giovedì 16 aprile 2020

Investire ai tempi del COVID-19

Post molto lungo con qualche informazione che ho raccolto nelle ultime settimane. Tutto quello che segue sono previsioni personali sull’impatto della crisi attuale su alcuni settori: non ho particolari competenze per determinare come si evolverà la situazione in termini di contagi ed eventuali riaperture, e men che meno della loro tempistica. Non ho alcuna idea se la ripresa economica sarà a “V”, oppure a “U” o a “W”, e non credo di aver nessun vantaggio nell’anticipare meglio del mercato l’andamento dei prossimi 6-18.
È indubbio che quanto successo e le decisioni dei governi abbiano causato una disruption economica, anche se sposo fermamente l’opinione di Nassim Taleb, espressa già lo scorso 8 marzo:



Questa crisi è anche molto differente da quella del 2008. In primo luogo, ad inizio 2009 c’era una moltitudine di azioni sottovalutate: si poteva vendere qualcosa di cheap per comprare qualcosa di più cheap e nei 5 anni seguenti si sarebbe fatto bene. Oggi, sotto molti aspetti, la crisi è più severa, ma al contrario di allora non si trovano opportunità veramente a prezzi di saldo.
[So che non è molto politically correct ma passatemela…]

Al momento non ho fatto alcun cambiamento al mio portafoglio (devo ammettere più per pigrizia che per convinzione), ma sono propenso ad utilizzare il rally corrente per eliminare alcune posizioni marginali, anche se in pesante perdita.

In senso molto ampio, tendo ad essere d’accordo con chi ritiene che prima o poi le cose ritorneranno ad una situazione di equilibrio (ad esempio, post-vaccino) molto simile a quella appena precedente la pandemia: i cambiamenti permanenti nella società dovrebbero essere di gran lunga inferiori a quello che potrebbe sembrare adesso. Nate Silver ha giustamente fatto notare che le persone tendono a sovrastimare i trend recenti ed a sottostimare la mean-reversion, quindi attenzione a passare velocemente da “le cose sono cambiate radicalmente nelle ultime settimane” a “oh mio dio siamo in un paradigma completamente nuovo!” 

Tuttavia, concordo anche con Martin Wolf, che nel Financial Times ha scritto: “History accelerates in crises. This pandemic may not itself transform the world, but it can accelerate changes already underway.” Ci saranno cambiamenti, e ci saranno vincitori e vinti: per chi fosse interessato ad una prospettiva di lungo periodo (non dovuta a Covid-19) sull'evoluzione delle industrie, Credit Suisse ha un’eccellente discussione qui.

Se il mondo non sta per finire, alcune delle mie personali previsioni:

  • Anche quando tutte le restrizioni saranno rimosse, gli impatti economici perdureranno: per qualche tempo molte persone non andranno in negozi, al cinema o prenderanno un aereo se non strettamente necessario.
  • Attenzione al ritorno dell’inflazione: è vero che l’esperienza recente ha mostrato che stampare moneta da parte delle banche centrali non ha portato maggiore inflazione (almeno nella definizione “classica”); ma la riduzione nella capacità produttiva dovuta a social distancing potrebbe portare all’aumento di alcuni prezzi per i consumatori finali.
  • La pandemia difficilmente rovescierà i trend nella globalizzazione, ma ci potranno essere maggiori frizioni transnazionali, anche per maggiore protezionismo: molti governi potrebbero insistere su produzioni locali di beni necessari, compresi quelli agricoli. Se così fosse, le aziende più piccole e private potrebbero avere maggiori problemi nell’accesso al capitale, e potremmo assistere ad un aumento dell‘importanza delle economie di scala, a vantaggio di quelle aziende globali che hanno specifici vantaggi locali e regionali.
  • Molte aziende nel settore dei beni di consumo, nonché le utilities e quelle healthcare, sono ancora tra un prezzo equo e sopravvalutate, per le loro percepite caratteristiche difensive, ma rimangono tra quelle che manterranno i loro vantaggi competitivi. Giusto per essere chiari, il CEO di Unilever ha dichiarato che “il Corona virus NON è positivo” per l’azienda, e che l’accumulazione di prodotti è un fenomeno ristretto agli US, “che hanno rispostigli più grandi ma soprattutto maggior disinvoltura nell’utilizzare le carte di credito”.
  • Come sempre, rimangono da evitare - indipendentemente da quanto siano statisticamente a buon mercato - le aziende senza vantaggi competitivi e con strutture patrimoniali precarie, come finanziari con forte leva, petrolio (la maggior parte non sono così di qualità e nemmeno cheap nonostante il crollo del petrolio), moltissime aerolinee, …
Banche
Se c’è un settore che è stato punito nel primo trimestre sono – surprise! – le banche, al punto che almeno su P/BV sono più a buon mercato del 2008.

