lunedì 14 marzo 2016

Quantità or qualità? (I)

Ridotto ai minimi termini, investire significa comprare qualcosa il cui prezzo corrente è inferiore al suo valore intrinseco. Il problema è che possiamo conoscere il prezzo di un’azione in qualsiasi momento, ma non possiamo mai essere sicuri del suo reale valore perché il futuro è incerto.

Per questo motivo molti investitori (me compreso) gravitano attorno a criteri quantitativi: un’azienda che tratta ad un P/E di 10x è migliore di una a 15x, ed un P/E di 5x comincia a farci salivare.


Pagare poco per gli utili (cash flows) di un’azienda è un ottimo punto di partenza: ma quello che dovrebbe interessare di più è l’ammontare assoluto di cash flows che l’azienda sarà in grado di generare nel corso del tempo. Questo vuol dire dare maggior peso a fattori qualitativi, come la dimensione del mercato di riferimento, il pricing power, la forza del moat, la capacità del management di allocare il capitale, etc… E la qualità - in genere – si paga: aziende come Novo Nordisk o Visa difficilmente tratteranno a multipli contenuti, ma possono essere un “affare” anche ad un P/E di 30x. 

Meglio la qualità?
Focalizzarsi soprattutto sui multipli ha un inconveniente: è vero che Mr. Market è di quando in quando affetto da disturbi bipolari, ma non è un completo idiota per la maggior parte del tempo. Le aziende che trattano a bassi multipli tendono ad avere problemi specifici e prospettive future mediocri (banche italiane!): è veramente questo il lago nel quale un investitore di lungo termine dovrebbe pescare?

Il problema di un approccio puramente quantitativo è che - soprattutto nelle condizioni di mercato attuali – i titoli che trattano a multipli bassi sono “cheap for a reason”. È altamente improbabile che siamo i primi ad accorgersi che quell’azienda tratta ad un P/BV di 0,5x o ad EV negativo, ed il cui prezzo è destinato a raddoppiare in meno di 6 mesi. È infatti fin troppo semplice identificare aziende statisticamente a buon mercato: 50 anni fa occorreva spulciarsi Value Line, oggi sono invece disponibili dozzine di database per fare lo screening. Al contrario, è più impegnativo scovare un’azienda sottovalutata sulla base di un’analisi ponderata delle sue prospettive future. Se la chiave per identificare con successo aziende sottovalutate fosse puramente quantitativa, non dovremmo sorprenderci se i gestori umani saranno presto rimpiazzati da robot: ma non credo che sarà questo il caso, anche se sono ovviamente di parte… 

Ogni azione veramente “cheap” che troviamo oggi ha un qualche problema: possono essere specifici (troppo debito, management “egoista”, …), settoriali (esposizione ai mercati emergenti, ad oil&gas, …) o una combinazione di entrambi. Se non riusciamo ad identificarlo, è molto probabile che ci sia sfuggito qualcosa. Ed una volta trovato, il passo successivo è chiedersi: in che cosa la mia opinione è differente da quella di tutti gli altri? Solo dopo aver risposto a questa domanda si può considerare come un potenziale investimento.

L’evidenza empirica
Ci sono dozzine di studi e ricerche che evidenziano la persistenza del fattore value, e sono alla base di molti ETF smart beta. Quindi si potrebbe concludere che è inutile spendere tempo analizzando i fondamentali, basta comprare alcune di queste aziende e nel corso del tempo avrò ottenuto il mio alpha. Ci sono almeno due controindicazioni per questa strategia:

  1. i risultati funzionano quasi esclusivamente su portafogli di moltissime azioni: ad esempio, sull’ultimo decile delle azioni americane, che vuol dire comunque un portafoglio di 400-500 azioni;
  2. nel corso del tempo alcuni fattori (primi tra tutti P/E e P/BV) hanno perso rilevanza: una metrica molto utilizzata oggi (EV/EBIT, resa popolare da Joel Greenblatt) potrebbe a sua volta veder diminuire la sua importanza in futuro.
Comprare cheap offre la possibilità di beneficiare dal re-rating dei multipli (anche se alla fine si tratta semplicemente di un’anticipazione degli utili futuri), per guadagni spesso spettacolari in tempi rapidi. Ma in questa tesi c’è l’assunzione implicita di una qualche inefficienza nel prezzo che verrà corretta: questo richiede che il mercato si accorga di quello che solo noi abbiamo notato (difficile, vedi sopra) o che ci sia un qualche catalizzatore che renda esplicito il valore. Senza di questo è più probabile che l’azienda generi rendimenti sul capitale insufficienti a causa di pressioni competitive, abbia una crescita bassa o nulla o un management mediocre. Non è sempre questo il caso, ma senza un vero catalizzatore l’azienda rimarrà a lungo nel suo “limbo”.

