lunedì 27 giugno 2016

Brexit e banche italiane

L’impatto del voto inglese si è fatto sentire soprattutto sul continente, con le principali banche italiane che hanno perso tutte oltre 20% in un solo giorno: Popolare Emilia Romagna -25%, Popolare Milano -24%, Unicredit -24%, Banco Popolare -23%, Intesa -23%, Mediobanca -21%, UBI -21%. A fronte di questo, le banche inglesi hanno perso “relativamente” meno: HSBC (-1%) e Standard Chartered (-3%) perché più globali e focalizzate sui mercati emergenti, mentre Barclays (-18%) e Lloyds (-21%) sono più domestiche.

Il rischio principale per le banche UK è di tipo operativo: essendo sostanzialmente un business ciclico, la performance delle banche è strettamente collegata a quella delle economie nelle quali sono presenti. Il voto di Brexit dovrebbe portare ad una contrazione del PIL inglese (= maggiori perdite sui prestiti), nonché a politiche monetarie più espansive (= ulteriore compressione del Net Income Margin). Oltre a quelle già ricordate, altre istituzioni che hanno esposizione all’economia inglese e che quindi saranno impattate negativamente dal calo della sterlina sono Bank of Ireland (43% dei prestiti in UK), Sabadell (19% dei profitti in UK), Santander (24% dei profitti in UK) e Handelsbanken (9% dei prestiti e 16% dei profitti in UK).

Il secondo potenziale impatto è dal punto di vista regolamentare. A seguito della crisi, le banche inglesi – pur all’interno della direttiva europea CRD IV – sono state soggette a requisiti patrimoniali più stringenti delle banche europee, e quindi non dovrebbero subire ulteriori aggravi. Quello che invece porterà ad effetti veramente negativi è il cosiddetto pass-porting di servizi finanziari in e da la Unione Europea (che vale anche per tutte le banche internazionali che usano Londra come hub). L’uscita dalla EU potrebbe significare che queste istituzioni dovranno costituire nuove società in ogni paese nel quale vogliono operare, che significa maggiori costi e tassazione a livello locale. Ed è per questo che sono stati gli asset manager inglesi a subire i colpi peggiori venerdì scorso: Henderson (-18%), Jupiter (-14%), Schroders (-12%), Aberdeen (-11%).

Implicazioni per le banche “periferiche”

Il voto su Brexit avrà implicazioni di lunga durata soprattutto sulle banche europee a causa dell’impatto sui tassi d’interesse: spread sui titoli di stato più ampi per i paesi periferici, cambiamenti nelle strategie di carry trade e maggiori costi di funding. Questo è particolarmente rilevante per le banche italiane e spagnole che includono i guadagni sui titoli AFS (available-for-sale) nel calcolo del CET1.

Secondo i dati di Deutsche Bank, al 31 marzo 2016 le banche italiane detenevano in portafoglio €401 miliardi di titoli di stato italiani, dei quali €283 miliardi in BTP. Di questi circa 83% erano classificati come AFS ed i relativi guadagni (perdite) inclusi nel calcolo di CET1 fully-loaded. Sempre secondo le analisi di DB, ogni aumento di 50bp nei tassi dei titoli di stato italiani porta ad una diminuzione di circa 30bp nel CET1 ratio (per le banche sotto coverage di DB, n.d.r.)


L’altro aspetto dei tassi è nel loro impatto su NII tramite il cosiddetto carry-trade: anche se ridotto di molto dal 2011/2012, per le banche italiane il contributo del portafoglio di titoli di stato sul NII è comunque nell’ordine di 10%-12%. Il trend degli ultimi anni è stato quello di ridurre la dimensione del carry-trade, ma la Brexit potrebbe obbligare le banche a mantenerlo per più tempo o addirittura allungarlo (ad esempio attraverso TLTRO).
L’ultimo aspetto è legato all’incertezza/volatilità dei mercati finanziari, con il costo del funding per le banche periferiche che aumenterà. Queste difficoltà riguardano il costo delle obbligazioni emesse sui mercati internazionali (gli investitori richiedono cedole/rendimenti più alti); ma se questo mercato dovesse diventare più “difficile” da accedere, allora le banche saranno costrette a sostituire i prestiti wholesale con quelli retail (depositi e obbligazioni bancarie), che potrebbe portare ad una guerra per accaparrarseli. Bene per i risparmiatori (maggiori interessi sui conti di deposito), male per le banche.

3 commenti:

  1. Speriamo allora che passino ai prestiti retail. :-)

    Le banche peggio per loro, tanto in Italia ce ne sono comunque troppe che non servono ad una benemerita mazza!

    Mi sorprende che in tutto questo caos sia calata moltissimo anche Banca IFIS che invece vivendo di NPL (comprati per un tozzo di pane) dovrebbe continuare la sua ascesa.

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    1. Banca Ifis ha, o meglio aveva, un enorme portafoglio di titoli di stato (enorme rispetto alle altre attività): da oltre €3 miliardi a fine 2015, nel primo trimestre ha venduto oltre €2 miliardi di titoli con una plusvalenza di €5,5 milioni (tra le passività ha “ridotto” i relativi repo su questi titoli).

      Questo vuol dire però che nel conto economico non ci saranno più queste ricche cedole e/o le plusvalenze (carry trade), e quindi il margine di intermediazione dovrebbe risentirne.

      L’altra cosa che potrebbe "spaventare" il mercato (questa è solo una mia ipotesi) è che i crediti verso la clientela (€3,3 miliardi di NPL) sono quasi interamente finanziati da Rendimax (appunto circa €3,3 miliardi). È vero che questo è un ottimo prodotto che piace molto ai risparmiatori, ma cosa potrebbe succedere se in molti si spostassero verso altre banche che fanno offerte migliori? Gli attivi (NPL) non sono così liquidi/mobili come i conti di deposito.

      Detto questo, dal punto di vista sia macro che micro, meglio una banca piccola e specializzata che i giganti ingestibili.

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  2. Un'ottima occasione d'investimento è BINCKBANK NV NL0000335578
    Ingiustamente bastonata (il prezzo perde il 50% a due anni), come tutto il settore bancario, quando non ha nulla a che vedere con problematiche relative ad NPL, anzi fa buoni utili, e stacca corposi dividendi.
    Meditate gente, meditate!

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