto correlati. Al contrario, la relazione è leggermente negativa, e questo vale sia per i paesi sviluppati che per quelli emergenti.


Perché?
  1. I mercati azionari (e gli indici che li rappresentano) non riflettono l’intera economia di un paese, come invece fa il PIL. S&P 500, ed ancora di più Russell 3000, sono una buona rappresentazione dell’economia americana, ma lo stesso non si può dire per paesi come l’Italia o quelli emergenti, nei quali aziende private e statali, che sono comprese nel calcolo del PIL e ne rappresentano una significativa porzione, non sono invece riflesse negli indici azionari.
  2. La crescita del PIL potrebbe essere già “prezzata” nei valori di mercato: quello che conta è infatti la crescita attuale rispetto alle attese. La “trappola” scatta quando gli investitori sono sedotti a comprare i mercati e segmenti a più alta crescita, ma nel loro entusiasmo finiscono per pagare prezzi troppo alti.
  3. Il PIL è un po’ come il fatturato per un’azienda: la sua crescita non significa automaticamente migliori margini o migliori rendimenti del capitale. C’è una differenza sostanziale tra crescita economica e crescita di utili/FCF/dividendi per azione: agli azionisti interessa la seconda, non la prima. Nel grafico precedente, le due nazioni con la miglior crescita degli EPS sono state Svizzera e Svezia, che invece hanno avuto una crescita del PIL inferiore alla media; Canada ed Australia, che hanno avuto tra i maggiori tassi di crescita reale, hanno invece mostrato pochissima crescita degli EPS. La risposta è nella necessità di finanziare questa crescita: Canada ed Australia hanno sfruttato l’onda lunga delle commodities, ma i massicci investimenti hanno diluito gli azionisti. Svezia e Svizzera, al contrario, non hanno dovuto reinvestire un granchè, facendo più felici gli azionisti nonostante una crescita economica inferiore.
Quindi, la perfetta conoscenza ex-ante non avrebbe aiutato molto nella nostra ipotetica strategia. Ci sono infatti altri fattori in gioco. Questo è il problema principale dell’applicare modelli e strategie che sembrano intuitivamente ovvie: quali (e quanti) altri fattori sono in gioco? Un investimento in un ETF non tiene in nessuna considerazione la sua composizione, i business sottostanti, la loro valutazione o altri aspetti. Quanti di quelli che comprano un ETF sulla Cina o sull’India sanno esattamente cosa stanno comprando? [1]

Una seconda osservazione è che la miglior performance dei paesi sviluppati, rispetto ad EM, è stata decisamente superiore negli ultimi 5 anni. Questo perché il periodo di analisi di 10 anni è cominciato prima della grande crisi del credito, mentre quello di 5 anni comincia alla fine del 2010. È stato proprio all’indomani della crisi che la domanda per ETF ed altri investimenti passivi è esplosa, spinta dal desiderio di evitare il rischio specifico, di minimizzare la volatilità del portafoglio o di ottenere l’asset allocation desiderata attraverso “mattoncini” che potevano essere facilmente comprati, venduti o hedged.

C’è inoltre un’altra variabile contradditoria: la volatilità nei mercati azionari dei paesi sviluppati, misurata dagli indici VIX e VDAX, è negli ultimi anni diminuita drasticamente. Nel 2007 era al 26%, ed alla fine del 2009 era al 25%, anche se nel frattempo era salita fino a 80%; oggi è di nuovo attorno a 25% dopo essere scesa fino a 11%. Forse la volatilità di S&P500 e DAX è diminuita per il costante afflusso di capitali in poche azioni; come conseguenza, lo schema di domanda/offerta per queste azioni è diventato più prevedibile. Una ulteriore conseguenza è che l’attrattiva di S&P/DAX nei moderni modelli di asset allocation è aumentata, perché la combinazione di alti rendimenti e bassa volatilità porta a rendimenti risk-adjusted molto superiori a quelli di EM, che a sua volta implica un’ulteriore domanda verso questi assets. Questo è proprio il circolo vizioso ed auto-referenziale caratteristico di una bolla.

Questo potrebbe voler dire che gli indici hanno modificato la loro funzione: invece di fornire semplicemente una misura della performance del mercato e di facilitare la partecipazione passiva, sono passati ad avere un impatto diretto sui prezzi.