Quindi le probabilità di avere una performance migliore comprando solo alcune azioni cheap su P/E o P/BV senza un’analisi approfondita sono statisticamente basse. Non sono a conoscenza di nessuno studio specifico, ma la mia impressione è che la miglior performance di questi portafogli diversificati sia dovuta ad una “power law”, ossia sia determinata da un loro sottoinsieme ridotto: gran parte delle azioni cheap si rivelano delle value trap, e tutto l’alpha è dovuto alle poche che invece ritornano ai fasti passati e più che compensano per quelle che continuano a deperire.

Semplicemente comprare cheap espone al rischio di investire in “cattive” aziende: la maggior parte della performance di un titolo nel lungo periodo viene infatti dalla crescita di utili/FCF per azione (non assoluta!), e raramente si ha lo stesso impatto su più anni dall’espansione dei multipli, se non durante una crisi di liquidità.

In un mondo ideale si verrebbe compensati sia dall’espansione dei multipli che dalla crescita dei fondamentali; ma nel mondo reale un investimento si riduce alla questione filosofica di come si vuole essere ripagati. Si preferisce comprare azioni cheap e sperare nel bacio della principessa, oppure si preferisce comprare un purosangue ad un prezzo ragionevole e lasciare che ci dia buoni risultati nel corso del tempo? La famiglia del value investing accoglie investitori con opinioni e strategie differenti.

“To me, value investing is a big tent that accommodates many different people. At one end of the tent there is Ben Graham, and at the other end of the tent there is Warren Buffett, who worked with Graham and then went out on his own and made adjustments to the teachings of Ben Graham. (Jean-Marie Eveillard)"
Conclusioni
Mr. Market è spesso bipolare ed i prezzi possono deviare anche molto dal loro valore intrinseco. Ma quando un intero settore sembra cheap (soprattutto se non c’è vero panico), allora è più probabile che il mercato “sappia qualcosa”. Prima della crisi finanziaria, molte banche erano tra le azioni più a buon mercato, e durante la crisi ancora di più; e le commodities sono sembrate cheap per molto tempo prima del 2014-2015. In entrambi i casi questi investimenti sembravano no-brainers, e molti sono entrati contando su una mean-reversion che non c’è stata (il prezzo del petrolio non può solo risalire…). Adesso sappiamo che le basse valutazioni erano invece giustificate e che il mercato “sapeva”: non ci sono no-brainers in situazioni di normalità.

Comprare cheap può funzionare, in aggregato, in situazioni ben definite:

  • dopo un vero crash, quando tutto è a buon mercato (1929, 2008)
  • quando c’è un sentimento negativo su un paese/regione (mercati emergenti dopo la crisi del 1998)
  • per aziende e settori “dimenticati” o meglio odiati (small-cap ignorate dai grandi fondi; banche; oil&gas, …)
  • per situazioni “complicate” che molti preferiscono non affrontare (spin-offs; holding company; …) 
Quindi, o si segue una strategia sistematica (come faceva ad esempio Walter Schloss o come fa oggi, partendo da teorie completamente opposte, Dimensional Fund Advisors, fondato da Eugene Fama), oppure si fa un’analisi approfondita caso per caso: avere successo in maniera costante con una strategia intermedia è molto difficile.

5 commenti:

  1. Ciao Matteo,
    Interessante pezzo! Personalmente trovo molto difficile dare il prezzo "giusto" al momento "giusto" e per questo motivo per il mio personalissimo set di investimenti punto ai dividendi e verso aziende che "tecnicamente" non dovrebbero riservare sorprese, diciamo piu "boring". Però alla fine dipende tutto dalla strategia e dagli obbiettivi che uno si prefissa, non credi? Se cerco un 10% annuo dagli investimenti è un conto, se mi accontento di un 2% è un'altro, non trovi? Complimenti per il blog (sono un tuo assiduo follower) :)
    Ciao ciao
    Stal

    RispondiElimina
  2. Ma anche il "Quality" può essere robotizzato, o no?

    Per esempio l'indice MSCI propone i "SECTOR NEUTRAL QUALITY INDICES" che anzi che basarsi su: P/BV + P/FWE + EV/EBITDA (come per gli ENHANCED VALUE INDICES), si basano invece su: ROE + Low Leverage + Low Earnings Variability.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Certamente

      ROE/ROIC e leverage sono facili da "automatizzare"; considerazioni su "capacità del management di allocare le risorse" o "forza del moat" (molto più importanti nel lungo periodo) no.

      Per queste ritengo serva ancora l'intervento umano...

      Elimina
    2. Non discuto sul valore dell'intervento umano.

      Mi chiedo perché MSCI non faccia un indice che sia Value + Quality, cioé che oltre a P/E, P/BV, EV/EBITDA non guardi anche che il ROE sia sopra un certo valore, che l'indebitamento sia basso e gli earnings stabili.

      Elimina
    3. domanda lecita: probabilmente ci stanno già pensando e lo pubblicheranno appena qualcuno ci vorrà fare sopra un ETF (quasi tutti questi indici "innovativi" nascono perchè sono utilizzati per una qualche strategia)

      Elimina