La trimestrale di JP Morgan di ieri ha mostrato utili in diminuzione di 69% al livello più basso negli ultimi 6 anni a causa dei maggiori accantonamenti per perdite sui prestiti ($8,3 miliardi in totale dei quali $4,5 miliardi per i crediti al consumo/carte di credito).

È vero che soprattutto quelle europee sono state distrutte da oltre 10 anni, ma tutti gli aiuti statali al credito commerciale ed alle PMI passerà attraverso le banche, che genererà generose commissioni per loro.

Come sempre, non si può dimenticare il solito caveat che ha dominato nell’ultima decade e che può essere espresso in una sola parola: “Japanification”. In una situazione prolungata di bassa crescita e bassa inflazione, l’esempio del Giappone post-1989 dimostra come lo scenario peggiore per le banche può essere brutale e soprattutto prolungato.
Un punto però è doveroso considerare: con le dovute eccezioni, le banche oggi non sono in una situazione di pericolo esistenziale (al contrario, tutte le start-up fintech sono in una situazione ben peggiore delle banche tradizionali), e tuttavia sono prezzate come se dovessero sparire domani.

Real estate
Anche in questo caso la crisi attuale è più di liquidità che di solvibilità, e quindi avere accesso al capitale sarà ancora più importante: società immobiliari che sono ben capitalizzate e controllano asset durevoli saranno in grado di uscirne ancora più forti una volta che la situazione si stabilizzerà, potendo allo stesso tempo fare acquisizioni a prezzi vantaggiosi.

Al contrario del 2008, quando tutti i segmenti furono colpiti allo stesso modo, questa volta ci sarà maggiore differenziazione: questa crisi potrebbe essere la pietra tombale per quelli che già erano sotto pressione (retail e mall) a favore di chi supporta invece la logistica di ecommerce. Ed anche il segmento degli uffici potrebbe perdere importanza con più aziende che adottano soluzioni (semi)permanenti di smart working.

Per quanto riguarda i titoli nel mio portafoglio, Shaftesbury non dovrebbe avere problemi: rientra tra quelle aziende che stanno subendo la situazione attuale ma continuano ad avere un buon potenziale nel lungo periodo che dovrebbe più che compensare per i dolori correnti. Il suo LTV è solo 23% e possiede asset di pregio: molti negozi e ristoranti non pagheranno gli affitti e/o falliranno, ma nel medio periodo saranno facilmente sostituiti. Hibernia è in una situazione simile (anche se i piani di espansione e crescita post-Brexit saranno rinviati) e lo stesso si può dire di VIB Vermogen. Più complicata la situazione di Raven Property: è vero che opera prevalentemente nel settore logistico e che il tasso di occupazione è del 96%, ma anche il debito è rilevante. Sono invece felice di aver venduto Atrium, che non è ancora riuscita a completare l’acquisizione da parte di Gazit Global. 

Viaggi, turismo ed eventi live
Indubbiamente i settori più impattati e dal futuro più incerto: per i concerti live si parla di ripartire ad autunno 2021.

Mentre è probabile nel tempo il ritorno dei viaggi per divertimento (le persone non smetteranno di andare in vacanza, anche se inizialmente più vicino a casa), un possibile trend potrebbe riguardare la diminuzione dei viaggi per lavoro: ci sono certamente dei buoni argomenti per meeting di persona, ma dove possibile dopo questi mesi in molti si chiederanno se vale il rischio (ed il costo: assieme agli affitti i viaggi sono un’altra grossa spesa per molte aziende) quando si possono fare le videoconferenze. Questo sarà negativo per le agenzie viaggi, ma ancora di più per gli hotel in franchising che si basano su loyalty programs.


Sarà interessante vedere anche come andrà per AirBnB: la quotazione quest'anno è quasi impossibile, e nell'ultima settimana è dovuta ricorrere a due round di fianziamento da $1 miliardo ciascuno (combinazioni di equity e debito, secured a 9% e second lien a 11%, mentre Booking ha emesso un'obbligazione decennale a "solo" 4,625%). 

Aerolinee 

Collegato al precedente e certamente il settore più discusso nelle ultime settimane, anche perché a sorpresa lo scorso 3 aprile Buffett ha venduto $314 milioni di azioni Delta Airlines (DAL:US) e $74 milioni di Southwest Airlines (LUV:US).