[1] Post scriptum: Il numero di aziende quotate in India è superiore a 4,000. Di queste, circa 750 hanno una capitalizzazione superiore a $100 milioni, e meno di 500 superiore a $250 milioni. Circa 60 aziende hanno una capitalizzazione superiore a $5 miliardi, che in US ed Europa è considerata mid-cap.

L’indice MSCI India utilizzato da molti ETF include solo 73 aziende, che rappresentano 85% dell’universo disponibile. Le prime 10 aziende nell’indice pesano per il 51%, probabilmente non il livello di diversificazione che un investitore in questi prodotti ricerca. Infosys, Reliance Industries e Tata Consultancy (rispettivamente, la prima, terza e quarta posizione nell’indice, per un totale di 24%), derivano il 98%, 68% e 93% del proprio fatturato al di fuori dell’India. L’India ha fatto (e probabilmente farà) molto bene, e gran parte delle aziende indiane beneficerà di questa crescita, ma non è detto che lo stesso avvenga per l’ETF.

5 commenti:

  1. Articolo molto interessante!

    Ha fatto bene a chiarire che il PIL è il 'fatturato' del paese, e NON gli earnings. Pensandoci a posteriori è una banalità, però spesso si tende a confondere le cose.

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  2. Un'altra variabile non predittiva è investire dopo essersi fatta un'opinione su un paese che si ha visitato.

    Uno vede il Giappone, simbolo di perfezione, e ordine. Tutto pulito, funzionante ed ipertecnologico.
    Dopo tale esperienza uno non può che pensare: "che grande paese, chissà quanto crescerà e si svilupperà ancora".

    30 anni che l'MSCI Japan rotola giù dalle scale.

    Poi uno visita l'India: fogne a cielo aperto, caos, Stato inesistente, bambini che elemosinano ad ogni angolo, donne stuprate in autobus all'ordine del giorno.
    Dopo tale esperienza uno non può che pensare: "che paese fallito, ma dove vuoi che vadano questi?!"

    E dal 2000 MSCI India è cresciuto di più dell'S&P500.

    Mah!

    Di positivo c'è che forse potrebbe funzionare allo stesso modo per l'Italia come per l'India, se così fosse tra 10-15 anni avremmo la borsa che è cresciuta di più di tutto il resto del globo. :-)

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    1. certo, ma dipende da che tipo di analisi fa: se deve scegliere dove vivere tra India e Giappone guarda alla qualità della vita (sanità, istruzione, sicurezza, tasse, ...), non all'indice MSCI.

      Il problema è basare gli investimenti su "fattori" che è ampiamente dimostrato essere non predittivi, come la crescita del PIL.

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    2. Ma esistono secondo te fattori predittivi?

      Di sicuro, per chi lo sa fare come te, è sensato cercare di investire in un blocco di aziende che si ritiene dopo attenta analisi essere un buon investimento.

      La verità è che però imprevisti come eventi geopolitici sono imprevedibili (tsunami, torri gemelle, guerre), ma anche più 'semplici' recessioni credo siano imprevedibili.

      Alla fine MSCI World in €, come prezzo, senza contare i dividendi, sta oggi ad un valore inferiore a quanto stava negli anni 2000. Anche colui che avesse voluto stare ampiamente diversificato non se la deve essere passata bene dal 2000 ad oggi, sempre poi che abbia resistito a non vendere prima, visto i tracolli 2003/2009.

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    3. Se vogliamo rimanere in campo accademico, fattori come Value (o meglio Value+Quality) e Small hanno dimostrato di essere effettivi nel lungo periodo.

      L’imprevisto è sempre dietro l’angolo, non solo per fattori geopolitici ma anche semplicemente la competizione che subiscono i business di successo: per questo il margine di sicurezza è importante, per cautelarsi contro questi eventi “imprevisti”, oltre che ovviamente da errori nell’analisi.

      Quello che dici di MSCI World è vero, ma:
      1) I dividendi esistono, quindi escluderli dal calcolo della performance è sbagliato (ok, neanche assumere il reinvestimento perfetto e continuo è possibile, però ci sono)
      2) Il 2000 è stato il picco della bolla Internet, basta far cominciare l’analisi dal 2002 ed i risultati sono molto diversi. O andare indietro al 1970 per comprendere più cicli, recessioni, etc…

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