giovedì 25 maggio 2017

Value investing quantitativo

Un recente articolo pubblicato nel Financial Analyst Journal (“Facts about Formulaic Value Investing”, disponibile qui come working paper) analizza l’uso delle strategie sistematiche nel seguire un approccio di value investing. L’elemento caratteristico di queste strategie è che non cercano di identificare in maniera accurata il valore intrinseco di un titolo, quanto piuttosto di ordinarli in base ad alcuni parametri per investire solo in quelli che rientrano nei criteri prescelti.

L’articolo comincia con la storia del value investing, che risale al fondamentale testo del 1934 “Security analysis” di Graham & Dodd. Nonostante alcune “interpretazioni” nelle ultime decadi, i due hanno sempre respinto l’idea di determinare il valore intrinseco di un’azione utilizzando formule semplicistiche basate su utili o book value. L’obiettivo dovrebbe essere piuttosto di stimare earnings power, che devono essere determinati sulla base di un’attenta analisi quantitativa ma soprattutto qualitativa.
“In the mathematical phrase, a satisfactory statistical exhibit is a necessary though by no means a sufficient condition for a favorable decision by the analyst” (Graham & Dodd).
L’approccio formulaico diventò popolare a partire dagli anni 1980, supportato in larga parte dagli studi di Fama & French ma soprattutto dalla scoperta di numerose “anomalie” nella teoria dei mercati efficienti: value investing cominciò ad essere sinonimo di strategie basate su ratio di numeri contabili rispetto al prezzo di mercato (P/E, P/BV, dividend yield, …). Nel 1987, infatti, Russell Investments introdusse i primi indici azionari per stile: inizialmente chiamati “price-driven index” e “earnings growth index”, servono come benchmark per portafogli che investono in un sottoinsieme specifico del mercato, e sono tipicamente basati su formule per segmentare l’universo di titoli.
I risultati dello studio non sono positivi per queste strategie puramente quantitative: non vi è nessuna particolare evidenza di excess return nel selezionare i titoli sulla base di questi multipli semplicistici. Piuttosto che aziende sottovalutate, questi ratio identificano titoli per i quali il valore contabile utilizzato è temporaneamente gonfiato:
  • P/BV: titoli il cui book value è sopravvalutato e che viene poi written down.
  • P/E (trailing, sugli utili passati): titoli con utili provvisoriamente elevati che poi diminuiscono
  • P/E (forward, sugli utili attesi): titoli per i quali il sell-side ha previsioni troppo ottimistiche
Questi risultati suggeriscono che gli investitori “sofisticati” hanno anticipato queste distorsioni contabili e prezzato i titoli di conseguenza.

Già 80 anni fa Graham & Dodd asserivano che una semplice strategia basata su multipli semplicistici non sarebbe stata in grado di portare a rendimenti superiori in maniera consistente. L’arrivo dei computer e di database finanziari più completi ha portato ad un nuovo interesse per queste strategie: non deve sorprende che, analizzandone decine di migliaia, se ne sia trovata qualcuna che funziona in un qualche mercato su un qualche periodo di tempo. Diverso è se in futuro potranno ripetere questa performance. 

Una delle conclusioni dell’articolo è che l’uso dei ratio dovrebbe essere il punto di partenza, non di arrivo: aggiungendo a questo approccio formulaico per value il buonsenso (fattori come redditività, qualità delle aziende e momentum) porta infatti a risultati migliori.

“Quantitative approaches to detecting these distortions - such as combining formulaic value with momentum, quality, and profitability measures - can help in avoiding these “value traps.” A capable analyst, however, should be able to significantly enhance quantitative approaches with Graham and Dodd–style security analysis.”
Sfortunatamente, l’articolo non si spinge fino a definire le caratteristiche di questo “capable analyst”: un umano, o magari un algoritmo (AI) più sofisticato?

In altre parole, l’eterna questione: stock picking è arte o scienza?

1 commento:

  1. Probabilmente tra arte e scienza. La soluzione migliore è sicuramente una prima selezione quantitativa tramite le macchine, e successivamente un’attenta analisi che una macchina non può fare.
    Greenblatt nel suo libro “the little book that beats the market” (libro che ho letto – il mio primo libro) cerca di trovare tramite un approccio quantitativo una soluzione per l’investitore retail che non ha molte (o nessuna) competenza in materia di investimenti.
    Dimostra nel suo libro che la magic formula batte l’indice standard and poors nel lungo periodo concludendo pertanto che la sua formula è valida alla luce del fatto che la maggior parte dei gestori professionisti nel tempo ha fatto peggio dell’indice, ed in più si sono presi ovviamente i fees per la gestione del fondo.
    Detto questo investire con un approccio di selezione dei titoli puramente quantitativo a me da poca sicurezza.
    D’altronde anche Greenblatt nel suo libro afferma che investire in poche aziende ma “buone” è senz’altro migliore ma ovviamente non è alla portata di tutti..

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