Se ho fatto bene i calcoli è passato da 11,1% a 9,2% in DAL e da 10,4% a 9,9% in LUV, quindi vendite marginali e non enormi come sbandierato dall’articolo qui sopra. Una partecipazione superiore a 10% lo rendeva, per le regole di SEC, equivalente ad un insider: BRK ha (aveva?) anche partecipazioni in United Airlines (UAL:US) e American Airlines (AAL:US), ma essendo sotto questo limite non ha dovuto rivelare eventuali vendite, potremo saperlo solo con i risultati trimestrali e la pubblicazione di 13-F.

La sorpresa riguarda il fatto che dopo aver denigrato (a ragione) per decenni i fondamentali delle aerolinee, negli ultimi anni ci aveva invece investito molto (compreso l’acquisto di ulteriori azioni Delta a febbraio quando erano già calate), dichiarando il 24 febbraio che “three of the four [airlines] positions are mine; one of the positions is one of the other fellows’” (probabilmente Ted Weschler, che è amico del CEO di American Airlines).

La sua tesi era che le aerolinee US sono un business maturo, in una sorta di oligopolio difficile da rompere, ma soprattutto erano anche diventate molto più disciplinate nell’allocazione del capitale. Senza dimenticare che tra le large cap le aerolinee erano – con l’eccezione delle banche – l’unico settore che trattava a multipli ad una cifra.

Perché quindi ha venduto, dopo aver ribadito ad inizio marzo che non lo avrebbe fatto? La risposta più probabile è forse la più semplice: non sono più un investimento con un buon rapporto rischio / rendimento. È vero che le linee aeree non sono mai state un grande business (ciclico e prone alla bancarotta), ma oggi sono in una situazione che non si era mai vista: i dati recenti mostrano passeggeri in diminuzione di 95% sull’anno passato. Se si voleva pensare ad uno scenario pessimista si poteva fare riferimento ai mesi post-settembre 2001: il traffico aereo si dimezza per un trimestre e poi recupera in modo graduale. Adesso siamo più vicini a zero traffico per sei mesi seguiti da una significativa contrazione rispetto agli anni passati per ancora qualche tempo: anche quando saranno tolte le restrizioni, quanti avranno voglia di salire su un aereo senza sapere le condizioni degli altri passeggeri con i quali si è a stretto contatto? Nella migliore delle situazioni potranno vendere solo metà dei posti disponibili per mantenere una qualche distanza. Buffett ha visto una situazione peggiore di quanto avesse mai immaginato e che c’era la possibilità tra qualche tempo di vedere ulteriori impairments. Nel 2003 Air Canada fece bancarotta per le conseguenze di 11 settembre e dell’epidemia SARS: anche se le paure di volare non erano giustificate, il calo dei passeggeri fu più che reale. Anche in questo caso funziona l’effetto network, ma al contrario: meno passeggeri interessati a viaggiare = meno rotte coperte = ancora meno passeggeri = molti aerei inutilizzati (Easyjet ha già detto che ridurrà la propria flotta da 350 a 250 aerei) = ulteriore guerra sui prezzi.

[Un’altra ipotesi, anche questa abbastanza discussa, è che abbia venduto parte di Delta e Southwest per avere più flessibilità in termini di antitrust per fare il cavaliere bianco e comprare tutta United o American: comincia con una partecipazione per poi comprare tutta l’azienda come fatto con BNSF.]

A me non sembra che le aerolinee siano ancora a prezzi distressed, a maggior ragione quelle US se il programma di bailout in discussione prevederà dei semplici prestiti e non una ricapitalizzazione. Solo quelle con un solido stato patrimoniale sopravviveranno (la Germania dovrà nazionalizzazione Lufthansa???), quindi potrebbero essere interessanti Ryanair e WizzAir (low-cost, relativamente poco debito), ma anche la loro crescita dei passeggeri subirà un bel contraccolpo.

Lusso
Anche per il settore del lusso il 2020 sarà un anno difficile, con previsioni che sembrano ancora molto ottimiste (solo una contrazione di 10%-15%?) ed aspettative di rapida ripresa dall’anno seguente.

Come mostra il grafico seguente, il settore è assolutamente dipendente dal turismo internazionale: a seconda di quanto dureranno i lockdown, non sarei sorpreso di vedere per alcuni di questi nomi una riduzione nei fatturati tra un terzo e 50%.
Advertising, incluso digital
Le spese pubblicitarie sono tra le prime ad essere tagliate in una recessione, e questa volta dovrebbe comprendere anche quelle digitali.

Il settore dell’advertising è infatti molto ciclico e strettamente correlato all’andamento del PIL, come si può vedere nel grafico sottostante (scusate per la pessima qualità: le barre blu indicano la variazione percentuale annuale nelle spese per pubblicità, le barre arancio la variazione del PIL).

È vero che la pubblicità digitale è in crescita secolare, ma difficilmente sfuggirà all’elemento ciclico dell’andamento macroeconomico. Molti indicano la capacità di Google di crescere nella crisi del 2008 come una scusa per ignorare la situazione attuale, ma quello che è cambiato da allora è la penetrazione: rispetto al 2008, oggi il digitale rappresenta oltre il 50% di tutte le spese pubblicitarie sui vari media. Se le relazioni storiche rimangono valide, non è possibile prevedere che quella digitale non subisca una contrazione quando il PIL crolla di 20% in un trimestre.
Questo perché la pubblicità, anche quella digitale, è “liquida”: al contrario di quanto è stato già impegnato per eventi poi cancellati, gli acquisti di pubblicità sono programmatici, tutto quello che può essere tagliato in una recessione verrà tagliato, ed un buon punto di partenza sono proprio gli ads con bassa probabilità di riuscita (perché i clienti non sono in grado di acquistare il tuo prodotto – viaggi/retail – o perché sono molto incerti su acquisti discrezionali – auto).

Questo grafico indica quali saranno le piattaforme che vedranno la propria pubblicità sparire per prima (va letto al contrario da destra verso sinistra).

Facebook e Google sembrano inattaccabili in quanto sono le destinazioni preferite da tutti, ma il prezzo dei loro ads è determinato da “aste” in tempo quasi reale: con la richiesta di visibilità da parte degli inserzionisti che è calata, anche i loro prezzi sono diminuiti.

Energia
Non so perché continuo ad interessarmi del settore energetico, dove i miei due unici acquisti sono stati un colpo eccezionale (Burren Energy nel lontano 2007, comprata a premio da ENI due settimane dopo il mio ingresso) ed un disastro (Riverstone), e dove non vedo niente di particolarmente interessante.

Si tratta tuttavia di un altro settore molto “chiacchierato”, sia per l’impatto del virus ma anche e soprattutto per le decisioni dell’Arabia Saudita. La dovuta premessa è che i prezzi delle commodities, e principalmente del petrolio, sono guidati da una serie di considerazioni che esulano dalle semplici dinamiche di domanda ed offerta.

Le stime sono sempre imprecise, ma quando la Cina ha messo in atto le prime restrizioni la domanda di petrolio si è ridotta di 3-4 mbpd (“million barrels per day”): adesso che la Cina sta tornando in attività, parte di questo calo verrà recuperato, ma adesso è il resto del mondo che è in lockdown. Solo negli US la domanda di benzina è diminuita di due terzi: poiché i carburanti da trasporto rappresentano circa 60% di tutta la domanda di petrolio in US, questa potrebbe essersi ridotta di circa 9 mbpd. Da un solo segmento, in un solo paese. Simili considerazioni si possono fare per gran parte dell’Europa, dove la chiusura delle attività industriali ha fatto crollare la domanda di elettricità (è vero che siamo stati tutti impegnati a fare pane e torte, ma il consumo elettrico residenziale è una frazione di quello industriale).

Anche se ho visto previsioni di eccesso di offerta di 30-35 mbpd, alla fine di marzo la riduzione nella domanda di petrolio sembra essere stata di circa 15 mbpd su un totale pre-virus di 100 mbpd: si tratta della maggiore riduzione storica in termini sia relativi che assoluti, ed è avvenuta in meno di tre mesi (in molti casi in meno di tre settimane). E questo considerando che a fine marzo solo Europa e US erano veramente ferme: l’India aveva appena iniziato, il Giappone comincia adesso (hanno aspettato di vedere se potevano fare comunque le Olimpiadi…), il Brasile è ancora in pieno diniego, mentre paesi come Messico, Russia ed Indonesia hanno appena cominciato ad applicare misure di distanziamento sociale. E come la Cina dimostra, ci vogliono almeno tre mesi per tornare ad una situazione di semi-normalità: tre mesi off-line e solo graduale ripresa è lo scenario ottimista.

Vediamo dal lato della domanda. Dal lato dell’offerta, la cosa più educata che si può dire è che i sauditi sono “incazzati”: sono da sempre i maggiori esportatori di petrolio (non sono più i principali produttori, che è passato agli US) e negli ultimi 50 anni si sono assunti il compito, sia all’interno di OPEC che al di fuori, di “regolare” l’offerta mondiale di greggio. Negli ultimi anni, chi ha più “contrariato” l’Arabia è stata la Russia, che è il secondo esportatore netto al mondo ed il secondo principale raffinatore. La Russia ha sempre fatto finta di collaborare ma non lo ha mai fatto in realtà, beneficiando delle riduzioni periodiche a spese dell’Arabia Saudita: sia per motivi politici interni, ma anche per ragioni geologiche (in Russia è impossibile “chiudere” completamente un pozzo perché data la situazione climatica poi diventa lungo e costoso riaprirlo). 


Lo scorso febbraio tutti i paesi OPEC avevano raggiunto un accordo su alcune riduzioni, tutti eccetto i russi: i sauditi allora hanno stracciato l’accordo ed annunciato una guerra totale portando sul mercato tutte le loro risorse (+1 mbpd a marzo, +2 mbpd a partire da maggio). La situazione di over-supply è tale che molte raffinerie stanno finendo lo storage disponibile, e ci sono molti tankers partiti dal Golfo Persico che ancora non sono arrivati agli acquirenti (ci vuole spesso un mese).

Chi vincerà è tutto da vedere: a questo si devono aggiungere anche considerazioni sulle personalità in questione (il principe Mohammad bin Salman vs. Putin) e sulle riserve valutarie dei paesi coinvolti.

Visto il peggiorare della situazione, i sauditi hanno fatto delle apertura di “emergenza”: l’ultimo accordo raggiunto sembra comprendere una riduzione di 8,5 mbpd. Ci sono, come sempre, molti dubbi sulla sua effettiva realizzazione, in primo luogo perchè il maggior taglio storicamente mai fatto dall’OPEC è stato di soli 3 mbpd. Inoltre, in questo caso l’accordo riguarda anche paesi non-OPEC (che dovrebbero tagliare di 2,9 mbpd sul totale, inclusi gli US): la sua tenuta si basa su tagli fatti “volontariamente” da paesi che non hanno mai tagliato, non tutti i membri OPEC vi partecipano (Venezuela ed Iran sono escluse), la Russia dovrebbe tagliare le esportazioni di quanto il Kuwait esporta in totale, …. Tutto sommato, anche se tutti dovessero collaborare (ed è un grosso se), non sembra abbastanza per riequilibrare la domanda, almeno alle condizioni attuali. Non esattamente le condizioni per vedere un rally del prezzo del petrolio.

5 commenti:

  1. Considerazioni interessanti ed immagine "Fed action" fantastica! Rappresenta molto bene la situazione corrente

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  3. Non solo il mercato è da anni distorto dalla azione delle banche centrali, ora la fine della separazione fra Tesoro e Fed
    - nel silenzio quasi generale - sancisce il trionfo del conflitto di interesse anche in politica economica.
    La Fed è ormai come la BOJ, compra lei quello che gli altri attori non vogliono comprare, così salviamo le apparenze (e i fondi pensione). A questo aggiungerei che siamo spettatori dello story telling di Trump, che da mesi fa campagna elettorale per novembre 2020; anche le "sue" decisioni di inondare di liquidità gli amici rientrano nel plot generale, non solo per mantenere liquidità a mercati frizzati. Con queste premesse noi possiamo andare avanti con misure di P/E, P/B eccetera, ma qui è come giocare a poker con un avversario che può sempre prendere le carte che gli servono (i trilioni) da un altro mazzo. Mi si passi il paradosso, ma a me sembra che l'obiettivo sia non farci rientrare più in questi mercati (appena scende lo ripigliano in mano a colpi di Trilioni), per cui ci si condanna a restare investiti a multipli assurdi anche se non ci si crede, ora più che mai. Crollerà solo quando l'ultima vecchietta sarà investita al 90% in azionario, e sì vedremo davvero dei P/E interessanti.

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  4. Complimenti come sempre per le analisi interessanti e profonde!
    Personalmente sono molto stupito dal fatto che sui mercati si stia apparentemente ignorando la gravità della situazione grazie alla mega liquidità immessa dalle banche centrali. Poi ovviamente si nota una grossa forbice tra settore e settore, tra azienda e azienda, come è giusto che sia.
    Come trend accentuati da questa pandemia, non potrebbe essere interessante l’utilizzo di carte di credito? Visto che aumentano gli acquisti online e anche nei negozi fisici si potrebbe voler evitare il contante ( sporco/infetto?). MasterCard e Visa sono un po’ scese ma certamente non cheap, ma potrebbero non esserlo mai! Però preferirei loro alle banche, che in ogni crisi sono tra i settori che crollano di più, a torto o a ragione...

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    1. l'idea nel lungo periodo è quella, ma nel breve saranno comunque impattate dalle restrizioni negli spostamenti (viaggi, aerei, alberghi, vacanze, bar, ristoranti, ...)

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